- Un’attesa con un lieto fine
Il 18 luglio del 2007 a San Miniato, davanti a una platea di allievi e docenti arrivata da ogni angolo d’Europa per partecipare a una scuola europea estiva per l’arte dell’attore, Jaume Melendres tenne una lectio magistralis dal titolo: Il pensiero teatrale: un viaggio di piacere.
Il pubblico, un centinaio di persone, aveva una caratteristica abbastanza particolare: la notevole distanza complessiva che era stato necessario coprire per trovarsi, in un morbido tramonto, tutti assieme in quel chiostro. Solitamente le cento persone che siedono in una platea, calcolando in cinque chilometri la distanza media che ciascuno ha percorso per raggiungere la sala dal luogo dove abita o lavora, rappresentano più o meno cinquecento chilometri. Quel caldo pomeriggio di luglio a San Miniato, invece, la platea, ad un calcolo approssimato per difetto, aveva percorso almeno centomila chilometri per costituirsi. Quei giovani attori, drammaturgi e registi venivano infatti da Roma, Milano, Barcellona, Madrid, Berlino Londra, Lione, Copenaghen e chissà da dov’altro ancora. Era dunque una platea di nomadi che aveva coperto una distanza pari a circa due volte e mezzo la circonferenza terrestre ed era perciò particolarmente adatta a convenire con l’idea, espressa dal titolo dell’incontro, che il teatro è un viaggio di piacere.
Fu nel corso di quella conversazione che ascoltai la storia che adesso vi racconterò a mia volta e che mi frulla in capo da quando ho ricevuto l’invito a scrivere qualche pensiero attorno al concetto di “attesa”.
Ma andiamo per ordine. Melendres iniziò facendo una distinzione fra due tipi di illuminazioni di cui abbiamo bisogno per capire le cose: l’illuminazione flash (più o meno quella che ebbe San Paolo il giorno che cadde da cavallo) e l’illuminaziona lenta e progressiva. Subito dopo ci fece un esempio autobiografico di un’illuminazione del primo tipo.
Melendres si trovava alla stazione di Empoli, non lontano da San Miniato dove doveva venire per tenere un corso. Si era acceso una sigaretta e passeggiava lungo i binari per far passare il tempo nell’attesa di un treno che non arrivava. Si era così avvicinato distrattamente a una vecchia cabina di manovra abbandonata e sporca e aveva sbirciato dentro attraverso una finestrella, anch’essa poco pulita. Fu così che vide, con grande stupore, che all’interno, lungo tutto il perimetro, qualcuno aveva installato il plastico di un trenino elettrico. C’era tutto – «biforcazioni, tunnel, stazioni, passaggi a livello, semafori, tratti in salita e in discesa, curve strette e rettilinei vertiginosi» – e tutto era in perfette condizioni. Com’era possibile, si chiese, che degli uomini che avevano realizzato il sogno di giocare con treni «in carne e ossa» perdessero il loro tempo con un trenino finto? Se avessero voluto rilassarsi dal lavoro non sarebbe stato più logico mettere in quella cabina «un tavolo da biliardo, o da poker, o un calcio balilla»? Si trattava forse di un modellino della stazione che quei ferrovieri utilizzavano per avere una visione panoramica del loro lavoro?
No. Melendres scartò rapidamente quell’ipotesi, non era quello il motivo. E «d’improvviso, per una ragione forse non estranea alla trasparenza del crepuscolo toscano», ebbe un’illuminazione, che espresse con queste parole. «Quei ferrovieri utilizzavano treni giocattolo perché i treni reali per loro erano frustranti. Con i treni veri infatti potevano fare tutto tranne ciò che per loro era davvero importante: provocare un incidente, vivere l’esperienza dell’errore fatale, sentire sulla pelle il brivido della catastrofe. Perchè le collisioni e i deragliamenti dei treni giocattolo per loro erano reali quanto quelle dei treni veri».
Quell’illuminazione però era anche la risposta a una domanda che Melendres si stava ponendo da molto tempo: perché il teatro (il buon teatro) è più interessante della vita?
