E’ attuale sentir parlare di “Great Resignation”, ovvero il fenomeno che vede un numero considerevole di persone dimettersi dal proprio lavoro, nella maggior parte dei casi senza aver già un’altra offerta alternativa o un’opportunità economicamente più vantaggiosa, anche in Italia.
Nella mia esperienza personale ma soprattutto lavorativa in ambito risorse umane mi pongo alcune domande e varie riflessioni mi hanno portato ad approfondire alcuni concetti, tra cui quello di Confine.
Il confine può essere inteso come quella demarcazione tra elementi vicini, essi siano materiali o immateriali. E’ tuttavia una convenzione che ci si è dati nel tempo e che, al pari di norme e consuetudini, utilizziamo per interpretare la nostra esistenza in una comunità. Esso però non è imperturbabile: non solo può trasformarsi con il mutare delle condizioni ma contempla la possibilità di essere reinterpretato.
Circa le “Grandi Dimissioni” diverse sono le teorie che cercano di spiegarne la genesi. Molte di esse convergono nell’affermare che questo fenomeno derivi da una serie di fattori, molti dei quali portano a riconsiderare il senso del lavoro rispetto alla vita privata. E’ però sufficiente considerare solo le sfere di vita privata e vita lavorativa? E’ opinione di chi scrive che sia necessario estendere le dimensioni dell’esistenza di un individuo ad almeno quattro sfere: individuale, privata, sociale e lavorativa (escludendo, almeno per il momento, il metaverso). Oggigiorno, anche se in diversa misura, una persona si trova a dover tracciare più o meno consapevolmente un confine tra il proprio sé, tra le persone con cui ha una stretta relazione, tra il rapporto che ha rispetto alla comunità e con il proprio lavoro. Se l’interconnettività, l’ipertrofia informativa e le nuove modalità di comunicazione stanno rendendo pericolosamente più labili e confusi i confini tra le prime tre, diverso è per quello lavorativo.
Rispetto alla dimensione professionale il confine pare delinearsi sempre più marcatamente, riconsiderando il ruolo del lavoro e del tempo nella propria esistenza. Questo assume un carattere ancor più rivoluzionario se si pensa alla storia del nostro Paese. L’Italia nei secoli ha fatto dell’impresa famigliare, della cooperazione e delle competenze artigiane tramandate tra generazioni un modello di successo che ancora oggi è il perno del sistema produttivo nazionale. Se passeggiando per Firenze si scorgono ancora le “botteghe” appartenenti alle Corporazioni delle arti e mestieri, è altrettanto facile notare nelle zone artigianali di qualsiasi provincia italiana che abitazione e attività produttiva coesistono nella stessa proprietà. Basti pensare a quante eccellenze ancora oggi sono guidate con successo dalle stesse famiglie che hanno fatto nascere quell’impresa. Il confine tra vita lavorativa e vita professionale è quindi stato estremamente “poroso” e non solo per l’imprenditoria italiana. Una persona poteva trovare nel proprio lavoro, anche subordinato, un vero e proprio scopo. Il lavoro assumeva una valenza che valicava il proprio confine, poiché era capace di soddisfare aspirazioni personali, migliorare le proprie condizioni economico/sociali, dare un senso di appartenenza.
Perché oggi vediamo questo cambio di paradigma, in cui il lavoro pare perdere alcuni dei suoi connotati per limitarsi a mezzo di sostentamento? Le variabili da analizzare sono certamente molteplici e complesse, tra queste la mancanza di un confronto tra chi vive questa condizione e le istituzioni, nonché le organizzazioni aziendali. Il mondo del lavoro negli ultimi cinquant’anni ha focalizzato i propri sforzi verso efficienza e performance, in realtà sempre più complesse e organizzate, con catene del valore che coprono due o più continenti in un mercato globalizzato. Questo ha portato lavoratrici e lavoratori ad allargare il confine della dimensione lavorativa a discapito delle altre per il raggiungimento di quanto richiesto, a fronte però di benefici sempre più limitati, di carriere appiattite e concorrenza estrema in termini di competenze richieste. Poi è arrivata la pandemia.
Il valore che ha assunto il tempo in questo periodo è emblematico: se prima dei lockdown era più frequente dedicare tempo alla vita lavorativa a scapito delle altre sfere, in un mondo potenzialmente senza confini di spazio, durante la pandemia per molti lo schema si è invertito. Pare essersi riscoperto il valore del tempo come risorsa concreta, limitata, non replicabile, non sostituibile e non accumulabile (diversamente ad esempio dal denaro). Così modelli organizzativi basati su concetti di efficienza operativa si scontrano inevitabilmente con chi oggi si pone domande sul senso e sul perché ricoprire una certa mansione.
Questo cambiamento di prospettiva deve essere oggetto di dibattito per ripensare profondamente ai valori su cui si fondano le aziende e il loro fine ultimo, ma anche ai contratti e le norme che regolano i rapporti di lavoro. Tale confronto non può più essere eluso o posticipato perché, a differenza del passato, le reazioni probabilmente non assumeranno le tradizionali forme quali manifestazioni o scioperi, ma si realizzeranno con quanto già sta avvenendo: il confinamento del lavoro a una dimensione marginale rispetto al passato, con conseguenze etiche, sociali ed economiche imprevedibili.