Un numero assilla ormai da tempo i climatologi: 1,5°C. Questo numero infatti è la soglia di aumento della temperatura globale, rispetto al periodo pre-industriale (1850–1900), che indica il punto in cui gli impatti dei cambiamenti climatici potrebbero diventare sempre più dannosi per gli esseri umani. Ad oggi questo aumento è stimato di circa 1,1°C e la soglia di 1,5°C potrebbe già essere raggiunta nei prossimi anni se non verranno prese adeguate misure per agire sulle cause del riscaldamento e quindi sulle emissioni di gas ad effetto serra. Superata tale soglia alcuni processi fisici, come la perdita dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, potrebbero divenire irreversibili e rendere sempre più difficili le condizioni di vita in molte parti del pianeta.
Nel frattempo si osservano eventi meteorologici estremi sempre più intensi e nuovi record sono stati raggiunti nel 2021 per quanto riguarda alcuni indicatori chiave dei cambiamenti climatici: le concentrazioni di gas serra in atmosfera, l’aumento del livello del mare, il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani. Il messaggio degli scienziati riuniti attorno al Tavolo intergovernativo sui cambiamenti climatici è del resto chiaro: “il clima sta cambiando in maniera più rapida e intensa del previsto mentre le azioni intraprese a livello globale per tagliare drasticamente le emissioni di gas serra, frenare il riscaldamento globale e contrastare la crisi climatica sono ancora del tutto insufficienti”.
L’Accordo sul clima di Parigi siglato nel 2015, che ha accolto l’obiettivo di fare il possibile per non oltrepassare la soglia di 1,5°C, stenta tuttavia ad essere tradotto in azioni sufficientemente ambiziose essendo rallentato dalle difficoltose trattative negoziali tra i 196 Paesi firmatari più preoccupati a proteggere le proprie economie che alle sorti del pianeta.
Gli ecosistemi terrestri, montani, d’acqua dolce, costieri e marini, sono pesantemente influenzati dal cambiamento climatico e alcuni sistemi si stanno degradando a un ritmo senza precedenti andando ad amplificare le conseguenze già in atto delle attività umane sulla perdita di biodiversità. Ciò comprometterà ulteriormente vari servizi ecosistemici come ad esempio quelli forniti alla produzione di cibo e alla tutela della salute umana.
Drammatiche sono le conseguenze sociali sulle comunità umane. Siccità, ondate di calore, alluvioni e degrado degli ambienti sono causa di crescenti fenomeni di migrazioni. Mentre gli effetti combinati di conflitti, eventi meteorologici estremi e crisi economiche, ulteriormente esacerbati dalla pandemia di COVID-19, hanno minato decenni di progressi verso il miglioramento della sicurezza alimentare a livello globale portando a un numero crescente di paesi a rischio di carestia specie in Asia e Africa.
Come è possibile non rendersi conto della gravità di questa crisi? L’antropologo Mauro Van Aken spiega come alla radice del cambiamento climatico vi sia “la relazione eccezionale che la società occidentale ha avuto con l’ambiente concependolo come comparto a sé, esterno all’essere umano”. Una società pertanto incapace di leggere la relazione vitale che gli esseri umani hanno con l’ambiente.
Le soluzioni, almeno dal punto di vista tecnico, sono note. Da un lato bisogna ridurre drasticamente le emissioni di gas serra rinunciando innanzitutto all’utilizzo dei combustibili fossili. Si tratta essenzialmente di cambiare il sistema di produzione e di consumo di energia e di cibo, i due settori maggiormente responsabili delle emissioni, attraverso il risparmio energetico, l’efficientamento, l’utilizzo di fonti rinnovabili e lo stop al consumo di suolo e di risorse ambientali. Dall’altro si tratta di agire anche sulle conseguenze dei cambiamenti climatici realizzando le necessarie misure di adattamento per proteggere e mettere in sicurezza la vita delle persone specie nei contesti più vulnerabili.
Non è un problema di soldi, le risorse economiche ci sarebbero. Ciò che manca è la reale volontà politica di investire in una strutturale transizione di carattere economico, energetico e finanziario verso un sistema indipendente dai combustibili fossili. Per questo è indispensabile uscire dai dogmi della competizione e della continua crescita quantitativa e dirottare l’azione della comunità internazionale verso la cooperazione e l’assunzione del concetto di limite fisico delle risorse del pianeta. Tanto più che la crisi ambientale e climatica sta inasprendo le forme di diseguaglianza impedendo sempre più l’accesso ai bisogni essenziali quali cibo, acqua e salute.
La crisi ambientale e climatica che stiamo osservando non si misura solo negli effetti economici ma sempre più, specie nei giovani, è fonte di profondo malessere. I giovani sperimentano sempre più paura, rabbia, tristezza, disperazione, e tendono a sviluppare un senso di tradimento e abbandono a causa dell’inazione degli adulti nei confronti del cambiamento climatico. Le loro richieste non vengono ascoltate e il loro diritto al futuro e a un pianeta vivibile non viene riconosciuto.
E’ necessario quindi che i leader mondiali si facciano carico di questa responsabilità verso le generazioni future. Riprendendo le parole di Mauro Van Aken, “oggi i cambiamenti climatici obbligano l’occidente a riscrivere il suo rapporto con il “naturale” e ciò non implica solo un cambiamento economico ma anche culturale”. E’ indispensabile un cambiamento strutturale dell’economia e della finanza globale così come un cambiamento comportamentale ma indispensabile sarà anche un cambiamento di prospettiva culturale.Non sarà facile. Il tempo per rallentare gli impatti dei cambiamenti climatici e garantire la vivibilità del pianeta sta tuttavia per scadere e come ci ricorda l’economista Ann Pettifor: “nel frattempo, non dobbiamo dimenticare una semplice verità: laddove non c’è lotta, non c’è progresso”.