- Perché per gli economisti è difficile parlare di fiducia
Come ho avuto modo di scrivere in un precedente articolo1, anche se è evidente che la fiducia è uno stato d’animo che può influenzare le scelte economiche, gli studiosi di economia hanno difficoltà ad affrontare questo tema. Le analisi, infatti, continuano ad essere condizionate da una visione dell’economia fondata su individui che scelgono in maniera razionale con l’obiettivo di massimizzare il benessere. Una visione che non lascia spazio ad una questione come la fiducia e ci costringe in qualche modo ad entrare in una di quelle zone d’ombra presenti nella teoria economica. Zone nelle quali diventa difficile il dialogo tra i processi reali ed il modo in cui viene normalmente interpretato e raccontato il funzionamento di un sistema economico.
Un indice di questa difficoltà può essere individuato nel fatto che nella letteratura economica non è facile trovare una definizione di fiducia condivisa. L’unico aspetto sul quale le analisi sembrano convergere è che si tratta di una questione che va collegata con l’esistenza di condizioni di incertezza nel sistema economico. Mutti la definisce come “un’aspettativa di esperienza con valenza positiva per l’attore, maturata in condizioni di incertezza”2. In sostanza, ci dice Mutti, la fiducia può essere vista come uno strumento attraverso il quale gli individui possono ampliare l’area delle certezze all’interno di un contesto caratterizzato da incertezza.
E qui cominciano i problemi perché, secondo una parte importante della riflessione economica, ma anche degli operatori di mercato, l’incertezza non esiste. In queste impostazioni l’esistenza di incertezza è esclusa da un insieme di ipotesi come quella di conoscenza perfetta (tutti sanno tutto), di processi deterministici (da ogni azione derivano sempre le stesse conseguenze), le situazioni non sono mai di incertezza ma solo di rischio. Si può parlare di rischio quando si è in grado di dare agli eventi un qualche grado di probabilità di verificarsi. In sostanza ci si può assicurare. Cosa che invece non è possibile nelle situazioni che definiamo di incertezza, nelle quali nessuna assicurazione firmerebbe una polizza. Due situazioni dunque profondamente diverse sul piano logico, ma soprattutto che hanno implicazioni differenti sul modo di essere dei sistemi economici. In contesti dominati dall’incertezza i comportamenti sociali tenderanno necessariamente ad essere molto più prudenti. Ragionare in termini di rischio rende invece possibile proiettarsi in avanti nel tempo, magari assicurandosi contro l’evento indesiderato. Cosa indispensabile per lo sviluppo di ogni attività economica, e in particolare dell’attività finanziaria.
Alla luce di quanto si è appena detto si potrebbe concludere che la teoria economica si è presa il compito di nascondere e quindi di esorcizzare i problemi che derivano al funzionamento dei sistemi economici dall’esistenza di situazioni più o meno diffuse di incertezza. Le cose non stanno solo così. Ci sono altre ragioni, più profonde, perché la cultura del mercato non può considerare l’incertezza. Bisogna considerare infatti che questa cultura è fondata sulla cosiddetta etica delle conseguenze. Una visione dell’etica che non guarda alle motivazioni che stanno alla base delle azioni per giudicare il valore morale di ciò che si sta facendo. Guarda invece alle conseguenze delle azioni. Se queste portano a risultati che possono essere giudicati positivi secondo un qualche criterio, allora quelle azioni possono essere giudicate moralmente accettabili. Le ragioni sono comprensibili. E’ solo ponendosi dal punto di vista dell’etica delle conseguenze che il mercato trova una sua giustificazione etica. Se è vero infatti che l’agire dei mercati rende possibile il raggiungimento del massimo benessere economico (non ci soffermiamo qui sulla definizione, evidentemente discutibile, di benessere che è implicita in questa visione), la conclusione che se ne deve trarre è che perseguire i propri obiettivi egoistici non solo non deve essere considerato moralmente discutibile, ma è l’unica scelta accettabile. Il comportamento egoistico, che è poi quello dei soggetti che operano sui mercati, è quello che realizza il massimo della moralità sociale perché è quello attraverso il quale si genera il massimo benessere economico.