Esattamente per lo stesso motivo che aveva spinto quegli anonimi ferrovieri di Empoli a montare il plastico di una linea ferroviaria in quella vecchia cabina e a giocarci. Sul palcoscenico infatti non c’è una simulazione, ma un altro mondo, ugualmente reale, dove possiamo portare le cose fino all’estremo con il vantaggio poi di poter ricominciare come se non fosse successo niente. Dove possiamo provare, senza conseguenze irreversibili, mille e un modo di morire, di uccidere e di tradire. Dove possiamo sfidare il potere e, soprattutto, la paura che ci provoca il fatto di vivere. Dove possiamo giocare al gioco della vita.
«Rendermi conto che il teatro è esattamente come il trenino elettrico dei ferrovieri di Empoli – proseguì Melendres – mi fece scoprire ciò che di terribile si nasconde dentro noi creatori teatrali. Ci piaccia o no, siamo dei sadici. Facciamo teatro per giocare con il dolore e la morte. Anche se a volte facciamo in modo che il treno giri in modo gradevole (come in un’inoffensiva commedia leggera), la nostra vera aspirazione è provocare la catastrofe. Cioè, la tragedia… Questa frase dovrebbe apparire in tutti i libretti d’istruzione dei treni elettrici: “Chi gioca con questo trenino deve sapere che il suo fine ultimo è produrre deragliamenti e collisioni”. Da quella sera, ogni volta che faccio teatro o lo vado a vedere, ho presente la cabina della stazione di Empoli e il suo enorme potenziale d’avvenimenti tragici e non sono più lo stesso».
Dopo questo folgorante inizio, tutta la sua lezione proseguì dedicandosi al secondo tipo di illuminazione e a un elogio del viaggio. Perché, come disse, sarebbe da ingenui pretendere di trovare ciò di cui abbiamo bisogno già pronto accanto a noi.
- Che cosa significa attendere e come, che cosa e perché attendiamo?
L’episodio raccontato da Melendres ci ha suggerito una modalità dell’attendere piuttosto rara, ne esistono però molte altre. Esistono attese felici e attese infelici; c’è l’attesa passiva, indolente e senza fine di Oblomov; quella attiva, dolce e dalla durata pressoché certa di una donna in stato interessante; quella breve e ansiosa del giocatore che ha fatto una scommessa; quella tragica del condannato a morte; quella non priva di speranza del prigioniero; quella eccitata dell’innamorato; quella pragmatica e fiduciosa del contadino per la primavera; quella ansiosa del malato per il responso di un’analisi. C’è il postulante che attende genuflesso la risposta a una richiesta, il pescatore che attende paziente che un pesce abbocchi all’amo, e c’è l’attesa suprema: Shakespeare che, tornato a Stratford e deposta la bacchetta magica, scrive che d’ora in poi un pensiero su due lo dedicherà alla morte.
Il catalogo delle nostre diverse “attese” e delle tante emozioni che ci provocano sarebbe infinito perché durante la nostra esistenza attendiamo spesso, forse addirittura sempre. Non possiamo farne a meno e lo facciamo in molti modi. La domanda da farsi quindi è più complessa: come, che cosa e perché attendiamo?
Giustamente Cesare Pavese ce lo ha chiesto: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. Che cosa stiamo aspettando?
Per tentare di raccapezzarci potremmo provare a distinguere queste tante modalità dell’attesa introducendo il concetto del tempo, cioè quanto ce ne viene richiesto: pochi secondi, nel caso della risposta a una dichiarazione d’amore; l’intera esistenza nel caso dell’attesa della fine. Oppure anche l’altrettanto importante concetto del premio che speriamo giungerà al termine della nostra attesa: un po’ di soldi nel caso di una scommessa; la libertà se si è imprigionati; il paradiso se avremo rispettato le leggi divine. Ma, per i limiti di queste brevi note, possiamo limitarci a considerare tutte le nostre tante attese distinguibili secondo due grandi tipologie soltanto: l’attesa di ciò che già ci attendiamo, per esempio un treno, e l’attesa di ciò che invece ignoriamo, come abbiamo visto nel caso dell’illuminazione improvvisa che ebbe Melendres.
