Un libro così era necessario.
In un tempo così difficile per il lavoro non solo perché non è più quello di un tempo, come indica il titolo, ma anche perché è necessario rivedere i modelli presenti oggi, soprattutto da quando la pandemia ha dato un colpo di coda a una situazione già allo stremo.
Nel numero di gennaio della rivista online Passion&Linguaggi, abbiamo volutamente ripreso il tema della precarietà del lavoro come grido di allarme soprattutto per i giovani.
Leggiamo nel testo di Morelli e Varchetta che le cose stanno cambiando per fortuna e liberare il lavoro oggi potrebbe essere possibile, solo riconoscendo il lavoro come pratica della libertà, attuando una rivoluzione, oggi più che mai necessaria e come già intuito da Novara ormai qualche decina di anni fa.
Basti pensare a cosa è accaduto con lo Smart Working. Tralasciando le modalità con le quali si è affermato e le potenzialità che non siamo invece stati in grado di cogliere, mi piacerebbe portare l’attenzione al concetto di fiducia dell’altro nel lavoro che porta inevitabilmente a ripensare all’importanza della formazione e dell’aggiornamento. I dirigenti da un giorno all’altro richiamano in ufficio i propri collaboratori, come se si avesse la certezza che una persona in ufficio lavora di più e lavora fattivamente. Questa è una questione di controllo e denota una mancanza totale di formazione e di aggiornamento in chi ricopre posizioni strategiche. Per attuare un passo avanti decisivo non ci si può affidare al caso e non possiamo nemmeno rimanere con la testa girata indietro, ma abbiamo la necessità di investire in formazione e in educazione (terza educazione), è l’urgenza di riflettere su cambio di cultura che parta dalla dirigenza e che si rivolga soprattutto ai giovani.
Riguardo a questi cambiamenti così repentini e veloci ci può aiutare indubbiamente il saggio di Richard Baldwin (La rivoluzione globotica) che ci fornisce un esame di realtà documentato e sconvolgente, chiarendo con dati e argomentazioni molte cose che intuiamo e viviamo da qualche tempo sul cambiamento in atto nelle nostre società e nelle nostre economie. Una misura ce la danno le professioni del futuro ed è urgente rendersene conto prima possibile, nonostante ad oggi non si vedono purtroppo segnali che vanno in questa direzione.
I metodi e i contenuti con cui educhiamo le giovani generazioni si muovono ancora con la testa rivolta all’indietro.
Compito prioritario quindi è smettere di utilizzare contenuti e modelli del passato pre pandemico, per leggere il presente e pensare il futuro. Le testimonianze che giungono dalla voce delle nuove generazioni parlano già un’altra lingua, da cui è indispensabile partire.
Basterebbero il lavoro, l’educazione (terza educazione) e la cura per concepire un’azione educante in grado di creare un presente vivibile e un senso di futuro, in un mondo dove il lavoro riprende il suo significato più nobile e arricchente.
Sarebbe necessaria una figura come Francesco Novara oggi per aiutarci ad avere una guida da seguire e una strada da percorrere. Questo libro del resto può essere proprio un primo passo in questa direzione.
Abbiamo dialogato con uno degli autori per capire meglio quale è il pensiero e la riflessione profonda che si possono trarre dalle pagine di uno dei testi più importanti su questi temi oggi.
Ugo Morelli, la relazione con Francesco Novara è stata una relazione importante, come si evince dalle pagine del libro. Oggi più che mai un testo come questo è un grido di attenzione (in termini di accoglienza) in un mondo del lavoro sempre più complesso…
C’è una parola insopportabile, è la parola maestro. Perché implica un’asimmetria dichiarata e gerarchica. Se una o uno riescono a divenire inutili per un’altra o un altro, allora forse hanno svolto il proprio compito. Se, poi, nonostante il loro stile umile di pensiero e relazione, non saranno sentiti mai come inutili da qualcuna/o con cui hanno vissuto e lavorato, allora siamo di fronte a una relazione più unica che rara. Situazioni che si contano sulle dite di una mano e avanzano almeno quattro dita.
Ecco, Novara è stato un essere umano presente più o meno in questo modo nella mia inquieta avventura.
C’era e c’è sempre, ma è come se non ci fosse mai.
È vero, il suo era un grido verso coloro che teorizzavano la cosiddetta fine del lavoro, anziché impegnarsi per migliorare le condizioni e le relazioni lavorative, riconoscendo finalmente il lavoro come un dato originario interno.
Ognuno di noi è fatto di azione e movimento, oltre che di relazioni. In quanto forme vitali tendiamo all’azione e il lavoro si situa al punto di incontro del nostro mondo interno con il mondo esterno, facendo i conti con il principio di realtà. L’opera che compiamo e il ben fatto riconosciuto dagli altri sono una delle fonti essenziali della nostra stessa individuazione.
In che modo oggi si può pensare al lavoro come pratica della libertà?
