“E come fosse un genitore buono,
la mia fiducia generò il contrario,
generò in lui una grande falsità
come era grande quella mia fiducia,
che era senza limiti, una fiducia
davvero sconfinata”
[William Shakespeare, La tempesta]
“Le radici devono aver fiducia nei fiori” scrive Maria Zambrano, ma,
dobbiamo aggiungere, anche i fiori devono aver fiducia nelle radici.
Nelle relazioni d’amore, la fiducia
Le manifestazioni di affidamento, le più evidenti e coinvolgenti, e perciò stesso le più impegnative e rischiose, forse sono quelle relative alle relazioni d’amore. Una bambina o un bambino, con la loro esposizione alla dipendenza neotenica e la loro fragilità, suscitano emozioni profonde, e anche un certo tremore, nel manifestare la loro disposizione ad affidarsi agli altri, con la loro tacita o esplicita domanda di amore e di cura. E l’esposizione non sempre è innocua per quei bambini e quelle bambine; non sempre la loro fiducia è ben riposta e spesso le loro aspettative non sono corrisposte o soddisfatte. Così come è necessario riconoscere che molto presto si insinuano ed emergono, nei comportamenti dei bambini, la diffidenza, il timore, e persino l’uso strumentale e interessato della fiducia e dell’affidamento. Come le evidenze mostrano e come conviene ammettere, se non si vuole incappare nei luoghi comuni e portare a casa l’ironia graffiante di Gustave Flaubert: “Bambini. Fingere una tenerezza lirica nei loro riguardi, quando c’è gente” [Dizionario dei luoghi comuni, Adelphi, Milano 1980; p. 25]. Amare una persona, da adolescenti o da adulti, comporta un continuo gioco di approssimazione composto sottilmente di esposizione, affidamento, aspettative, attenzioni, ritiri, riprese, e altre variazioni che avvengono letteralmente “a corpo nudo”, ovvero in condizioni di massima esposizione. Se esistere è approssimarsi, per degli animali relazionali quali noi siamo, l’approssimazione è un terreno di sperimentazione e verifica della fiducia e, quindi, un paesaggio mobile cosparso di passioni, gioie, esaltazioni, tormenti, frane, disintegrazioni, come la migliore letteratura e qualche studio evidenziano. Si pensi a un racconto di altissimo tenore letterario e poetico come Fratelli di Carmelo Samonà [Sellerio, Palermo 1978], o a un contributo psico-sociologico come Approssimazione: esercizi di esperienza dell’altro, di Franco Cassano [Il Mulino, Bologna 1989]. Si potrebbe tentare una fenomenologia del tocco e del toccarsi, per cercare di specificare ulteriormente le implicazioni della fiducia e dell’amore, laddove il tocco come manifestazione dell’essere in movimento che noi siamo assume inevitabili risvolti estetici e etici. Se il corpo è un dispositivo di riconoscimento, è principalmente il tatto a servire per entrare in relazione, più di tutto nelle relazioni d’amore. Per entrare comunque in relazione con gli altri e il mondo è il tatto che regola il conoscere e il conoscersi e dal tatto il vivere ha inizio. Una fenomenologia del tatto trova il suo elemento privilegiato nella fiducia: sono i mezzi privilegiati del toccarsi e del toccare, la pelle, la mano, il gesto, a regolare l’intensità della fiducia tra coloro che si toccano. Progredisce il toccarsi e il toccare mentre l’amore cresce; diminuisce fino a scomparire mentre l’amore cala e scompare, lasciando il posto, come scrive e canta Fabrizio De Andrè, a “qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza”. La fiducia regola la disposizione a consegnarsi nelle mani di un’altra o di un altro; così come si ritira col ritirarsi del desiderio. Può ritirarsi in maniera simmetrica e di essa rimangono le tracce sempre più tiepide di una sottile malinconia. Può però ritirarsi in maniera asimmetrica, producendo, in chi ancora anela a quel tocco e ama e desidera l’altra/o, pianto e stridore di denti.