Potremmo chiamare queste due diverse modalità: l’attesa dell’atteso e l’attesa dell’inatteso. Giacché è diverso attendere che una speranza, una minaccia o una promessa si verifichino oppure attendere l’ignoto. Anche perché l’ignoto non solo non sappiamo quando arriverà ma neanche se arriverà. Anzi, a dirla tutta, non sappiamo neppure se, una volta arrivato, lo sapremo riconoscere. L’ignoto non si esprime e non ci fa nessuna rivelazione a questo proposito. Per placare la nostra ansia nell’attesa, fino a una decina d’anni fa potevamo acquistare e consultare il libro degli orari ferroviari, ma non è mai esistito né mai esisterà un libro in cui sia possibile reperire l’orario d’arrivo dell’inatteso.
Jaume Melendres ricevette la sua felice e imprevista illuminazione come colpito da una freccia scoccata da un misterioso e invisibile arciere. Nulla lasciava presagire quell’evento. Lui era semplicemente in un momento di pausa, in tranquilla attesa di tutt’altro, di un banalissimo treno. Non stava arrovellandosi sul senso del teatro. Lo aveva fatto, certo, a lungo, negli anni precedenti. Ma adesso, in quel momento, non stava pensando a ciò che avrebbe voluto dirci. Stava soltanto, e non è così facile, attendendo. Credo che proprio per questo, perché il suo animo era disponibile ad accogliere l’imprevisto, che fu capace di riconoscere quel dono improvviso: perché la sua era un’attesa vuota. Non aveva colmato quell’apparentemente inutile vuoto, a parte passeggiare e fumare, con nessun’altra occupazione. L’aveva semplicemente accettato.
È, questa, un ulteriore, rarissima, tipologia di attesa, l’attesa pura: la capacità di sostare in un tempo morto in cui pur attendendo qualcosa in realtà non attendiamo niente, neanche l’inatteso. Questa attesa pura pare oggi essere quasi scomparsa. Come resistere nell’attesa all’impulso di prendere il mio smartphone per controllare la posta, fare qualche ricerca su internet, ascoltare le ultime notizie, informarmi sulle previsioni del tempo? Come oppormi al desiderio di colmare in qualche modo utile quel tempo inutile? Non so voi, ma io non ho più la pazienza, che invece ebbe Melendres, per sopportarlo. Sono diventato impaziente, devo fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di non restare solo con me stesso, immerso nel flusso casuale della mia coscienza. Anche se si tratta di me, non ho più la pazienza di sopportarmi.
Qualsiasi allievo drammaturgo però sa, perché si tratta di una delle prime lezioni che riceve, che è l’evento inatteso a mettere in moto le energie della trama e dei personaggi. È l’inatteso che scuote le coscienze e tiene sveglio lo spettatore. Pretendere di abolirlo in teatro, a meno di avere il genio di Samuel Beckett, significa annegare in un oceano di chiacchiere e noia. Averlo effettivamente abolito dalle nostre esistenze, come capita se si frequenta troppo a lungo l’oltremondo digitale delle non-cose, non è privo di conseguenze. Conseguenze che sono testimoniate, per fare un esempio, dal triste fenomeno degli hikikomori. Ma l’abolizione dell’inatteso provoca anche conseguenze comiche, come capitò quando qualcuno s’invaghì troppo in fretta dell’idea della “fine della Storia”, che invece, non rispettando quella previsione, ha continuato a stupirci.
Fortunatamente infatti ogni nascita, per quanto attesa, ci risveglia e ci rammenta che l’imprevisto esiste. Ogni nascita, umana, vegetale o animale, è sempre una sorpresa. Sempre uno stupore, una meraviglia, un’incantamento. Senza i quali c’è soltanto stasi. Sostenere che l’inatteso è soltanto la riproposizione del già avvenuto, del già saputo, degli errori antichi, è il modo più diabolico per devitalizzare il creato e le creature.
