Era il 1940. Poco prima della sua morte, in fuga dai persecutori mentre l’Europa era travolta dalla barbarie nazista, Walter Benjamin scrisse in quello che sarà definito il suo testamento filosofico: «Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile». Si tratta di una lezione ancora da considerare, soprattutto in antitesi a quell’ottica universalmente condivisa che guarda alle catastrofi della modernità esclusivamente come a deviazioni rispetto alla regola, incidenti di percorso, eccezioni nel corso della storia e del progresso – quel continuum di miglioramento costante, di evoluzione irreversibile, di accumulazione crescente, di modernizzazione benefica, il cui motore è costituito dal progresso scientifico, tecnico ed industriale.
Dal 24 febbraio 2022, il giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, si assiste a discorsi e azioni che mai si sarebbe pensato di ascoltare e vedere dopo il crollo del Muro di Berlino. La sensazione è che, nonostante le tante conquiste e l’avanzamento tecnico-scientifico e culturale, lo sviluppo umano, intellettuale e di conseguenza politico, sia ancora lento decisamente a realizzarsi.
L’incredulità, contestata da Benjamin, che si registra oggi di fronte a fenomeni dirompenti affonda le sua radici in una comune idea di storia che produce una peculiare forma di cecità a occhi aperti, spingendo ad esempio a inquadrare la guerra in Ucraina nella forma di un ritorno a logiche di politica di potenza ottocentesche, a ri-scoprire – dalla sera alla mattina – il mondo diviso in due, forse addirittura tre blocchi. La fiducia nella compiutezza dei modelli politici occidentali ha reso sordi e impreparati alle “trasformazioni silenziose”, che s’impongono adesso nel modo più vistoso e brutale, con un effetto di realtà che colpisce dritti in faccia. La visione moderna del mondo basata sulla “fede nel progresso”, che altro non è che un trasferimento della fede religiosa nella salvezza alle forze produttive terrene, secolari, della tecnologia e della scienza, continua a orientare la prassi, sopravvivendo – al netto di tutte le epocali smentite – con una sorta di esistenza postuma, come uno zombie che non sa di essere morto.
L’attuale congiuntura geopolitica sembra mandare in soffitta 30 anni di disquisizioni su globalizzazione, società interconnessa, “villaggio globale”, addirittura “fine della storia”. «Finiscono nelle strade ucraine di Kiev i trent’anni a cui non abbiamo dato nemmeno un nome, perché li abbiamo vissuti nella convinzione che non fossero un’epoca a sé stante ma coincidessero con il destino del secolo finalmente risolto, in un’Europa convertita definitivamente alla pace dopo la sconfitta dei due totalitarismi e la fine della guerra fredda. Oggi possiamo battezzarli come i tre decenni dell’illusione», ha commentato Ezio Mauro (Se si rompe la storia, la Repubblica, 13/3/2022).
Con la formula, di matrice hegelo-kojeveana, di “fine della storia” il politologo americano Francis Fukuyama, all’indomani della caduta del 1989, teorizzava la vittoria finale del liberalismo democratico, un unico mondo aperto, capitalista e pacificato come superamento della contrapposizione ideologica Oriente-Occidente che aveva segnato gli anni della Guerra Fredda. Con la fine dell’ultimo impero novecentesco (l’URSS), sembrava che la storia fosse finita: da allora in poi, non ci sarebbe stato più alcun conflitto sistemico, ma il raggiungimento di una situazione di globale accettazione dei valori occidentali fondati sui diritti umani.
Il modo in cui Fukuyama ha sviluppato l’idea della fine della storia per considerare la caduta del Muro di Berlino e la sconfitta del socialismo reale e dell’Unione sovietica tra l’89 e il ‘92 rappresenta un esempio paradigmatico dell’approccio unilineare rispetto alla temporalità della storia, per il quale il presente rappresenterebbe «il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica della specie umana e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma ultima di governo». Secondo Fukuyama, la storia sarebbe giunta al termine con la fine della concorrenza alla democrazia liberale e la sua vittoria storica nei confronti dei competitors (monarchia ereditaria, fascismo, comunismo), concretizzatasi nella sua giunzione con il libero mercato. Il concetto di “Stato universale omogeneo” fotografa la situazione degli stati occidentali alla fine degli anni ‘80: una democrazia liberale nella sfera politica, che in ambito economico si accompagna all’abbondanza del libero mercato.