Liberare il lavoro è il sogno ad occhi aperti dell’umanità da sempre. Eppure, il lavoro e il suo prodotto, il suo significato e il suo valore materiale e simbolico sono sempre stati oggetto di espropriazione. Viviamo una frontiera storica oggi. Il lavoro è del tutto cambiato e cambiano le sue forme e le aspettative relative al lavoro. La dematerializzazione ha portato al centro quello che, in fondo, per una specie simbolica è stato sempre il valore fondativo del lavoro e della sua qualità: il significato del lavoro. Peccato che in organizzazioni ossessionate dal comando, dall’esecuzione e dal controllo, in particolare i capi e i datori di lavoro non se ne siano quasi mai accorti. Causando un grande spreco. Prima di tutto uno spreco motivazionale con ricadute problematiche sulla produttività e sulla qualità della vita di lavoro. Una vera e propria eterogenesi dei fini. E poi uno spreco umano, perché l’alienazione non serve a nessuno e crea solo società più anomiche e violente. C’è da domandarsi se non esista una sorta di coazione a ripetere che porta a creare le organizzazioni per avere a disposizione una palestra per sfogare gli umani cinismi e le umane nevrosi e perversioni. Rimane il fatto che il lavoro si libera mediante la relazione, che è il luogo di tutti i problemi e di tutte le possibilità.
Quali vie Novara vedeva per accompagnare i giovani nel mondo del lavoro?
Chi ha lavorato con Novara si è reso conto, perché l’ha vissuto, di cosa vuol dire che qualcuno si accorge di te e ti considera. Se si riflette sul valore dell’accorgersi e del considerare si riconosce che si tratta di esperienze fondative e capaci di cambiare una vita. Come ha scritto il regista Rainer Werner Fassbinder nella propria autobiografia incompiuta: “sono i figli del falso amore i principali responsabili del male sulla Terra”. Non solo Francesco Novara è stato un grande allevatore e allenatore, ma ha insegnato ad esserlo. Nei suoi lunghi anni olivettiani, un criterio di base era far crescere i giovani inserendoli in azienda, non solo, ma privilegiare l’inserimento dei giovani provenienti dalle classi sociali più svantaggiate. Oggi le giovani generazioni hanno domande del tutto cambiate rispetto al lavoro, e se proseguiamo come ritengo si debba fare, in base all’insegnamento di Novara, dobbiamo ascoltare quella domanda, la sua laicità, il diverso modo di intendere il rapporto tra vita e lavoro, le forme di elaborazione di una condizione endemica di precarietà e di sentimento e durezza dell’esclusione, i linguaggi del tutto nuovi per rappresentarsi e praticare il lavoro. Le organizzazioni devono domandarsi cosa perdono nel persistere in forme arcaiche di lavoro, in termini di tempi, di condizioni, di retribuzione, di mortificazione delle capacità distintive dei giovani. E il sindacato è tempo che si domandi cosa perde a rappresentare solo le forme decadenti del lavoro. Per accompagnare i giovani nel mondo del lavoro devono prima di tutto cambiare le organizzazioni e i linguaggi della rappresentanza.
Parliamo spesso di Mondo del lavoro e sempre più è un mondo parallelo e lontano dalla realtà, in che modo secondo voi questi due mondi, realtà attuale e lavoro, invece, fondamentali l’uno per l’altro potrebbero dialogare?
In primo luogo, porrei la questione del tempo e delle opportunità. Abbiamo bisogno di ridurre il tempo lavorato in modo da aumentare le opportunità di lavoro per il maggior numero possibile di persone. Attendiamo che qualcuno abbia il coraggio e la determinazione per portare avanti una riflessione sulla redistribuzione delle opportunità lavorative, riducendo il tempo lavorato dal singolo in modo da favorire l’esperienza lavorativa al maggior numero possibile di persone. In secondo luogo, è necessario porre mano al rapporto tra capacità e opportunità. Oggi le capacità sono quasi esclusivamente subordinate alle opportunità disponibili e i datori di lavoro non tengono conto della necessità di rivedere, aggiornare e migliorare se stessi, il livello delle conoscenze e dell’organizzazione aziendale, nonché la qualità di quelle opportunità. Le potenzialità dei giovani e le loro capacità, nonostante la crisi del sistema formativo, continuano ad essere superiori ai livelli di innovazione all’interno delle organizzazioni. Purtroppo, il sistema scolastico risulta schiacciato su una domanda arretrata e superata dai tempi e si subordina a quella domanda, tradendo il fatto che è la conoscenza il principale fattore economico e sociale oggi.
– Se Novara fosse qui oggi, cosa penserebbe di tutto ciò che ha detto e che è ancora, ahinoi, così attuale?
Dove non c’è il lavoro non c’è più la società, penso sarebbe la prima cosa che ascolteremmo dalla sua pacata e interminabile conversazione. Un lavoro non alienato, non basato cioè sulla persistenza in vita di ciò che è morto. Riceveremmo, molto probabilmente, da Novara una riflessione accurata sull’evidenza che i settori produttivi e le forme di vira lavorativa devono ridefinirsi e ristrutturarsi per poter essere all’altezza dei tempi nell’era della crisi climatica e delle risorse disponibili. Non parlerebbe di sostenibilità, in quanto scansava ogni volta che poteva le ideologie, ma porrebbe in evidenza l’opportunità di impostare l’economia e il lavoro sul criterio del limite come possibilità. Non mancherebbe, quasi certamente, di ricordarci che è l’impresa per la donna e l’uomo e non la donna e l’uomo per l’impresa.
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