Ma forse adesso sarà utile fare un passo indietro. Ho iniziato dando per scontato di sapere che cosa significhi attendere, ma poche righe sono state sufficienti a farmi comprendere che, dal momento che esistono tanti modi e forme dell’attesa, è meglio confessare che così non è. Non posso dunque evitare di affrontare la prima domanda che avrei dovuto farmi: che cosa significa attendere?
La parola “attendere” viene dal latino e significa “tendere verso”, “rivolgere l’animo a qualche cosa”. L’etimo, se ci fidiamo di lui, indica quindi delle azioni: attendere è una attività. La parola può poi essere usata anche per significare “ascoltare attentamente”, “rivolgere l’attenzione”, “stare attento”. “Guardate e attendete / a la miseria del maestro Adamo”, scrive Dante e anche Boccaccio usa la parola con lo stesso significato: “attendi quello che io ti voglio dire”. Pur se si tratta di esortazioni che oggi fanno quasi tenerezza, incapaci come siamo di condurre una conversazione civile e d’ascoltare le ragioni altrui esitando pazienti prima di replicare, anche questo ci suggerisce che nell’attesa dobbiamo pur fare qualcosa.
Il fatto che attendere sia una attività è confermato dall’espressione “Attendere a” che utilizziamo con il significato di dedicarsi a qualcosa, per esempio ai campi, alla casa, alle proprie faccende.
Può anche essere utile dare un rapido sguardo ai sinonimi, fra i quali troviamo: aspettare, indugiare, pazientare, tergiversare, procrastinare, esitare, ma anche: occuparsi, interessarsi, dedicarsi, concentrarsi, applicarsi, accudire, badare, svolgere. Tutto questo dovrebbe porci qualche altro dubbio sul pregiudizio che ci fa vedere l’attesa come un momento di sola passività.
Ed è infatti interessante notare che il primo sinonimo di attendere, cioè “aspettare”, significa guardare attentamente; pertiene quindi qualcosa di specifico che si “vede” avvicinarsi. Da cui la parola “aspettativa”.
Da questa lista possiamo dedurre che nella condizione di attesa siamo attivi. Non possiamo farne a meno: mentre attendiamo, che sia il vero amore oppure di trovare un senso negli eventi che ci capitano, stiamo comunque facendo qualcosa.
- Attendere Godot
Samuel Beckett dev’essersi posto queste domande, e altre simili, a lungo. Era rimasto fin da giovane affascinato fin quasi all’identificazione, da Belacqua, un personaggio che appare nel quarto canto del Purgatorio ed è, pare, ispirato a un liutaio amico di Dante, Duccio di Bonavia. La vicenda è nota ma val la pena riepilogarla.
Accucciato, stanco, con le braccia strette attorno alle ginocchia “tenendo ‘l viso giù tra esse basso”, Belacqua è l’immagine della pigrizia e dell’indolenza. Non si cura neanche di cercar di raggiungere la vetta dell’Antipurgatorio. Forse vorrebbe salire al Cielo, ma non si muove perché sa che l’angelo di guardia lo respingerebbe. Non gli resta che attendere e confidare nelle preghiere dei buoni. Si affanni pure Dante, che è valente. Lui aspetterà, tanto, dice Belacqua: “andare in su che porta?”.
Sono molti i personaggi di Beckett che si trovano in una situazione simile. I più celebri sono sicuramente Vladimiro e Estragone, protagonisti del suo capolavoro En attendant Godot.
Didi e Gogo (come si chiamano talvolta fra loro Vladimiro e Estragone) per tutta la durata della pièce aspettano, come dice il titolo, l’arrivo di un misterioso personaggio, Godot, che ha promesso loro di venire e che può salvarli. Il tempo passa ma Godot non appare. Arriverà domani, dice un ragazzo che è un suo messaggero. La situazione si ripete nel secondo atto: rientra il ragazzo che dice che anche oggi il Signor Godot non verrà. Verrà domani. E Vladimiro ed Estragone per la seconda volta si scambiano queste battute: “Ebbene? Andiamo?” – “Sì, andiamo”. E la didascalia che mette fine al dramma precisa che: “Non si muovono.”