“Fine della storia”, in quest’ottica, va intesa nel suo duplice significato: è fine nel senso di termine, ma anche nel senso di scopo, di telos. L’interpretazione di Fukuyama è sintomatica di un certo modo di intendere la storia e il processo storico: un modello unilineare, giustificazionista nei confronti dello sviluppo capitalista e della democrazia liberale che s’è accompagnata ad esso.
Va sottolineato che la “fine” che Fukuyama ipotizzava non era quella degli avvenimenti, tanto meno di quelli più grandi e più gravi, ma della storia intesa come processo evolutivo unico e coerente che tiene conto delle esperienze di tutti i popoli e tutti i tempi. Alla base della sua idea c’è la distinzione tra “storia-evento” e “storia-processo”. Il fatto che la dichiarazione della fine della storia sia stata seguita da una serie di eventi storici non inficerebbe l’enunciato di partenza, perché la storia dichiarata conclusa è la storia processuale, non la “storia-evento”. La storia come processo generale avrebbe raggiunto la sua massima evoluzione – in senso ideale e normativo – nella democrazia liberale occidentale, e questo traguardo non può essere sconfessato dalla comparsa di eventi particolari.
Eppure, la distinzione tra “storia-evento” e “storia-processo” su cui Fukuyama basa la risposta ai suoi critici è tradita da Fukuyama stesso: se nella prima formulazione della sua tesi, risalente all’estate dell’89, egli esponeva l’argomento in forma di domanda, e si concludeva in modo ambivalente rispetto alla possibilità di una rinascita della storia nella post-storia («Forse la prospettiva di secoli di noia alla fine della storia servirà alla storia per ricominciare un’altra volta»), nel testo del ‘92 il titolo perde il punto interrogativo, non c’è più nessuna domanda, e l’argomentazione assume un tono molto più perentorio. Evidentemente, la ragione di questa sicurezza acquisita viene esattamente dal susseguirsi di alcuni eventi che accompagnano la distanza tra i due momenti: il saggio dell’89 viene pubblicato quando la caduta del muro ancora non si è verificata, tanto meno la sconfitta definitiva dell’URSS. La sua fine effettiva ha conferito a Fukuyama una spregiudicatezza maggiore, e il fatto che lui stesso si convinca maggiormente delle sue tesi dopo l’89 rende palese la difficile sostenibilità della distinzione tra “storia-evento” e “storia-processo”.
Secondo Fukuyama, la risposta affermativa alla domanda kantiana circa la possibilità di scrivere una storia universale dal punto di vista cosmopolitico è concepibile grazie alle scienze moderne, che forniscono «un meccanismo il cui sviluppo progressista conferisce alla storia umana una direzionalità e insieme una coerenza lungo i diversi secoli passati, e al cuore di questo meccanismo si trova la connessione tra conoscenza, tecnologia e libero scambio garantita dalla cornice della democrazia liberale». Nella lettura di Fukuyama le scienze moderne contribuiscono in modo decisivo alla direzionalità della storia, perché permettono una sorta di accumulazione di sapere che orienta teleologicamente la storia. L’innovazione tecnologica e l’organizzazione razionale del lavoro, che derivano dall’epistemologia moderna, consentirebbero di individuare una correlazione tra un certo grado di industrializzazione e un certo grado di democratizzazione. E questo costituisce un prisma di continuità nello sviluppo delle società industriali o post-industriali che ci porta fino all’apogeo: la capacità epistemologica delle scienze moderne di ordinare il mondo, secondo Fukuyama, produce una direzionalità storica che trova il suo massimo politico nella democrazia liberale di stampo occidentale. La fine della storia realizzerebbe cioè quell’ordine spontaneo di cui parlava von Hayek.
