Proverei a definire il concetto di cura, che nella società “medicalizzata” nella quale viviamo, a maggior ragione con la pandemia, si è ulteriormente impoverito. Credo che questa dimensione della relazione necessita di essere riscattata dalla riduzione a trattamento medico, e ampliata all’”I care” di don Milani, che evoca il prendersi cura di qualcosa e di qualcuno perché ci sta a cuore.
La traduzione di cura è inquietudine e tormento e ha a che vedere anche con l’ansia. Chi si occupa di cura è inquieto e ansioso. Dobbiamo però anche riconoscere una quota di ‘felicità’ nella parola ‘cura’. Gli operatori della cura sono inquieti ma cercano di raggiungere un poco di felicità, sennò sono di scarso aiuto all’altro e a sé stessi. L’altro aspetto che mi piace sottolineare (di questo e della traduzione della parola ‘cura’ sono debitrice allo psicanalista Francesco Stoppa) riguarda il mito di Cura. Cura è una dea che lavora la terra, l’argilla, e ne ricava una figura d’uomo; questa figura ha tuttavia bisogno di anima, di spirito, e per questo si rivolge a Zeus, che essendo la grande divinità può infondergli l’anima. Ne viene però fuori una disputa: a chi appartiene questa figura d’uomo? A chi l’ha creata e modellata come Cura o a chi le ha dato l’anima? La disputa si conclude con la decisione che questa figura d’uomo, quando morirà, restituirà a Zeus la sua anima, ma finché vivrà sulla terra appartiene a Cura. Quindi noi, come esseri di argilla, modellati, apparteniamo alla Cura. In questo senso il concetto di cura è molto prossimo all’I care di don Milani, che evoca la domanda: “a chi apparteniamo?”. E’ un grido che noi umani lanciamo a chi si prende cura di noi, affermando: “ti appartengo” e “mi tocchi”. Il toccare è il modellare la figura d’uomo: è il toccare l’altro e l’avvicinarsi a lui senza averne paura; è il guardarlo anche nelle parti meno nobili, meno trasparenti. In questo senso apparteniamo e ci affidiamo a chi si prende cura di noi.
Il linguaggio della cura è fortemente in crisi e sconta la separazione tra la l’economia e il sociale. Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista, ha dedicato un libro alla “fine della cura”, affermando che la società capitalista l’ha messa in crisi in quanto “da una parte, la riproduzione sociale è necessaria in vista di un’accumulazione capitalistica duratura; dall’altra la vocazione del capitalismo a un’accumulazione illimitata tende a destabilizzare lo stesso processo di riproduzione sociale su cui esso poggia”. Secondo la Fraser, questa contraddizione socio-riproduttiva del capitalismo sta alla radice della crisi della cura.
Partirei dal fatto che si creano sempre più soggetti separati; il capitalismo è penetrato in noi quasi in modo biologico, è dentro le nostre vene e nella nostra carne. Questa invasione e infezione del capitalismo è potente, e l’effetto è la separazione, che non avviene solo tra gli umani, ma anche rispetto a tutto ciò che abita la terra. Si è creato l’uomo separato da tutto il resto del vivente; l’infezione del capitalismo, o, come lo chiamano Philipe Pignarre e Isabelle Stengers, “la stregoneria del capitalismo”, è penetrata nel nostro animo e nei nostri circuiti neurologici, mentali, psicologici, e governa anche i nostri desideri, oltre che i nostri bisogni, come bene afferma Jacques Lacan ne “Il discorso del capitalista”. Questa separazione avviene anche dentro di noi.
Viviamo nell’epoca della scissione, non solo dell’economia dalla società, ma anche – come causa e conseguenza – del corpo dalla mente, del sentire dall’agire, della dimensione razionale da quella emotiva…..