Mentre aspettano Didi e Gogo parlano, litigano, si lamentano, si abbracciano, progettano di andarsene, di suicidarsi, si incontrano con Pozzo e Lucky, ma niente cambia, niente succede davvero. L’unico evento del dramma, oltre all’attesa di Godot, pare essere il tempo che passa, tanto che l’albero che occupa la scena mette le foglie, Pozzo diventa cieco e Lucky perde la voce. Però né Didi né Gogo conoscono Godot. Non l’hanno mai visto e forse neanche lo riconoscerebbero. Sanno soltanto che forse può salvarli. Nient’altro. Si può dunque dire che aspettano l’arrivo di un premio. Questa pare essere l’unica flebile speranza che li mantiene ancora in quel posto. Perché Godot ha detto che è lì che arriverà. Andarsene significherebbe la certezza assoluta di non vederlo mai più. Si attende dunque perché si spera ancora in questo premio.
In conclusione mi pare sia possibile dire che En attendant Godot rappresenta in parte l’attesa dell’atteso e in parte l’attesa dell’inatteso. Didi e Gogo aspettano qualcosa che è solo parzialmente ignoto, qualcosa che potrebbe significare l’arrivo di un premio.
Ma sarei davvero ingeneroso con il grande maestro irlandese se, accanto al tema dell’attesa celebrato in En attendant Godot e in altri suoi lavori, non ricordassi altri temi che ha toccato con la sua opera: il tema dell’ostinazione e della perseveranza, per esempio. Resteranno per sempre nella mia memoria molte altre sue frasi. Per esempio questa che conclude il romanzo L’innominabile:
“Bisogna continuare, non posso continuare… e io continuerò”.
O questa, contenuta in Worstward Ho:
“Ho provato. Ho fallito. Non importa. Riproverò. Fallirò meglio”.
Non sono molto dissimili dalle parole di un uomo che conobbe certamente le tante angustie di un’interminabile attesa e che ci insegnò a praticare il “pessimismo dell’intelligenza, l’ ottimismo della volontà”. Parlo ovviamente di Antonio Gramsci che nel 1929, recluso nel carcere di Turi, parlando e confrontando lo stato d’animo suo con quello di suo fratello Gennaro, detto Nannaro, così scrisse all’altro fratello Carlo:
«La tua lettera e ciò che mi scrivi di Nannaro mi hanno interessato molto, ma anche maravigliato. Voi due avete fatto la guerra: specialmente Nannaro ha fatto la guerra in condizioni eccezionali, da minatore, sotto terra, sentendo attraverso il diaframma che separava la sua galleria dalla galleria austriaca il lavoro del nemico per affrettare lo scoppio della mina propria e mandarlo per aria. Mi pare che in tali condizioni, prolungate per anni, con tali esperienze psicologiche, l’uomo dovrebbe aver raggiunto il grado massimo di serenità stoica, e aver acquistato una tale convinzione profonda che l’uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. Penso, in ogni circostanza, alla ipotesi peggiore, per mettere in movimento tutte le riserve di volontà ed essere in grado di abbattere l’ostacolo. Non mi sono fatto mai illusioni e non ho avuto mai delusioni. Mi sono specialmente sempre armato di una pazienza illimitata, non passiva, inerte, ma animata di perseveranza.»
Dunque, ragionando sull’attesa abbiamo incontrato anche altre cose: la pazienza, l’ostinazione, l’attesa di un premio, cioè la speranza.
La pazienza, che un tempo era virtù dei forti, oggi ha cambiato posizione nelle nostre gerarchie. Non la consideriamo più, come Gramsci, una virtù ma un vizio tipico di persone di debole tempra. Pochi infatti la coltivano ancora. È l’impazienza piuttosto che viene ammirata. E l’impazienza non è amica dell’attesa.
