L’ingorgo delle crisi

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Quelle che ci ostiniamo a chiamare emergenze sono in realtà crisi. Non che non ci siano
situazioni di emergenza che richiedono un intervento rapido per evitare il peggio. Ma continuare
a definire in questo modo il manifestarsi di cambiamenti profondi a carattere strutturale è
ipocrita e fuorviante.
Ipocrita perché induce a credere che si tratti di eventi casuali e privi di un nesso fra causa ed
effetto. Fuorviante perché non ci porta ad indagare sulla natura di quel che avviene, ovvero
sull’insostenibilità di un modello di sviluppo che abbiamo assunto come pensiero unico.
Potremmo dire che il concetto di emergenza è omologo a quello di resilienza. Anche in questo
caso, di fronte al mutare di una condizione ogni essere vivente ricerca un suo modus vivendi
che l’aiuti ad affrontare un contesto diverso. Ma emergenza e resilienza non pongono il nodo
dell’intervenire alla radice dell’insostenibilità. Estranei alla politica.
Dovremmo invece parlare di crisi. L’origine etimologica di questa parola viene dal latino crisis e
dal greco κρίσις che significa “scelta, decisione”. Abbiamo a che fare con altrettanti esiti alla cui
origine ci sono scelte e decisioni.
Crisi ecologiche, climatiche, sanitarie, demografiche, alimentari, migratorie, belliche… sono in
genere affrontate al loro manifestarsi estremo e secondo un approccio disciplinare refrattario
alla complessità, quasi non esistesse alcuna connessione fra loro.
Ed è proprio qui il problema. Non a caso, proprio con il diffondersi della pandemia, si è iniziato a
parlare di sindemia, ovvero dell’intreccio di crisi inaffrontabili separatamente. Come non vedere
che i fenomeni migratori hanno origine nelle aree dove guerre, accaparramento delle terre (e in
genere delle risorse) o desertificazione stanno rendendo la vita delle persone insopportabile?
Come non sapere che gran parte delle patologie sanitarie sono dovute all’alterazione dell’aria e
dell’ambiente in cui viviamo, dell’acqua e del cibo con cui ci nutriamo? Come nasconderci che
gli eventi estremi che devastano sempre più frequentemente intere regioni del pianeta sono
dovute all’azione dell’uomo e nella fattispecie all’aumento della temperatura come effetto
dell’emissione di gas climalteranti? E così via.
Siamo cioè in presenza – per dirla con Edgar Morin – di una policrisi che travalica le frontiere
del sapere e delle forme di associazione che gli esseri umani si sono sin qui date. Ecco perché
diviene urgente uno sguardo nuovo sul nostro presente, un cambio di paradigma che faccia

della complessità il proprio orizzonte, capace di darsi nuovi occhiali o nuove categorie
interpretative per leggere il nostro tempo.
A partire dalla descrizione del luogo in cui viviamo, la Terra. L’abbiamo raccontata secondo le
convenienze dei vincitori. La carta di Mercatore (1569), ancor oggi la più diffusa nella geografia
tradizionale, deformando la realtà assegnava al nord un ruolo preminente. Solo quattrocento
anni dopo, con la Carta di Peters (1973) le proporzioni si sono ristabilite ma viene scarsamente
utilizzata. In generale vi predomina la divisione in stati nazionali, esito di guerre, pogrom e
migrazioni forzate che non segnano certo pagine nobili della storia. E di un paradigma, quello di
stato nazione, che contraddice lo stato di diritto.
La globalizzazione ha reso obsoleto questo racconto. Non che ancora non predomino i
nazionalismi, ma nel tremendo paradosso dove la dialettica globale si svolge fra il neoliberismo
(fatto di mercati finanziari, corridoi transnazionali, piattaforme a-geografiche, mafie e crimine
organizzato) e di sovranismi che – pur in un’analoga matrice ideologica – erigono muri e
discriminano in nome del sangue e del suolo.
Eppure un diverso sguardo è possibile, ci attende. E’ quello degli ecosistemi, attraverso i quali
ridisegnare le priorità, le forme delle relazioni fra gli umani e il nostro rapporto con la natura.
Sono le terre alte, le città metropolitane, le aree interne, le terre di mare. Insofferenti ai confini
artificiali, gli ecosistemi esprimono problematiche comuni ma al tempo stesso riflettono degli
intrecci culturali e dei sincretismi che la storia ha saputo realizzare.
Questo aspetto introduce un altro cambio di paradigma. Quello relativo al modello di sviluppo
che si fonda su un’idea di progresso antropocentrico e senza limiti. Walter Benjamin un secolo
fa nella descrizione dell’Angelus Novus lo indicava con la metafora della tempesta [Walter
Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti. Einaudi, 2014]. Sguardo profetico, naturalmente
inascoltato. Un delirio che nell’arco di cent’anni, ha cambiato il volto del nostro pianeta tanto che
oggi il peso dell’artificiale ha superato quello del naturale.
Voci nel deserto. Dopo il boom economico del secondo dopoguerra – era il 1972 – con il
Rapporto sui limiti dello sviluppo, gli scienziati riuniti nel Club di Roma avevano messo in
guardia il pianeta: procedendo sulla strada imboccata nell’arco di un secolo il pianeta si sarebbe
trovato nel territorio dell’insostenibilità. Si rispose che la scienza avrebbe messo in campo le
contromisure rispetto agli effetti collaterali del progresso. Ma già dopo solo qualche anno
l’impronta ecologica ci indicava come l’umanità andava consumando più di quanto gli
ecosistemi erano in grado di produrre. E quelle previsioni, bollate come catastrofismo, si sono
andate materializzando in cinquant’anni, ovvero nella metà del tempo previsto.
Lasso di tempo nel quale si è rovesciato il tradizionale disallineamento fra tempi storici e tempi
biologici: nell’arco delle nostre vite avvengono mutamenti che prima richiedevano ere
geologiche. Eppure, le leggi dell’entropia hanno messo da tempo il genere umano di fronte al
concetto di limite, ma si è preferito immaginare che le tecnologie più sofisticate avrebbero risolto
il problema. Imbrigliare gli atomi si è dimostrato un sogno folle dal quale non ci siamo ancora
risvegliati. Tanto è vero che la cultura del limite non ha ancora cittadinanza nel dibattito
pubblico.
Solo qualche spunto. Ovviamente il campo della ricerca di un nuovo pensiero non finisce qui.
Trecento anni di cultura positivista hanno plasmato il pianeta e reso omologhe le principali
culture politiche che si sono affrontate nella storia moderna. Per uscirne serve uno sforzo di
ricerca tutt’altro che banale e richiede che al lavoro vi sia una grande comunità di pensiero che,
a partire dai mille rivoli delle nostre responsabilità personali, metta in moto quel “risveglio
dell’immaginario” di cui parlano Mauro Ceruti e Francesco Bellusci [Mauro Ceruti – Francesco
Bellusci, Abitare la complessità. La sida di un destino comune. Mimesis, 2020].
Nella consapevolezza che l’ingorgo delle crisi accelera il deragliamento.

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