Noi siamo delle cosmologie, siamo abitati da tante parti, da tanti ‘altri significativi’ che ci parlano e ai quali ci rivolgiamo. Uno degli effetti della società capitalista è quello di aver separato l’umano dal resto del vivente e, nello stesso tempo, l’umano dentro di sé, avendo creato parti non comunicanti. La parte di noi con la quale facciamo più fatica a comunicare è quella immateriale, invisibile, inconscia, quella che possiamo definire desiderio o spirito: ha tanti nomi. Credo che questo sia l’effetto, antropologicamente, che più crea disagio e sofferenza nelle persone; uno scollamento tra noi e il resto del mondo e tra parti di noi che ci mette in una condizione difficile per la quale dobbiamo “funzionare” ed essere performativi, e non riconoscere altre parti di noi che – ad esempio – amano perdere tempo oppure non essere performativi ma oziosi, e che magari coltivano la trascendenza, la ricerca spirituale. Io sono per il perdere tempo. La tendenza in atto influenza anche il mondo della cura: siamo pieni di oggetti, di gadget, di strumenti, di tecniche, di farmaci: si verifica un effetto a cascata della “mercatizzazione”, che con il concetto di cura come abbiamo cercato di definirlo non ha molta attinenza.
In questi anni di pandemia le istituzioni hanno ignorato i gravissimi impatti psicologici e sociali conseguenti al lockdown; ci si è concentrati su un solo aspetto della salute delle persone e sui contraccolpi prevalentemente economici della crisi. A conferma che il linguaggio della politica e delle istituzioni del nostro paese è tutto centrato sull’economicismo e incapace di farsi carico dei vissuti complessi delle persone e delle comunità.
Rispetto a tutto ciò che si sta scrivendo sul post Covid, sul long Covid, ecc., io sono più interessata agli effetti sociali, cioè agli impatti che ricadono non solo sul corpo delle persone, ma sul ‘corpo sociale’, in termini di relazione. I giovani, ad esempio, sono stati scollegati rispetto al resto del mondo, rimanendo connessi solo attraverso dispositivi tecnologici; è come se il corpo sociale tra il me-il sè e il mondo non potesse sperimentarsi anche in situazioni estreme come quella della pandemia. Le sofferenze conseguenti le vediamo soprattutto in quei giovani che bussano alle porte dei servizi, portando una sofferenza che non ha ancora una forma, una sofferenza che è alla ricerca di un contenitore e di qualcuno che la sappia ascoltare. Noi incontriamo ragazzi e ragazze che si isolano nelle stanze e non escono più, oppure ragazzi e ragazze che abbandonano la scuola e magari interrompono un percorso formativo che procedeva bene; ragazzi e ragazze che agiscono violenza contro di sè in vario modo, portando un attacco al corpo, perchè è l’unica cosa concreta e materiale che possono toccare e possono ancora usare; oppure che portano attacchi agli altri: violenze di gruppo, anche di genere, o gruppi che si picchiano nelle piazze delle città. Possiamo pensare che utilizzino tali forme perchè questi ragazzi vogliono riappropriarsi dello spazio pubblico per essere di nuovo visibili rispetto ai due anni che li hanno resi invisibili, inesistenti, non pensati.
Anche i Servizi territoriali che si occupano di Salute Mentale sono stati presi in contropiede da queste nuove forme di disagio; quali sono, a suo avviso, le ragioni?
Questa fase difficile è stata una sollecitazione anche per i Servizi della psichiatria infantile e per quella degli adulti che non può accontentarsi delle conoscenze e competenze diagnostiche note. C’è qualcosa di nuovo: è l’emergente più che l’emergenza che ci sta interrogando. Tra questi metto anche i migranti, le seconde generazioni che soffrono, ragazzi stranieri che abusano di sostanze: non esiste più la tossicodipendenza di un tempo. Forse i SerT – i Servizi per le tossicodipendenze – hanno cominciato a vedere queste cose, ma non ce ne siamo preoccupati fino in fondo per costruire risposte capaci di intercettare le nuove forme del disagio. La tossicodipendenza dello straniero nella città è diversa da quella dell’eroinomane che si incontrava negli anni 80-90. Penso che di fronte a queste cose bisogna saper ascoltare. Lo psichiatra Benedetto Saraceno dice che bisogna cominciare a interrogare e ascoltare ancor prima di emettere una diagnosi e somministrare pillole: sarebbe l’abc, molto spesso però siamo pronti per la diagnosi senza tener conto di questa dimensione preliminare.
Lei lavora da molto tempo nei Servizi territoriali dedicati alla Salute Mentale: quali limiti vede nella cura che viene offerta alle persone che li frequentano?
