“Crisi” è quello che gli studiosi, con una formula un po’ scherzosa, chiamano “termine
valigia”, in ragione del suo spettro semantico esteso e di una plasticità che fa sì che esso tolleri
e attiri svariate qualificazioni semantiche. A livello individuale, si danno crisi motivazionali,
psicologiche, esistenziali, personali, identitarie, religiose e così via. A livello collettivo, si danno
crisi culturali, di valori, di credibilità, fiducia, senso. Più note di tutte, poi, le crisi sanitarie,
economiche, politiche, storiche, ecologiche o ambientali. Alla polisemia si accompagna anche
un’oscillazione o una deriva diagnostica. Il termine dovrebbe infatti connotare fasi eccezionali –
non normali, fisiologiche, organiche – della vita di un singolo, di una collettività, di una società o
un’epoca. Non si può insomma essere sempre in crisi perché è come non esserlo mai: una crisi,
per definizione, dovrebbe iniziare, durare, finire. Queste perplessità sull’estensione e
sull’estenuazione del concetto – o dei fenomeni della realtà che esso connota? – non fa venire
meno il fatto che, se dovessimo scegliere un concetto che definisca nel modo più attuale lo
stato in cui ci troviamo oggi, il concetto di crisi si rivelerebbe forse il più adeguato.
L’etimo della parola è greco: krisis, derivato dal verbo krinein che significa “giudicare” –
più precisamente, giudicare in un momento decisivo. I primi usi risalgono probabilmente al
lessico religioso. Giudicare nel senso di “discernere”: per esempio, interpretare il volo degli
uccelli o individuare le migliori vittime sacrificali – quindi l’azione o la facoltà di distinguere.
Krisis, dunque, come scelta, come decisione. Uno slittamento semantico ricolloca presto il
termine in altri ambiti: il diritto e la medicina – la decisione del giudice e la decisione del medico.
Nel campo del diritto l’uso è più ovvio e in parte rientra tuttora nel nostro linguaggio. Nella
diagnosi medica, “crisi” descrive lo stato di un organismo di fronte allo svilupparsi di una
malattia, fino a un picco locale e catastrofico che lo mette per intero in pericolo. In questa
situazione, detta appunto “critica”, il medico deve scegliere la cura più opportuna. La crisi
prelude a un cambiamento nella situazione del malato – in positivo o in negativo: un
miglioramento o un aggravamento. Ancora nell’Enciclopedia – l’Enciclopedia dell’Illuminismo,
curata da Diderot e d’Alembert – la lunga voce “crisi” (redatta da De Bordeu, medico a Parigi),
pur facendo cenno alle origini religioso-giuridiche, è anzitutto una disquisizione medica, in cui
Ippocrate e Galeno sono i nomi più ricorrenti.
Ma è proprio nella temperie culturale illuministica che il termine comincia ad arricchirsi di
un’accezione storico-politica, entrando nel dominio della temporalità e dell’esperienza del
tempo. La crisi è, anche nel lessico della storia, un momento decisivo in cui occorre operare
delle scelte. Come nel decorso clinico, anche nel processo storico c’è un “prima” e un “dopo la
crisi”. Sotto il profilo storico-politico, la crisi, si dice, “fa epoca”, perché produce mutamenti
rilevanti – che, anche in questo caso, possono agire in senso positivo o negativo sulle sorti di un
individuo, di un popolo o di una nazione. Ben prima dell’Illuminismo, in quello stesso ambiente
culturale in cui il termine si è forgiato – la Grecia classica – alcuni interpreti individuano il primo
uso del termine “crisi” come momento che “fa epoca”, come spartiacque storicamente rilevante.
Lo utilizza Tucidide nella sua storia della Guerra del Peloponneso, indicata come la “più grande
crisi” che sconvolse la Grecia antica, come frattura, cambio d’epoca decisivo – in cui, non a
caso, si dovettero prendere decisioni di estrema importanza – che segnò il passaggio dall’Atene
di Pericle all’Atene dei Trenta Tiranni. La crisi, in quanto spartiacque, inaugura un tempo nuovo
– e, nel caso di Tucidide, una temporalità nuova: dal tempo della natura – ciclico come quello
delle stagioni – al tempo della storia e della politica – in evoluzione, in sviluppo – sia questo
sviluppo teso oppure no al raggiungimento di un fine.