Il problema è che per poter giungere a questa conclusione, per ragionare cioè in termini di etica delle conseguenze, è necessario dare per scontato il fatto che da una certa azione derivino conseguenze certe o, in ogni caso, prevedibili. Si può affermare che una determinata situazione B si è creata per effetto dell’azione A solo in assenza di incertezza. Se viceversa questa esiste, ogni azione non può più essere giudicata sulla base di conseguenze, che diventeranno indeterminate, ma esclusivamente sulla base delle motivazioni che l’hanno ispirata. Si deve tornare, in altre parole, ad utilizzare la cosiddetta etica deontologica.
La conclusione che deriva da quanto abbiamo appena detto è che nei sistemi economici di mercato vi è una tendenza sia da parte degli operatori che da parte della cultura economica a sottovalutare in maniera strutturale gli elementi di instabilità potenziale che sono sempre presenti nei sistemi economici.
2. I diversi tipi di fiducia
Abbiamo detto che la fiducia può essere considerata un modo per riuscire a governare le situazioni di incertezza, trasformandole in situazioni di rischio che, come tali, appaiono più “maneggiabili” da chi opera sui mercati. Il problema a questo punto è capire cosa significa più “maneggiabili”. Se cioè sia un modo per superare effettivamente i problemi dell’incertezza o semplicemente per nasconderli. Per fare questo dobbiamo partire dal fatto che esistono vari tipi di fiducia, a seconda di chi è il destinatario della fiducia. Se questi è lo stesso che concede la fiducia allora si parla di fiducia personale, di fiducia in se stessi o nella propria capacità di comprendere il mondo che lo circonda. Quando invece il destinatario della fiducia è una persona diversa da quella che la concede si parla di fiducia interpersonale. In questo caso l’attesa è che colui al quale si attribuisce la fiducia non si comporterà in maniera lesiva degli interessi di chi la concede. Si parla invece di fiducia sistemica quando questa è riposta “… nella stabilità in un determinato ordine e nelle sue regole”3. Una fiducia, in altre parole, nel modo di essere del sistema economico che trova alimento in una capacità di elaborare previsioni corrette. Si può parlare dell’esistenza di una situazione di fiducia sistemica quando la maggioranza delle persone considera le regole sulle quali è organizzato un determinato sistema come scontate, se non le migliori possibili4, se non altro perché queste persone ritengono che l’ordine che si viene a determinare sia fondamentalmente condivisibile.
Queste tre fiducie sono diverse tra loro anche perché sono generate da una miscela differente di due componenti. La prima è chiamata cognitiva perché è la fiducia che si costruisce con l’esperienza che si è fatta in passato e che si è accumulata col tempo. Una fiducia dunque relativamente stabile, anche se non completamente, che è poi quella prevalente nel caso di rapporti interpersonali. Diverso è invece il caso della fiducia che possiamo definire emotiva, perché è meno legata alla razionalità. La caratteristica di fondo di questa seconda fiducia è evidentemente il suo essere più esposta a cambiamenti importanti e repentini quando i fatti non la supportano ma anche come effetto di attese non necessariamente razionali. Una componente, quella emotiva, che svolge un ruolo centrale, o in ogni caso prevalente, sia nella fiducia in se stessi sia in quella verso il sistema economico. Due tipi di fiducia che sono quindi più esposte, almeno sul piano potenziale, a oscillazioni anche brusche.