Credo che si investa poco sull’èquipe, sul lavoro di gruppo, sulla possibilità di lavorare insieme; questa è una carenza oramai diventata strutturale, anzi incentivata dallo sviluppo delle multi-professioni che incontriamo nei Centri di salute mentale, nei Servizi di neuropsichiatria, negli stessi SerT. Sono state create tante professioni che tuttavia sono tra loro separate e che non sanno lavorare insieme. Nei Servizi per la salute mentale la sofferenza si esplicita e si manifesta in varie forme; non c’è solo il disagio clinicamente evidente che necessita di una risposta chimica, ma, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci ha insegnato, i determinanti sociali sono strettamente legati al perché e al come una persona soffre, a quanto soffre, e al tipo di cure di cui ha bisogno. Lavorare in èquipe aiuta a riconoscere i determinanti sociali, ossia la ricaduta delle disuguaglianze, della povertà, delle condizioni economiche, che giocano un ruolo nel percorso di benessere o di malessere di una persona.
L’altra carenza che rilevo è che c’è molta routine e poca curiosità nell’approccio alle questioni che trattiamo, e non è solo una scarsa curiosità verso il paziente – chi bussa alle nostre porte, chi entra nei nostri ambulatori – ma anche verso il collega con il quale si lavora insieme. Io non so quasi niente dei miei colleghi, da dove vengono, che studi e formazione hanno fatto, che interessi professionali e personali hanno. Quando vedo un’infermiera con un libro in mano durante la pausa di lavoro, mi fermo a chiedere cosa legge. Se una persona legge un romanzo penso che sia portatrice di un bisogno di immaginazione, di creazione. Più in generale vedo che c’è poca curiosità nelle èquipe di lavoro – laddove esse esistono – verso i mondi che i nostri pazienti ci portano.
La rivista “Educazione sentimentale” ha dedicato di recente un numero al tema “Chi cura chi cura?. Lei, insieme alla psicologa e psicoterapeuta Maria Teresa Gaggiotti, ha curato un volume dal titolo “Il dopo è ora” che racconta l’esperienza della pandemia vissuta in un Centro di salute mentale, “nel dolore della malattia, nel dolore del lutto, nell’assenza di riti collettivi”. Come è evoluto in quel contesto per voi operatori il concetto di cura? E dove voi stessi avete trovato una cura per far fronte ad una situazione inedita e pesante come quella?
Paradossalmente, risponderei provocatoriamente che sono stati i pazienti a curarci. Nel periodo del lockdown, i pazienti eravamo noi operatori; non c’era differenza, infatti tra noi e i pazienti: il virus poteva colpire chiunque. Eravamo spaventati, preoccupati; vivevamo nell’incertezza; governare la solitudine e la separazione è stato molto difficile. Ma i nostri pazienti ci hanno insegnato qualcosa, soprattutto quelli più gravi, che sono in grado di stare da soli, che rimanevano chiusi nelle loro case; l’unico contatto l’avevano con il nostro servizio. Ciò ci ha fatto interrogare su che cosa come Servizi e operatori diamo ai nostri pazienti. La cosa più importante per loro è che qualcuno bussi alla porta chiedendo se hanno mangiato e se hanno fatto la spesa. Questa dinamica ha portato in primo piano anche quelle figure dell’èquipe che in genere vengono interrogate poco, come gli OSS, gli operatori socio-sanitari, e come le infermiere: figure che fanno ancora le visite domiciliari ai pazienti. I bisogni primari, fondamentali, in quel periodo erano importanti anche per noi. Nel libro viene raccontato che tutto è nato perchè in quel momento eravamo noi stessi potenzialmente dei pazienti, anche noi soffrivamo e stavamo male. I servizi sono rimasti vuoti perché i pazienti non erano in grado di venire, quindi siamo andati noi da loro per controllare se facessero la terapia, la spesa, e che rispettassero i pasti. Abbiamo così recuperato una vicinanza con le ‘nude vite’. Per altro verso, abbiamo cominciato a prenderci cura di noi, dell’èquipe, e avendo tanto tempo a disposizione – oltre a quello che passavamo al telefono con i pazienti – siamo riusciti a stabilire che ogni mattina vi fosse un momento dedicato all’èquipe. Non facevamo niente di particolare se non commentare le notizie sulla pandemia che arrivavano e le linee guida governative che cambiavano frequentemente. Inoltre abbiamo iniziato a fare delle piccole sedute di meditazione per rilassarci e per stemperare quell’ansia diffusa tra noi.