La tesi di Fukuyama è una tesi post-conflittualista, o a-conflittualista: se stiamo dentro la cornice hegeliana di Fukuyama, riprendiamo l’idea della dialettica nella figura del rapporto servo-signore e concepiamo la storia come una lotta per il riconoscimento che si sviluppa tanto sul piano delle relazioni internazionali quanto su quello dei movimenti interni alle diverse società; se la storia inizia come una lotta per il riconoscimento, il primo uomo sarebbe quello ipotizzato nello stato di natura hobbesiano, e l’ultimo uomo quello che, giunto alla fine della storia, non ha più bisogno di questa lotta, perché ottiene comunque il riconoscimento cercato grazie alle garanzie della democrazia liberale. Fukuyama delinea come caratteristica della società alla fine della storia l’assenza di contraddizioni fondamentali che non possano essere risolte all’interno del liberalismo e della democrazia liberale, prima tra tutte la contraddizione tra capitale e lavoro: la storia giunge al suo termine e al suo apogeo nel momento in cui nessun conflitto è in grado di provocare materialmente un rovesciamento dell’ordine esistente e la formazione di una nuova società. Permangono alcune contraddizioni minori, che possono esprimersi in momenti locali di conflitto – l’integralismo religioso, il nazionalismo -, ma si tratterebbe di situazioni residuali e compossibili con la democrazia liberale. La storia finisce nel senso che giunge al suo termine e al suo massimo nel momento in cui abbiamo un processo di temporalizzazione unilineare diretto verso il suo obiettivo finale, e in questa temporalizzazione ciò che si produce all’interno delle società è lo svuotamento man mano di contraddizioni che potrebbero potenzialmente sfociare in conflitti.
Nel commentare la tesi di Fukuyama, Derrida, in Spettri di Marx (1993), sviluppa una critica che coglie la portata complessiva della tesi sulla “fine della storia”. Ai suoi occhi, la fine della storia si connota come un «vangelo portatore di una formula neo-testamentaria perché pretende di addurre una risposta positiva a una domanda le cui formazioni e formulazioni non sono mai interrogate per se stesse». La domanda è quella relativa all’orientamento della storia dell’umanità. La risposta positiva, nell’ottica di Derrida, è possibile soltanto a patto di non complicare e decostruire le nozioni implicate: vale a dire le nozioni di storia e di umanità. È possibile parlare di fine della storia solo senza porsi il problema di cosa siano effettivamente la storia e l’umanità della cui storia si dichiara la fine. La fine della storia, che Fukuyama sovrappone alla presunta fine del marxismo dopo il ’91-’92, sullo sfondo della sconfitta dell’URSS e dell’imposizione globale del mercato unico capitalistico, rappresenta in realtà una sorta di figura evangelica, la manifestazione di un’escatologia cristiana.
«Il vangelo del liberalismo politico-economico ha bisogno dell’evento della buona novella, consistente in ciò che sarebbe effettivamente accaduto. Quel che è accaduto in questa fine di secolo – specificatamente: la pretesa morte del marxismo e la pretesa realizzazione dello Stato e della democrazia liberale – non può fare a meno del ricorso all’evento. Ma siccome per altro verso la storia effettiva e tante altre realtà di apparenza empirica contraddicono questo avvento della democrazia liberale perfetta, è necessario allo stesso tempo porre questa perfezione come un semplice ideale regolatore e trans-storico. A seconda che questo lo avvantaggi o serva la sua tesi, Fukuyama definisce la democrazia liberale tanto come una realtà effettiva quanto come un semplice ideale. L’evento è tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione». Quello che manca a Fukuyama, secondo Derrida, è un pensiero dell’evento che sia all’altezza di una temporalità che non riduca l’evento “all’incatenamento successivo di presenti identici a se stessi e contemporanei di se stessi”: Fukuyama non mostra di possedere la capacità di pensare l’evento e il processo su una scala temporale che non preveda l’unidirezionalità propria dell’idea di “fine”, di un traguardo raggiunto dopo un percorso singolare. Fukuyama può pensare gli eventi esclusivamente in modo successivo, come presenti identici a se stessi che si succedono.