Nel Medioevo non si registrano significative variazioni dell’uso del termine, che resta
quasi sempre limitato alla dimensione medica. È la Modernità che, dal punto di vista storico,
risulta segnata, in modo più ricorrente e più significativo rispetto alle altre ere storiche, da
momenti di crisi. Le grandi crisi della modernità – tra Seicento e Ottocento – sono fatti
eminentemente politici, che preludono in molti casi a rivoluzioni e cesure fondamentali nella
temporalità storica. In questo senso, l’intera modernità, come rottura rispetto alla tradizione, può
essere interpretata come una “età della crisi”. Ma, al contempo, come un’età della speranza,
che vede la soggettività moderna costruirsi un nuovo orizzonte di possibilità che rompe con la
tradizione.
Henri de Saint-Simon, qualche anno dopo la Rivoluzione cui prese parte in prima
persona, è il primo a distinguere, nella sua filosofia della storia, epoche organiche ed epoche
critiche. L’epoca organica si fonda su un sistema di credenze stabilite e progredisce entro i suoi
limiti. A un certo punto, però, questo stesso progresso mette in dubbio l’assetto di quel sistema,
le credenze di quell’epoca organica e determina così l’inizio di un’epoca critica: gli inizi dell’età
moderna costituirebbero un’epoca critica (dalla Riforma alla Rivoluzione) rispetto all’epoca
organica medievale. Un’epoca salutare che sconvolge gli equilibri tradizionali dell’Ancien régime
e prepara a un tempo nuovo. Questa successione di epoche organiche ed epoche critiche è,
secondo Saint-Simon, la legge stessa dello “sviluppo storico”: nelle prime la società ha un
assetto stabile ed equilibrato, che riposa su un sistema di credenze universalmente condiviso
(come durante il Medioevo); nelle seconde la società va incontro a processi disgregativi, mentre
si affermano sistemi di credenze diversi e in conflitto tra di loro (come nell’epoca che va dalla
Riforma protestante alla Rivoluzione francese).
Restando nello sfondo culturale della modernità, potremmo osservare che una crisi
storico-politica è caratterizzata solitamente da tre elementi: la sua imprevedibilità; la sua durata,
solitamente limitata; la sua incidenza sul sistema. Prendiamo il caso della Rivoluzione francese:
è per molti versi imprevedibile per gli osservatori dell’epoca che le recriminazioni del Terzo Stato
conducano in un tempo tanto breve all’assalto alla Bastiglia; in relazione alla temporalità storica,
la Rivoluzione è un evento “breve”, sia che se ne veda la fine nella morte di Robespierre sia che
si voglia includere, per qualche ragione, anche l’età napoleonica: nel 1814 il Congresso di
Vienna mette in atto la Restaurazione, che si auto-concepisce come risoluzione della crisi
causata dalla Rivoluzione; la Rivoluzione francese agisce incisivamente sul contesto europeo e,
al di là delle intenzioni, la Restaurazione non basterà a riportare indietro l’orologio della storia.
Nel solco della modernità, le crisi sono – in analogia con l’antica accezione nel linguaggio
medico – fasi da oltrepassare in vista di un cambiamento, tanto più transitorie quanto più urgenti
saranno le risposte fornite e tanto più tempestive le decisioni sui trattamenti da adottare. Nella
contemporaneità, la crisi sembra aver perso le caratteristiche che l’hanno connotata in epoca
moderna, soprattutto la caratteristica della durata limitata nel tempo, della relativa brevità. Nella
modernità la crisi è un “momento” – un momento cruciale, un momento di svolta – dello sviluppo
dialettico che articola continuità e discontinuità; è una tappa fondamentale, essenziale e
inevitabile per lo sviluppo storico, ma che avviene, nel senso che succede e poi passa. Oggi,
invece, la crisi si presenta spesso – nella sua accezione economica, ma non soltanto, e
certamente nelle sue ricadute politiche – come una “crisi senza fine”. Non più un malanno (che
prima o poi passa, con la guarigione o con la morte del malato), ma un’esperienza costitutiva
del tempo presente. Se nella modernità la crisi si inserisce nel contesto di un movimento, oggi
nella crisi “si vive”, come in una condizione fissa e insuperabile. Da momento transitorio e
occasione per decidere, la crisi sembra essersi trasformata nell’emblema stesso
dell’indecidibilità. Ma quando la situazione eccezionale diventa la norma, rimane ancora traccia
di quell’eccezionalità?