Una situazione di instabilità potenziale che è particolarmente grave se si pensa che è grazie alla fiducia sistemica che diventa più facile gestire e affrontare gli elementi di complessità che caratterizzano i sistemi economico sociali rendendoli più stabili nel tempo. Non è un caso che la creazione o il consolidamento della fiducia sistemica venga considerato un obiettivo condiviso da tutte le autorità pubbliche5. Una obiettivo che viene perseguito da un lato rafforzando la componente cognitiva della fiducia – attraverso la fissazione di regole e istituzioni capaci di dare risposte, almeno in un arco di tempo non troppo lungo, ai problemi con cui in una certa fase il sistema economico sociale deve confrontarsi. E, dall’altro, sostenendo la fiducia emotiva attraverso politiche di reputazione delle istituzioni o anche delle persone preposte al buon funzionamento del sistema.
La conclusione a cui si può giungere è che la fiducia sistemica, cioè il tipo più importante di fiducia, contribuisce indubbiamente a rendere i sistemi economico sociali stabili, ma solo quando i sistemi sono in una fase in cui i cambiamenti sono pochi. Quando cioè gli elementi di complessità insiti in ogni sistema riescono ad essere governati dalle regole che costituiscono l’ossatura di questi sistemi e dalla cultura che giustifica e costruisce la fiducia intorno a queste regole. Nel momento in cui, viceversa, un sistema entra in crisi, nel senso che alcuni importanti elementi di contesto cambiano, la fiducia sistemica, intesa come insieme di regole e cultura condivise, può finire con lo svolgere un ruolo negativo perché aumenta le inerzie presenti nei sistemi e non aiuta a capire il significato dei cambiamenti in corso.
3. La crisi del mondo globale e il riemergere delle complessità
Ragionare sulla fiducia ci mette in condizioni di riflettere su quanto sta accadendo in questi ultimi anni e mesi e sugli scenari che si potrebbero delineare in un futuro più o meno prossimo. Quello che appare sempre più evidente è infatti che il contesto internazionale, dopo un lungo periodo di relativa stabilità – molti hanno parlato, esagerando come capita, di un’era della globalizzazione – comincia a mostrare segni sempre più evidenti di cambiamento. La rottura di equilibri che fino a non molto tempo fa erano dati per scontati sta facendo emergere un insieme di elementi di incertezza che stanno minando la convinzione di comprendere il funzionamento del sistema economico e quindi la capacità di prevedere il futuro.
I primi segnali di instabilità del mondo della globalizzazione, come sempre accade, possono essere colti nel fatto che le regole che la governavano non vengono più date come intoccabili, anche se si tende a sottolineare che si tratta di cambiamenti temporanei. Si è cominciato con il “whatever it takes” di Draghi che di fatto è stato un modo per restituire alle Banche Centrali il loro ruolo di sostegno della politica; ci si è poi accorti, con la pandemia, che non è saggio considerare la spesa pubblica come un male. Un giudizio che sarà certamente rafforzato dalle decisioni recenti di procedere a politiche di riarmo giustificate dalle nuove tensioni internazionali. Si è infine messo in discussione un altro caposaldo della saggezza convenzionale degli ultimi decenni e cioè che il principale compito della FED e della BCE, e più in generale di tutte le banche centrali, fosse quello del controllo dell’inflazione. Un cambiamento quest’ultimo epocale che costituirà certamente un fattore di accelerazione dei mutamenti nel modo di funzionare del sistema economico internazionale ma anche nel rapporto tra economia reale e sistema finanziario.
Un modo di essere dei processi economici che ruotava intorno al mito della unificazione dei mercati e a quello della competitività sta lasciando il posto a qualcosa di diverso di cui non si riescono ancora a cogliere i contorni. Gli elementi di frizione politica tra paesi, che sono diventati ormai evidenti, lasciano pensare all’arrivo di una stagione nella quale prevarranno gli elementi di frammentazione dei mercati, non solo reali. Il sistema finanziario internazionale finora governato dagli Stati Uniti difficilmente sopravviverà in queste forme a un mondo in cui i conflitti, in varia forma, si moltiplicheranno. L’uso politico che gli USA stanno facendo della propria posizione finanziaria per mettere in difficoltà la Russia non potrà che tradursi in un’accelerazione dei processi di segmentazione dell’attività economica e finanziaria.