Per questo Derrida, nel criticare Fukuyama a partire da questa contraddizione logica che riscontra nella sua argomentazione, sviluppa una temporalità alternativa che sia in grado di pensare l’evento in modo diverso, legato al processo. L’emblema della diversità tra questi due modi di pensare la storia, quella teleologica, unidirezionale, orientata dall’idea di fine e quella plurale di Derrida, sta nella figura dello spettro. La particolarità dello spettro risiede nel fatto che esso c’è e non c’è contemporaneamente, né pura carne né puro spirito. È una “incorporazione paradossale”, “il divenir corpo, una certa forma fenomenica e carnale dello spirito”. In questo divenire si situa la desincronizzazione temporale del “revenant”, colui che ritorna e al tempo stesso origina, e come lo spettro del “Manifesto” di Marx ed Engels invoca un avvenire. Con questa figura, Derrida introduce uno “scompenso temporale”, che si determina proprio a partire dalla figura dello spettro, che in quanto elemento che c’è e non c’è contemporaneamente sfalda il presente rendendolo non-contemporaneo a se stesso: per tale ragione è impossibile che si verifichi una “fine della storia”.
Quel momento che Fukuyama pensa come il momento in cui è arrivato l’apogeo dello sviluppo in realtà non è un momento temporale preciso, definito, ma un momento che è non-contemporaneo a se stesso. «Ripetizione e prima volta. Ecco forse la questione dell’evento come questione del fantasma. Che cos’è un fantasma? Che cos’è l’effettività o la presenza di uno spettro, cioè di ciò che sembra altrettanto ineffettuale, virtuale e inconsistente di un simulacro? C’è qui, tra la cosa stessa e il suo simulacro, un’opposizione che tenga? Ripetizione e prima volta, ma anche ripetizione e ultima volta, giacché la singolarità di ogni prima volta ne fa anche un’ultima volta. Ogni volta questo è l’evento, una prima volta e un’ultima volta».
Alla prospettiva dell’idea di fine della storia, Derrida sostituisce l’idea di una storicità che è intrisa di una temporalità molteplice, caratterizzata dalla rivendicazione della giustizia a-venire, intesa come una responsabilità che va al di là del presente, e dunque oltre la possibilità di una qualsiasi fine. Senza questa non-contemporaneità a sé del presente vivente, senza quel che segretamente lo “dis-aggiusta”, senza questa responsabilità e questo rispetto per la giustizia nei confronti di quelli che non ci sono, di quelli che non sono più o non sono ancora presenti e viventi, quale senso ci sarebbe nel porre la domanda sul senso della storia?
Avanzare la tesi che l’unicità della guerra in atto discenda anzitutto dal suo carattere di anomalia paradigmatica – di imprevisto canone di un tipo di barbarie che la modernità non aveva contemplato, ma che porta profondamente inciso nel suo nucleo più intimo e che, proprio per questo, seguita a cagionare inquietudine – significa, in fondo, apporre una serie di glosse a margine della preziosa indicazione che Walter Benjamin ha annotato nel suo testamento. La guerra in Ucraina si carica di una nefasta valenza esemplare non soltanto per la difficoltà di iscriversi in un orizzonte concettuale che, sino a quel momento, sembrava garantire quel minimo grado di fiducia nel mondo che permette all’esistenza di conservarsi. Ma, soprattutto, per il suo potere di infrangere quella costellazione, per il danno intellettuale arrecato a una cornice che, d’improvviso, palesa tutta la sua fragilità. È questo dirompente effetto ermeneutico, sommato alla scabrosa materialità del disastro, che conferisce a ciò che sta avvenendo la sua eccezionale portata. Una volta ancora, a distanza di quasi due secoli dal mattino di Ognissanti del 1755 – il momento in cui si scatena la catastrofe del terremoto di Lisbona che avrebbe acceso la riflessione di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant – un’ermeneutica del male di onorato lignaggio ha preso a girare a vuoto, s’inceppa e ammutolisce.
È in ragione del peculiare fideismo del progresso, quell’atteggiamento di cieca fiducia che ha le sue basi nella fede aprioristica e acritica nelle “magnifiche sorti e progressive”, che non abbiamo saputo prestare sufficiente attenzione a quel discreto delle influenze che si opera per gradi. Tra le macerie delle città distrutte, si possono già rinvenire, poche settimane dopo lo scoppio della guerra, i resti della prima colonna portante, di quel sostegno che il vangelo del progresso ha per lungo tempo offerto alla cultura occidentale.