L’attualità è, al riguardo, emblematica. Nel dibattito politico ed economico odierno la crisi
ha delineato e delinea ancora l’orizzonte di tutte le prospettive. L’ipotesi di una “crisi senza via
d’uscita”, di un momento che tarda a passare e forse non passerà mai, è suffragata da
dichiarazioni pubbliche, programmi elettorali e discorsi programmatici. È, appunto, il paradosso
della “crisi senza fine”, della “crisi permanente” che, eternandosi, si svuota delle sue peculiarità:
in una crisi dalle prospettive eterne, non vi è più nulla da decidere, l’eccezione diventa la norma,
l’annuncio di un cambiamento epocale si reitera all’infinito e la storia si de-temporalizza
evaporando in un eterno presente. Di conseguenza, la crisi diventerebbe una sorta di slogan, di
metafora buona per tutti gli usi, che non si tradurrebbe mai in un’effettiva istanza di
cambiamento – che non farebbe più epoca.
Una diagnosi di questo genere ci fa notare come il concetto di crisi abbia finito oggi per
banalizzarsi, per svuotarsi di significato, perdendo quell’accezione di “svolta”, di “trasformazione
epocale” – o perlomeno di preludio a essa – che, dall’antichità alla modernità, ne ha
rappresentato il senso più profondo. Momento capitale, attimo in cui operare delle scelte, la crisi
diventa oggi la situazione in cui non vi è più alcunché da decidere, secondo un ossimoro che ne
snatura il significato più profondo. Da fase parossistica dell’andamento storico, diventa realtà
permanente; da momento di decisione, si muta in sinonimo di “indecidibile”; da situazione
eccezionale diventa norma dell’esistenza.
La fine del concetto di “crisi”, o il concetto di “crisi senza fine” corrisponde alla fine della
storia? O perlomeno della concezione moderna di storia? La fine della crisi, come fine di
un’azione politica effettiva – tutto cambia, in un ritmo sempre più vorticoso, ma nulla, in fondo,
cambia davvero – corrisponderebbe insomma alla fine della storia? C’è ancora spazio per
un’azione trasformatrice o la storia è finita e nulla più – più nessuna crisi, più nessuna
rivoluzione, più nessun tentativo di risolvere, in un modo o in un altro, una crisi – interverrà a
destabilizzare le geometrie dell’esistente? È attraverso la sfiducia verso i capisaldi del
presentismo, attraverso la loro contestazione, attraverso il coraggio di metterli in dubbio – di
metterli in crisi – che si può uscire dal vicolo cieco che condurrebbe alla fine della politica e
della storia. È attraverso queste istanze oppositive, contestatarie, critiche che si può far breccia
nell’immobilismo del presente e, dalla breccia, nuovi spazi di azione politica possono
dischiudersi. La modernità ha dimostrato che le crisi non sono mere riproposizioni di antichi
contenuti, ma evidenziano l’esigenza di rielaborare periodicamente le domande e i problemi che
la storia, nel corso del tempo, lascia in eredità: è attraverso le crisi che si affrontano le sfide
della storia. Non se la crisi diventa l’orizzonte invalicabile della contemporaneità, ma se torna a
essere il motore del cambiamento e dell’evoluzione storica.
Oggi le crisi abbondano, si slegano, proliferano e traboccano, s’aggrovigliano e
s’intrecciano, insistono e persistono. E su questa Terra turbolenta attraversata da crisi
economiche, emergenze sanitarie globali, instabilità geopolitiche e guerre, eventi meteorologici
estremi, devastazioni ecologiche e crescenti risentimenti politici, la natura intrattabile dei
problemi che assediano il presente non è mai apparsa più grande e più grave. Di questo – della
fragilità di un mondo sempre meno abitabile; della cattura dei soggetti nella cappa
dell’impotenza; della sempre più diffusa sofferenza dei singoli individui chiamati a risolvere e
pagare per via autobiografica le contraddizioni strutturali del proprio tempo; della sclerosi
dell’esperienza e del “soffio vitale” dei soggetti, dei desideri di un altrove che essi portano con
sé e le possibili piste per realizzarlo – trattano gli articoli raccolti in questo numero. Insieme, essi
aiutano a illuminare e comprendere l’intima correlazione di avvenimenti solo apparentemente
diversi, svelando la logica che connette e lega in un tutto unico la crisi di ciò che Félix Guattari
chiamava “le tre ecologie”: dalla devastazione delle risorse ecologiche planetarie, alla
devastazione, anch’essa planetaria, della capacità dei gruppi di pensare, creare, immaginare,
fino alla devastazione della capacità di situarsi e partecipare ai processi di produzione
dell’esistente.