Mi sembra di capire che per voi questa fase è diventata uno spazio privilegiato di rielaborazione del senso della pratica clinica e perciò un contesto formativo. Nel libro avete chiamato questa rielaborazione “insight”, ossia “intuizione”. Si è trattato dunque, come scrivete, di “un fondamentale momento di apertura a una ri-significazione della propria soggettività, del proprio essere nel mondo, del passato, di ciò che è stato, dei propri inciampi, delle proprie difficoltà”. Insomma vi siete chiesti “come dare senso a quello che si potrebbe definire un evento di profonda trasformazione del sé, soggettivo e collettivo?”.
I pazienti ci hanno insegnato molto. I servizi erano vuoti, c’era una sorta di pausa istituzionale nel nostro lavoro, e questo ci ha dato una maggiore consapevolezza di chi avevamo accanto, prendendoci, come conseguenza, cura di noi reciprocamente. Ci siamo resi conto che le stesse angosce che vivevamo noi le vivevano i pazienti. Abbiamo allora intervistato i nostri pazienti, i colleghi, le persone direttamente colpite dalla pandemia e sono emersi quelli che nel libro abbiamo chiamato momenti di insight collettivo, ossia momenti di riflessione, di illuminazione, che avevamo avuto tutti: senso di precarietà, incertezza, solitudine, paura, rabbia, il prendere consapevolezza che siamo interdipendenti e che non possiamo fare a meno l’uno dell’altro. Un po’ sulla scia di quanto descritto nella sua pratica dalla psicoanalista inglese Nina Coltart, la quale era molto grata ai pazienti silenziosi, quei pazienti che passano molta parte della seduta in silenzio, perchè permettono all’analista di fare il lavoro di associazione dentro di sé, di collegamenti di riflessioni e di riposo. Anche nel nostro servizio abbiamo vissuto dei silenzi, e spesso delle pause, rispetto al lavoro con i pazienti nelle videochiamate e telefonate che non ti permettono di stare in silenzio. Però c’erano delle pause, e le pause accomunano l’operatore e il paziente perchè quello è il momento dell’incertezza nel quale non sai cosa rispondere e che domanda fare, e perciò in che direzione andare. Dura poco ma è un momento generativo perché ci mette nella stessa posizione del paziente. Questo è stato un altro insegnamento: dare valore al silenzio, dare valore alla pausa.
Chi cura chi cura?
Credo che dobbiamo curare le èquipes, ciò che è stato trascurato non solo durante l’emergenza pandemica. In quell’occasione si è vista con chiarezza l’assenza di supporti. Chi era in prima linea avrebbe avuto la necessità di un sostegno, di momenti di pausa e soprattutto di spazi di decompressione. Credo che alla fine della seconda ondata della pandemia, le istituzioni avrebbero dovuto regalare del tempo di decompressione a chi aveva lavorato così tanto. Qualcuno aveva avanzato la proposta che ognuno di noi potesse regalare alcune ore di lavoro ai colleghi che sono stati in prima linea in ospedale, per dare loro la possibilità di riposarsi e tirare il fiato; una proposta che per ragioni sindacali non è stata accolta.
Parliamo della psichiatria e del linguaggio della cura che oggi esprime la pratica clinica in questo ambito. Quanto è in grado di rispondere alla domanda di benessere e di socialità delle persone che soffrono di una patologia psichica?