- L’attesa fiduciosa di Stevenson
A proposito di questa terna di atteggiamenti – pazienza, ostinazione, speranza – nel 1888 R. L. Stevenson scrisse e pubblicò un breve, magnifico saggio dal titolo Pulvis et umbra che comincia con queste parole:
“Ci aspetteremmo un premio per i nostri sforzi e invece restiamo delusi; non il successo, non la felicità, neanche la tranquillità della coscienza, niente di tutto questo arriva a premiare i nostri inutili tentativi di fare il bene. Le nostre fragilità sono invincibili, le nostre virtù sterili; e la battaglia infuria su di noi fino al tramontar del sole… No, davvero non è strano se siamo tentati a disperare del bene…”.
Stevenson, che aveva avuto un’educazione religiosa, che aveva consuetudine quotidiana con la preghiera e con il sacro, che era ossessionato dalla domanda perché il Male?, che dedicò vita e lavoro al tentativo di contrastarlo, scrisse Pulvis et umbra sull’onda dello stupore provocatogli dalla lettura de L’origine delle specie di Charles Darwin. Impossibile parafrasare Pulvis et umbra, posso soltanto dirvi che si tratta di un capolavoro nascosto e sperare vi venga voglia di leggerlo. Per quanto riguarda il nostro tema, saranno sufficienti le sue frasi finali:
“Che spettro mostruoso è l’uomo… chi ci avrebbe biasimato se fossimo rimasti per sempre barbari e tutt’uno col nostro destino?… questa terra è, dalla cima gelata dell’Everest al margine più prossimo del fuoco interiore, un unico palcoscenico di virtù inutili e un unico tempio di lacrime misericordiose e di perseveranza… È la legge comune e divina della vita. Chi bruca, chi morde, chi abbaia, i manti ispidi dei campi e dei boschi, lo scoiattolo sulla quercia, il verme con i suoi millepiedi nella polvere… sono condannati come noi a essere crocefissi nella doppia legge di essere soltanto un pezzo del tutto e di desiderare… E mentre noi indugiamo, noi cose viventi, nella nostra isola piena di terrore e sotto la minaccia imminente della morte, Dio non voglia che sia l’uomo, l’eretto, il ragionatore, il saggio al suo cospetto – Dio non voglia che sia l’uomo a stancarsi di ben operare, a disperare per i suoi sforzi non ricompensati, o a parlare la lingua noiosa del lamento. Sia sufficiente alla fede constatare che il creato tutto geme per la sua fragilità mortale, e non smette di lottare con costanza indomabile: Certo non sarà tutto invano.
Queste le ultime cinque parole di Stevenson: Surely not all in vain. Certo non sarà tutto invano. Appunto: pazienza, ostinazione, speranza. Anzi, nel suo caso, certezza.
5. Che cosa stiamo aspettando?
Ho parlato della “grande attesa” che ci accompagna per tutta la vita e delle tante “piccolo attese” che la costellano. Ma, come ho già detto, non si può tacere né sottovalutare il fatto che la modernità che ci avvolge sembra essere sapientemente organizzata per abolire l’esperienza dell’attesa. Nel corso degli anni ogni pausa è stata progressivamente e accuratamente riempita. Radio, telefono, televisione, e adesso internet e il “Game” digitale, hanno occupato e sigillato ogni interstizio delle nostre esistenze così che quest’esperienza non è più possibile. Privati fin da bambini di questi ormai antichi momenti di vuoto, l’attesa si è trasformata in un momento interessante per gli intrattenitori e i pubblicitari. Sempre impegnati come siamo in qualcosa, qualcosa che sia preferibilmente molto poco impegnativo, dove lo troviamo ormai il tempo per “tendere il nostro animo verso qualche cosa” che non sia già stato preconfezionato? Come possiamo avere ancora un’illuminazione?
Se, per fare un esempio, ci dicessero che domani arriverà Godot… A proposito: qualcuno oggi sta ancora aspettandolo Godot? Voglio dire: l’atmosfera della nostra mente, in occidente, si può ancora descrivere, come fece Beckett, immersa in quell’attesa?
