“Da qui al 2032-33 l’Italia avrà 1 milione e 400 mila studenti in meno, una caduta demografica di grande portata, che coinvolge la struttura sociale, le ambizioni e le speranze del Paese”. Così tuonava il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi intervenuto alla presentazione della Unesco Chair on Urban Health all’Università La Sapienza di Roma a inizio maggio. Un allarme a cui come sempre è seguito il solito, desolante, nulla.
Una previsione dettata dallo sconquasso demografico che colpisce il nostro paese da troppi anni, incanalandolo verso il precipizio demografico su cui stiamo ballando da troppo tempo, come se nulla fosse. Un anticipo di quel che succederà al nostro Paese visto che la demografia è una scienza perfetta le cui analisi per essere invertite necessitano di anni a patto che, ovviamente, esista capacità politica di lunga visione. Viceversa, quella previsione è anche la conferma delle troppe occasioni mancate dal nostro Paese, della miopia della classe dirigente e dell’incapacità di analisi e azione politica.
Il professore Alessandro Rosina è uno degli intellettuali più attenti alle questioni relative al ruolo delle giovani generazioni e al tema dell’invecchiamento della popolazione: “Il modo più chiaro per una società di dimostrare di non credere nel proprio futuro è semplicemente quello di non investire sulle nuove generazioni. Di dismettere l’immissione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia. Non investire sulle nuove generazioni porta ad una riduzione delle loro prospettive nel luogo in cui vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dai genitori, si accontentano di svolgere lavori in nero o sottopagati, oppure se ne vanno altrove. Così l’economia non cresce e non si formano nuove famiglie. Questo porta ulteriormente le nascite a diminuire e la popolazione ad invecchiare, con risorse sempre più scarse da redistribuire e conseguente aumento delle diseguaglianze sociali”[1].
Ecco perché la notizia di unmilionequattrocentomilastudenti in meno entro il 2032 dovrebbe farci saltare sulla sedia. Invece, nulla, state comodi, prego. Ormai tutto sembra essere normale, soffocato da una rassegnazione pesante come un mantello di piombo che zavorra il nostro presente.
Una riduzione così drastica del numero di studenti, in un Paese che già investe pochissimo su giovani e istruzione (non è un caso che ogni anno migliaia di nostri under 35 lascino l’Italia), rischia di far diminuire ulteriormente gli investimenti sulla scuola – non conviene politicamente, non è un’opportunità politica – e quindi sulle nuove generazioni e, di conseguenza, sul nostro futuro. Nel 2020 l’Istat certifica la crescita del nostro divario con l’Unione Europea sui livelli di istruzione: in Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea, contro il 32,8% nell’UE; la quota di diplomati è pari a 62,9%, un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (79% nell’UE a 27) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione[2]. Anche i numeri dell’Unione Europea rischiano di essere poca cosa rispetto ai risultati annunciati dalla Cina che sta potenziando un sistema scolastico, già di per sé molto competitivo, capace di sfornare cervelli per la propria industria, soprattutto high tech, in forte espansione. Un motivo in più per ricordarci quanto gli Stati Uniti d’Europa siano più un’occasione mancata che un’utopia. L’Italia, inoltre, è l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi sul debito pubblico supera quella per l’istruzione. Un paese che produce pochi laureati, e da cui i laureati emigrano, è un paese che ne produrrà fisiologicamente meno e da cui i laureati stessi emigreranno sempre più. Un deserto intellettuale che tiene alla larga gli investitori, esteri e non, facendoci accumulare ritardi in tecnologia e innovazione rispetto agli altri paesi industrializzati. Quanto maggiore sarà questo gap tanto minore sarà il bisogno di avere figure professionali ad alta scolarizzazione. E meno ne avrà bisogno, meno ne formerà, o investirà per formarle, sapendo che una volta formate se ne andranno. Un corto circuito totale che rischia di far calare il sipario sul nostro futuro. Ecco, è quello che sta succedendo e il nel 2032 rischia di essere solo il momento in cui la giostra riceverà un altro colpo di accelerazione in questo processo che rischia di avvitarsi sempre più.