Parto dalla storia della psichiatria, che è una “scienza” giovanissima, che nasce separando i soggetti malati di mente dai soggetti considerati “devianti”: la psichiatria nasce nella prigione, per liberare dalle catene i cosiddetti “folli” e lasciare nelle catene i devianti; e già questo mi fa riflettere. L’altra cosa che mi fa pensare è che la psichiatria ha tentato di darsi lo statuto di scienza, ma in realtà di scientifico ha ben poco. Il libro di Benedetto Saraceno che si intitola “Sulla povertà della psichiatria” parla di povertà non soltanto facendo riferimento ai pazienti – sappiamo infatti che chi è povero si ammala di più in tutti i sensi, anche dal punto di vista mentale -, ma riferendosi alla povertà della psichiatria dal punto di vista epistemologico. Andando avanti, Freud comincia a dare valore al mondo soggettivo: io credo alla psicanalisi, ma all’inizio era una cura per pochi, e se vogliamo ha curato quella forma di rivolta femminile che va sotto il nome di “isteria”: anche qui è tutto correlato all’ambiente e al contesto nel quale le persone vivono e si educano. Proseguendo ancora nella storia, oggi registriamo l’ipertrofia delle diagnosi – siamo a 365 nell’attuale DSM V, il Manuale che classifica le patologie mentali – quindi l’ipertrofia delle molecole di risposta ipoteticamente valide, ma di cui non abbiamo conferme. Io vedo da una parte una pratica clinica che in alcuni contesti cerca di darsi contenuti scientifici e non li trova, e dall’altro invece una pratica clinica che se interrogasse di più le ragioni e le modalità attraverso le quali le sofferenze prendono forma, forse troverebbe anche un modo per cercare di far star meglio le persone.
Riprendendo un tema caro allo psichiatra Angelo Righetti, collaboratore di Franco Basaglia, bisognerebbe intessere, fuori e dentro i servizi sociali e le istituzioni, una rete affettiva che contenga la persona e la riabiliti ad una socialità feconda. Cosa ne pensa?
Il principio di empatia mi sembra quello più importante con cui confrontarci oggi per prevenire le patologie costruendo relazioni efficaci tra le persone. Il rischio è di avere sempre più persone meno empatiche e più psicopatiche e sociopatiche: una proliferazione di profili alla Joker, una figura ben rappresentata dal film di Todd Phillips di alcuni anni fa, che mette in relazione la sua “cattiveria” con il tipo di madre che ha avuto e col contesto pieno di umiliazione nel quale ha vissuto, sottolineando la sottrazione che ha sofferto rispetto alla sua capacità empatica. Dobbiamo allora riconoscere che siamo in un tempo in cui è messa in crisi la simpatia tra gli umani, perchè siamo razzisti, sessisti, classisti, ecc.: tutto questo produce forme di sofferenza perchè dell’altro non mi interessa nulla, perché l’altro non lo vedo, l’altro è qualcosa che posso calpestare. Nei Servizi, per poterli cambiare, dobbiamo saper riconoscere quanta affettività è presente nelle stanze delle nostre istituzioni, lasciata nel tempo sia dai pazienti che dai colleghi. Oggi, per fare un esempio, non si racconta quasi nulla della storia di un paziente a un nuovo collega che lo prende in carico, così come non sappiamo molto delle storie dei nostri servizi. Ho incontrato diversi giovani psichiatri che non sanno nulla di Franco Basaglia. Trovo allora che sia necessario raccontare la bella storia, che non è solo quella del paziente ma è anche quella di ciascuno di noi, perchè chi arriva a fare lo psichiatra nei Servizi territoriali qualcosa aveva in mente, non certo quella di dare diagnosi e medicine, altrimenti faceva un altro mestiere. Se togliamo la parte affettiva dalla prassi clinica, creiamo quella separazione di cui abbiamo parlato. Il lavoro di cura non si può svolgere senza la dimensione affettiva-emotiva, e ciò vale anche per l’èquipe di cura, della quale ci preoccupiamo di valutare il suo funzionamento, meno tuttavia ci interroghiamo su come stanno le persone che ci lavorano.
¹ N. Fraser, La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, Mimesis Edizioni, 2016
² P. Pignarre, I. Stengers, Stregoneria del capitalismo. Pratiche di uscita dal sortilegio, IPOC, 2016
³ Chi cura chi cura?, Educazione sentimentale. Rivista di Psicosocioanalisi (vol. II), n° 34, 2020, Franco Angeli
⁴ M. Inglese, M.T. Gaggiotti (a cura di), Il dopo è ora. Una comunità di cura incontra la sofferenza psichica in tempo di pandemia, Luigi Battei, Associazione Culturale, 2022
⁵ B. Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, DeriveApprodi, 2017