Se qualcuno mi dicesse che domani arriverà Godot mi metterei certamente ad attenderlo, ma nel frattempo prenderei il mio smartphone, accenderei il pc o la televisione, ascolterei la radio. Starei davvero aspettando? Vladimiro e Estragone aspettano e colmano il vuoto con i loro discorsi, quasi sempre orientati sul passato. Io avrei bisogno di colmarlo di presente, di sentire le ultime informazioni, di distrarmi. Non saprei farne a meno.
Quando venne pubblicato, nel 1952, e poi rappresentato per la prima volta, nel 1953, En attendant Godot ebbe quasi subito un buon successo. Non mancarono però le critiche, anche aspre, e molti erano gli spettatori che abbandonavano scandalizzati la sala prima della fine della rappresentazione. Il testo appariva loro ermetico, metafisico, di difficile comprensione. Il più celebre tentativo di trovare una spiegazione al tipo di teatro che si andava affermando in quegli anni e di cui Beckett era l’esponente di punta fu compiuto da Martin Esslin che coniò, nel 1961, la formula “teatro dell’assurdo”. Per molti anni si continuò a interpretare il testo con questa etichetta.
Ci furono delle persone però che non ebbero alcuna difficoltà a comprendere Beckett e che non lo trovarono affatto assurdo. Come ricorda James Knowlson nel suo Samuel Beckett. Una vita, “Il 3 ottobre del 1954, Beckett ricevette due lettere dattiloscritte in francese provenienti dalla prigione di Lüttringhausen vicino a Wuppertal in Germania: una proveniva dal pastore protestante della prigione, Ludwig Manker; l’altra, più lunga, era firmata semplicemente «un Prisionnier».
«Lei sarà sorpreso – scriveva il prigioniero – di ricevere una lettera sul suo dramma Aspettando Godot da una prigione nella quale così tanti ladri, falsari, delinquenti, omosessuali, pazzi e assassini passano una vita da cani ad aspettare… aspettare… aspettare… Aspettare cosa? Godot? Forse». Il prigioniero raccontava che aveva sentito parlare da un amico francese dell’opera che stava sconvolgendo Parigi e che si era fatto spedire in prigione la prima edizione, che l’aveva letta e riletta, e che l’aveva tradotta in tedesco. Grazie all’intercessione del pastore… Manker aveva ottenuto il permesso di realizzare lo spettacolo in carcere, aveva scelto gli attori, aveva fatto le prove e infine l’aveva messo in scena… L’effetto sugli altri prigionieri era stato elettrico. Un trionfo. «Il suo Godot era il nostro Godot», scriveva il prigioniero. Egli continuava a spiegare come ogni carcerato vedesse se stesso e la sua condizione riflessa nei personaggi che aspettavano qualcosa che desse senso alla loro vita. Offriva poi la sua interpretazione dell’opera, che era per lui una lezione sulla fraternità anche nelle peggiori circostanze: «aspettiamo tutti Godot e non sappiamo che è già qui. Sì, qui. Godot è il mio vicino nella cella affianco alla mia. E allora facciamo qualcosa per aiutarlo, cambiamogli le scarpe che gli fanno male!»”
Quei carcerati, come è evidente, non avevano avuto la minima difficoltà a comprendere En attendant Godot. Sapevano perfettamente cosa significa attendere.
Io invece che cosa sto aspettando a comprenderlo? Che termini la pandemia? Che Putin decida gentilmente di por fine alla sua aggressione? Che le disuguaglianze economiche spariscano per incanto? Che l’emergenza climatica cessi per miracolo?
Forse dovrei essere sincero e ammettere che due sono le cose che desidero veramente. La prima è essere atteso; sapere, o almeno credere, che qualcuno mi stia davvero aspettando. La seconda è che la mia attesa si prolunghi il più possibile, che la mia attesa sia infinita. Perché la fine dell’attesa, nel caso nessuno mi stesse aspettando, soltanto fossi detenuto oppure stessi soffrendo la tortura di una malattia inguaribile, sarei capace di desiderarla.
Che cosa sto aspettando dunque? Come sto aspettando? E che cosa sto facendo mentre sto aspettando?
La notte è tiepida: osservo queste domande a lungo, senza fretta. Non ho le risposte. Spero arriveranno domani.