Al filosofo Mauro Ceruti, e allo storico, Guido Formigoni, chiediamo le ragioni di un libro, da loro curato per i tipi de Il Mulino, che parla in termini critici di globalizzazione, nel senso di come essa ha trasformato la dimensione spazio-temporale del pianeta.
L’idea di partenza è stata quella di analizzare i percorsi di cambiamento degli ultimi decenni. Se la globalizzazione è un grande fatto culturale, occorre mobilitare una capacità culturale per comprenderla e per comprendere come gli attori e i soggetti della storia, delle società, delle culture, l’abbiano percepita o l’abbiano subita, l’abbiano vissuta e vi siano adattati, o l’abbiano anche contrastata.
Nel volume emerge che l’unificazione del mondo non ha significato omologazione e omogeneizzazione delle culture. C’è chi ha sempre creduto il contrario.
La globalizzazione è piuttosto caratterizzata da un’ambivalenza strutturale, che intreccia processi di omogeneizzazione con nuove differenziazioni e frammentazioni. Il panorama globale dei nostri giorni è dunque caratterizzato, si può dire in ogni dove, da diverse forme di mescolanza fra innovazioni e arcaismi, tra fughe in avanti e regressioni, fra spinte avveniristiche e impronte di “passati che non passano”. Ed è appunto questa frantumazione della modernità che si manifesta nel declino dell’idea di un progresso lineare e inevitabile.
La chiave ermeneutica che avete scelto per parlare di globalizzazione sono i confini. Perché?
Contrariamente a quanto si afferma spesso, la globalizzazione non ha annullato i confini. Al contrario , assistiamo a una moltiplicazione delle loro forme, funzioni e localizzazioni: moltiplicazione che interroga la politica, le forme di vita associata, i linguaggi e le pratiche scientifiche. I confini sono una via privilegiata per riflettere sulla nostra contemporaneità, globale e globalizzata.
Nel volume, che propone un approccio interdisciplinare e transdisciplinare, si parla di “confinamenti” e “s-confinamenti”, in che senso?
La globalizzazione ha creato nuovi “confinamenti” in modo inaspettato, per esempio, quando ha limitato i movimenti delle persone, mentre ha facilitato lo spostamento delle merci e dei capitali. Ma ha anche creato molteplici “s-confinamenti”, per superare le differenze creando incontri inediti e intrecciando i fili di identità e culture tradizionalmente distanti. E’ la multi-dimensionalità dei confini come luoghi complessi e relazionali, attraversati da molteplici tensioni tra chiusura e apertura, che ne contrassegna un’inedita centralità nell’età della globalizzazione.
Proponete una chiara questione di metodo nell’approccio ai confini, tra ambivalenza e complessità del termine…
La scelta di porre tra parentesi l’iniziale “s” della parola “sconfinamenti” è volta a esprimere in un unico termine – “(S)confinamenti”, appunto – l’impossibilità di sciogliere la complessità del confine, l’impossibilità di separarne la duplice dimensione di chiusura e apertura.
Tale prospettiva recupera anche l’etimologia della parola confine.
L’etimologia della parola “confine” è cum finis, la fine che ho in comune con l’altro: non una divisione netta e invalicabile, dunque, che separa il noi da ogni “altro” da noi, ma uno spazio di con-divisione; non una statica definizioni delle appartenenze tradizionali, ma anche un laboratorio innovativo in cui si forgiano e si contaminano identità in divenire.