Certo, anche la precarietà lavorativa ha il suo peso. A marzo 2022, rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, abbiamo registrato 800 mila occupati in più, ma in oltre la metà dei casi si tratta di contratti a termine, la cui stima raggiunge i 3 milioni 150 mila, il valore più alto dal 1977. Sale anche la disoccupazione giovanile, attestata al 24,5%, in un Paese che ha già il record di Neet. Numeri che hanno un peso importante nel trasformare la precarietà di lavoro in precarietà di vita, che spinge le persone a rinviare le scelte importanti della propria esistenza colorando di incertezza il futuro individuale e, quindi, collettivo. Questa incertezza esistenziale coincide con lo smarrimento del ruolo del lavoro come produttore di “senso”, trasformandolo in una fastidiosa fatica da scansare, esattamente come fa la politica che ha smesso di occuparsi di lavoro, incapace di trovare soluzioni, finendo per abbandonare le persone al proprio destino, accettando, così, di mollare il Paese alla deriva. Fino a quando non saremo capaci di ridare al lavoro il proprio ruolo di costruttore e produttore di senso nella vita delle persone, e quindi nella società, questi numeri potranno solo peggiorare. Credo sia da ricercare proprio qua, e non nella concorrenza del reddito di cittadinanza, la causa tanto del rifiuto di proposte di lavoro quanto dei bassi salari con cui remunerarlo. D’altronde, chi accetterebbe un qualcosa privo di senso? E chi sarebbe disposto a pagare di più un qualcosa percepito e vissuto come fastidioso e derubricato a ‘favore’ e ‘concessione’?
Non è un caso il fenomeno delle grandi dimissioni. Anche in Lombardia, regione nella quale risiedo, questi numeri sono importanti: nel 2021 si sono dimessi 419.754 lavoratori, il 9,5% dei 4,4 milioni di occupati[3]. Certo, qualcuno sostiene che sia un segnale di vivacità e vitalità del mercato del lavoro. Può anche essere vero, anche se molte persone che si dimettono lo fanno senza una proposta alternativa in tasca, ma significa comunque che ci sono tanti luoghi di lavoro che non sono in grado di offrire giusti salari, buone condizioni di conciliazione vita-lavoro, solidi valori in cui riconoscersi, adeguati sistemi di welfare, che sono, poi, le cause per cui si molla il lavoro e gli aspetti che si cercano altrove. Il problema dunque c’è e rimane.
Che la situazione sia complessa e in continuo
divenire lo dimostra il fatto che, mentre scrivo, Eurostat certifica, per il
mese di maggio, il rialzo dell’inflazione dell’area euro all’8,1%, con un
aumento dei prezzi dell’energia del 39,2%, del cibo del 7,5% e dei servizi del
4,2%. Gli fa eco l’Istat che segnala, per l’Italia, in uno scenario già
fortemente malato, l’aumento dell’inflazione che nel mese di maggio torna ad
accelerare segnando un +6,9% su base
annua, un livello che non si registrava dal marzo 1986 come spiega l’Istat
stesso. Un problema che si ripercuote sui salari, erodendo il potere d’acquisto
delle persone e, ovviamente, sul lavoro rischiando di aggravare la crisi del
nostro sistema industriale e produttivo appesantito dall’aumento dei costi
delle materie prime e dell’energia con forti ripercussioni sull’occupazione. In
questo contesto si capisce perché la misura dei 200 euro una tantum, per
affrontare il caro bollette, che tra l’altro non riesce a coprire nemmeno il
pagamento di una singola bolletta, sia assolutamente inadeguata, insufficiente
e fuori luogo. Una foglia di fico che nasconde maldestramente il fallimento
della riforma fiscale, tanto decantata, che non porta beneficio alcuno per le
fasce più bisognose della popolazione e che è lontana dall’essere quella
riforma coraggiosa e strutturale di cui avrebbe bisogno il paese per ridare fiato
alle lavoratrici, ai lavoratori e alle imprese, andando in profondità di un
sistema carico di disuguaglianze e che ha smarrito il principio della progressività.