Il processo è solo all’inizio, ma l’evoluzione dei mercati rende già evidente come gli elementi di incertezza stiano aumentando. L’andamento dei prezzi delle materie prime, ma anche le oscillazioni nei corsi dei titoli nelle borse, che erano il luogo simbolo del mondo della globalizzazione, ne sono un segnale inequivocabile. La complessità dei sistemi economico sociali e dei rapporti internazionali che era apparentemente scomparsa nel mondo unipolare sta riemergendo perché si sono rotti gli equilibri politici sul quale quel mondo era fondato.
E’ ragionevole pensare che la fiducia sistemica e quella personale tenderanno ad affievolirsi nei prossimi mesi e anni e che nuove regole e una nuova cultura economica finiranno con l’emergere. Il problema sta nel fatto che questa fase potrebbe durare un tempo non breve, ma in ogni caso difficile da prevedere, anche per il ruolo negativo che inizialmente può giocare la fiducia sistemica. Nel senso che il neoliberismo, che ha giocato un ruolo importante nel determinare la fiducia sistemica nei decenni passati, tenderà ad essere considerato da molti ancora il punto di riferimento anche in un mondo non più globale. E’ possibile che ci aspettino anni in cui, almeno fino a quando non si stabiliranno nuovi equilibri internazionali, non ci saranno nuove regole, l’incertezza e la complessità appariranno come gli elementi dominanti dei sistemi economico sociali.
In questa fase gli stessi equilibri interni ai paesi saranno sottoposti a pressioni significative. Anche se la speranza è che i sistemi democratici trovino in loro stessi le forze per dare una risposta adeguata a questi problemi e riescano ad evitare le possibili sofferenze sociali connesse a questa fase di transizione, è probabile che il venir meno della fiducia personale e di quella sistemica possa trasformarsi in un crescente sgomento di fronte alla incapacità di capire quanto sta accadendo. Uno sgomento reso più acuto dall’emergere di una disuguaglianza sempre più intollerabile cui fa da contraltare una consapevolezza sempre più diffusa dell’inconsistenza delle narrazioni proposte dai gruppi dirigenti nazionali e internazionali.
Uno stato d’animo che probabilmente rafforzerà la tendenza già evidente alla diffusione di una cultura “fai da te” il cui tratto essenziale non può che essere la semplificazione. Una cultura che risponde ad un bisogno di illudersi di comprendere e di governare una complessità di cui non si capisce il senso. Una cultura “fai da te” che contribuisce a mettere in discussione la fiducia sistemica ma è anche strutturalmente incapace di consolidarsi in una qualche visione intorno alla quale si può aggregare una qualche fiducia e che, come accade necessariamente quando si ricorre a semplificazioni, potrebbe essere fonte di nuove spaccature e contrapposizioni nella società.
A mio giudizio, la battaglia politica e culturale per evitare che gli equilibri interni ai paesi democratici non siano sottoposti a strappi intollerabili e le realtà sociali non divengano ancora più frammentate si è appena aperta.
1 R. Schiattarella, Fiducia e crisi finanziaria, in Parole Chiave, n. 42, 2009, pp. 35-52.
2 A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La Fiducia come risorsa, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 42.
3 A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La Fiducia …, op. cit. , p. 42.
4 T. Parsons, Comunità societaria e pluralismo, Franco Angeli, Milano, 1996.
5 Una parte della letteratura considera impossibile riuscire ad intervenire sulle condizioni di fiducia sistemica attraverso politiche consapevoli perché la fiducia nasce da una sedimentazione storica che è impossibile riprodurre. Cfr. F. Fukuyama, Fiducia, Rizzoli, Milano, 1996.