“Tutto fu in altri tempi, tutto sarà di nuovo;
solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento”
[Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, Einaudi, Torino 2009]
Francis Bacon e Lucien Freud, come pochi altri, sono riusciti a mettere in arte pittorica, con struggenti espressioni narrative, la tragedia della tensione che non approda all’incontro e implode nel corpo, disfacendolo. Non pochi antecedenti li aveva anticipati Egon Schiele. La disarticolazione della forma è solo la manifestazione visibile del tormento interiore, reso con sfaldamenti umorali, viscerali, epidermici, in grado di parlare, a chi si ferma a guardare, un linguaggio inaudito e indicibile. Non è, infatti, ovviamente, l’anestesia, a indicare la crisi del desiderio. Ma un sentire insopportabile e incontenibile che non riesce a trovare la via e la relazione per esprimersi. Una relazione d’oggetto travolgente e sistematicamente mancata. Accompagnata da rabbia per non giungere se non alla soglia del sentire, o da indifferenza per la stessa ragione, la crisi del desiderio apre la porta alla ricerca di uno sperimentare purchessia. I corpi si tendono perché devono tendersi e una specie di volontà si propone come sostituto del desiderio. Per lo meno di quel desiderio che precede, quello che viene prima, che non riguarda intenzioni né calcoli, ma strappa la pelle nel tendere all’oggetto desiderato. Una voce di dentro mi domanda: ma sei sicuro che si capisce di cosa stai parlando?
Egon Schiele
Comprendere il desiderio significa alfine metterlo in atto, agire oltre la soglia di se stessi, al limite della perdita del confine di sé, in quello spazio/tempo del sentire dove si rischia di non ritrovarsi. Dove all’altra o all’altro si domanda: ma dove mi hai portato? E poi agirlo nuovamente, il desiderio, in un processo in cui perdersi e trovarsi, creazione e vissuto diventano complementari, in uno slancio che sfida il limite di sé e, comunque, mal lo sopporta. Qualora si provi ad estrarlo dall’atto, il desiderio appare una congerie quasi casuale di elementi sconnessi, e non più quella divina fornace di creazione di significati che di fatto può essere. Ed è nell’atto e nella parola per narrarselo che sta il cuore del desiderio e della sua poesia. Perché, del resto, identificare il desiderio con la cosa che lo rappresenta, senza finire nella pornografia? Il desiderio è dunque più grande della cosa, e la precede, rappresentando la cosa solo una parziale incarnazione. Ogni desiderio, se è tale, è uno slancio e un fascio incondizionati, e il significato ne emerge in direzioni diverse, senza convergere né esaurirsi mai in un punto o in un evento soltanto. Il desiderio afferra, dunque, le onde dell’esistenza, si esprime in provvisorie incarnazioni, a volte durature o anche definitive, sempre, comunque, in una tastiera di rimandi che suona e risuona in modi inediti e incandescenti la sua musica.
Francis Bacon
Dov’è, oggi, questo desiderio? Quando lo abbiamo smarrito? La condizione del corpo che si contorce invano alla sua ricerca, fino a disfarsi, è in fondo quella più prossima al sentirne presenza e effetti. In quel tormento risiedono le vestigia di quel che fu possibile vivere o almeno avvicinarsi a vivere. Alcuni ne hanno memoria, altri tentate esperienze, piene qualche volta, passeggere molto spesso. Nel maggior numero dei casi sembrano, in questo nostro tempo di indifferenza anaffettiva, esperienze inaccessibili, riposte in luoghi dimenticati, quegli stessi luoghi di noi stessi ripiegati nel silenzio della carne e nella meccanica di gesti ripetitivi in lotta perenne con la noia. Di gesti che impongono l’afflizione e il costo del dopo e delle domande che inducono a chiedersi perché l’ho fatto, con l’urgenza degli affrettati lavaggi dei corpi. Quando non sono la pura sosta nell’immaginario e la via virtuale a costituire l’ambiente in cui rifugiare l’insopportabilità della continuità e del legame; il calore e gli umori della presenza; la propensione ad evitare ogni rischio primario di contatto. Allora l’incandescenza si fa fredda e la solitudine si fa casa, in una singolarità illusoria in cui sentirsi sicuri da morire.
Edward Hopper
Gli episodi arrangiati, segni discreti del continuo con cui il desiderio se ne sta imploso in noi stessi, ripiegano come calchi vuoti di quello che avrebbero potuto essere e non sono stati. Risonanze senza suono, atone, percorrono il corpo e i pensieri. Sono solo le vestigia effimere di quell’esperienza in cui prima ancora di qualunque gesto, prima di ogni parola, la poetica del desiderio già risuona e rivolge il suo timbro all’oggetto agognato che lo suscita. È l’immagine interiore che risuona e tende verso ciò che ti lega al mondo, che si incarna nell’altra o nell’altro, come isola di senso e fonte che disseta. Ogni immagine dell’esperienza vissuta dà vita alla successiva in un circolo che ricorrendo si rinnova.
Balthus
Sembra quel circolo ad essersi spezzato. Quando il simbolico si è dissolto nell’immaginario e il desiderio si è consegnato al godimento. È come se, da un certo momento in poi, avessimo neutralizzato i fattori di base: il corpo, la carne, gli umori, gli odori. Come se ne avessimo fatto entità innominabili. Materia da trattare con depilatori, deodoranti, igienizzanti, anestetizzanti. Una cosmesi del sentire e dell’anima del desiderio. Materia da recuperare semmai, e solo quanto basta, con strategie canonizzate da manuali, ricorrendo a piccole o grandi perversioni attivanti. I rituali, canonizzati anche quelli, necessitano di continue rivisitazioni, all’insegna dell’impellente monito secondo il quale bisogna godere. Un edonismo necessitato sale sulla scena e consuma atti e fatti che stentano a giungere alla soglia dell’esperienza, senza riuscirci quasi mai. Un’autonomia senza dipendenza finisce per realizzarsi, per esaurirsi poi in solitudine. Una solitudine troppo rumorosa, ma non per questo meno seduttiva, in grado com’è di far apparire simulacri come se fossero realtà; immaginari come se fossero oggetti buoni; rappresentazioni della vita come se fosse vita.