Il mix tra evasione fiscale e le modifiche introdotte negli ultimi 30 anni, che
hanno stravolto il concetto di Irpef per come era nato, “viola sistematicamente
i criteri di equità orizzontale e verticale” come segnalano Maurizio Benetti e
Mauro Marè[4]. Servirebbe poi rilanciare
la contrattazione aziendale, oggi al palo come conferma Tiziano Treu, Presidente
del Cnel[5]. Al 16 maggio 2022,
infatti, i contratti aziendali in vigore si fermano a 8.137 (il 42% in
Lombardia) un numero basso se consideriamo il totale delle imprese italiane. Questo
dato, inoltre, apre un divario salariale tra le imprese sindacalizzate, che quindi
beneficiano di salario (e condizioni) aggiuntivo contrattato, e le aziende, per
lo più piccole, che nei fatti ne restano escluse. Ecco perché va rilanciato con
forza il tema della contrattazione territoriale che possa portare benefici alle
imprese, sia in termini di aumento della produttività da redistribuire tra i
lavoratori, sia in termini di aiuto nell’affrontare l’innovazione organizzativa
necessaria ad affrontare le transizioni, tecnologica e ambientale, che abbiamo
davanti, aiutandole ad imboccare la via tanto obbligatoria quanto decisiva di Industria
4.0. Un investimento win win sul capitale umano e sul consolidamento
organizzativo e produttivo. Una via tutta nostra alla partecipazione possibile,
lontana dal scimmiottare di modelli tedeschi che per storia e condizione da noi
sarebbero impossibili da realizzare, facendoci sprecare tempo ed energie
attorno a dibattiti e litigi anacronistici. Ecco perché i contratti nazionali
dovranno restare una cornice di tutela dei salari dall’inflazione e di garanzie
‘minime’ uguali per tutti, lasciando poi campo libero alla contrattazione
decentrata capace di abbracciare i bisogni variopinti che arrivano dalle
piccole realtà produttive, così diffuse in Italia, dando risposte, salariali e
normative, tanto alle persone quanto alle aziende, contribuendo a rendere
vivace il nostro tessuto produttivo. E lateralmente, contribuendo a ricreare
classe dirigente competente, capace di leggere la realtà e di guardare lontano.
Infine, questo è il momento giusto per introdurre, anche in Italia, il salario
minimo per i lavoratori scoperti dalla contrattazione nazionale, mettendo al
bando i contratti pirati dopo aver certificato la rappresentanza sindacale, in
un Paese che ha visto un forte arretramento degli stipendi. Certo per fare ciò
occorre ripartire dal concetto originario di lavoro, come sostiene Ugo Morelli:
“Ognuno di noi è fatto di azione e movimento, oltre che di relazioni. In quanto
forme vitali tendiamo all’azione e il lavoro si situa al punto di incontro del nostro
mondo interno con il mondo esterno, facendo i conti con il principio di realtà.
L’opera che compiamo e il ben fatto riconosciuto dagli altri sono una delle
fonti essenziali della nostra stessa individuazione”[6]. Solo rimettendo il
giusto senso al proprio posto potremo tornare a vedere il lavoro dalla giusta
angolazione, facendolo tornare ad essere la pietra angolare su cui edificare
una società migliore, per uomini che ritrovino il coraggio di scrutare l’orizzonte
del futuro.
[1] Alessandro Rosina. I paesi che non investono sui giovani non credono nel proprio futuro. Passione Linguaggi 2 gennaio 2022 (www.passionelinguaggi.it)
[2] Ansa. 8 ottobre 2021
[3] Corriere della Sera. Stefania Chiale, 17 maggio 2022.
[4] Maurizio Benetti e Mauro Marè. La riforma a metà. Con la nuova Irpef chi paga il welfare? L’Economia, Corriere della Sera, 23 maggio 2022.
[5] Rita Querzè. Incentivi, la strana corsa, welfare in più e premi alla flessibilità, L’Economia, Corriere della Sera, 20 maggio 2022.
[6] Emanuela Fellin, dialogo con Ugo Morelli. Il lavoro come pratica di libertà, viagramsci.com 31 maggio 2022.