Richiesta impossibile, la fiducia
Non so perché, ma accade così spesso. Che si chieda una cosa che si può solo meritarsi, non richiederla. Si può solo agire in modo da creare le condizioni perché certe cose accadano. Non sapendo se accadranno, né tantomeno se, accadendo dureranno nel tempo. Potranno essere confermate o smentite dalla relazione orientata al tentativo di meritarsele, o fatte fallire da quella stessa relazione. Certo, dipende da quanta base sicura quella relazione ha costruito. Dalla forza di quella base sicura dipende quanto incidono i fallimenti che, come gli errori, possono essere occasione di apprendimento e sviluppo o motivo di regressione.
La fiducia è annoverabile tra quelle cose che non si possono chiedere; si possono solo creare le condizioni per meritarsele e, nel caso, ottenerle.
La fiducia è una forza fragile.
Allora perché si chiede continuamente fiducia?
Perché una volta ottenuta si tende a darla per scontata?
O ancora, perché la fiducia ha una forza magnetica tale da attrarre verso disponibilità incondizionate e, a volte, come un buco nero, assorbire e annullare chi si lascia attrarre, lasciandolo disgregato di fronte al tradimento?
Una relazione è una rete di reciprocità, tra due, tra pochi o tra molti. Una rete può sostenere o irretire.
La fiducia si propone come una delle condizioni di ogni reciprocità che, in quanto tale, non è né positiva né negativa. Quella rete si tesse in un contesto relazionale che ha le caratteristiche del byt di Jurij M. Lotman, così come quelle di un regime emozionale di Richard Firth-Godbehere. Secondo Lotman [Il girotondo delle Muse, Bompiani, Milano 2022], un byt corrisponde a una semiosfera. Mutuando da Vladimir I. Vernadskij il concetto di noosfera, intesa come inedito fenomeno geologico del nostro pianeta, dove l’uomo è divenuto per la prima volta la più importante forza geologica, [Dalla biosfera alla noosfera, Mimesis, Milano 2022], Lotman indica con byt e semiosfera lo spazio nel quale i diversi sistemi di segni in una cultura possono sussistere e generare nuove informazioni.
I regimi emozionali, secondo la definizione che ne ha dato William Reddy [The Navigation of Feelings, Cambridge University Press, Cambridge 2001], ripresa da Firth-Godbehere, denotano i comportamenti emotivi che ci si aspetta dagli altri, quelli che ci assumiamo o ci vengono proposti e imposti più o meno tacitamente nella società in cui viviamo. I regimi emozionali ci consentono di riconoscere e spiegare le modalità in cui sono espresse le emozioni in un qualunque insieme di circostanze. I regimi emozionali costituiscono una specie di seconda natura e regolano le aspettative reciproche, dai comportamenti della vita quotidiana alle scelte più rilevanti della vita. Ad un concerto di musica pianistica, ad esempio, ci si aspetta il massimo silenzio e la partecipazione al rituale dell’ascolto, l’espressione della soddisfazione in un certo modo e il rispetto reciproco delle regole e dello stile nel tipo di presenza richiesta. I regimi emozionali mediano le aspettative e concorrono a definire il rapporto tra aspettative, diffidenza, confidenza, affidamento, affidabilità e disposizione a fidarsi dell’altro o ad attendersi che l’altro si fidi. In quelle arene emozionali prende forma la fiducia nelle relazioni, e si connette strettamente all’esperienza e alla responsabilità con cui la fiducia viene agita.
Prove di altruismo/egoismo utilitaristico, e la fiducia
Fra geni e comportamento, in noi animali umani, esiste un rapporto tutt’altro che lineare. Circolano diffuse e erronee informazioni, secondo le quali i genomi conterrebbero geni per specifici comportamenti o parti del corpo. Di fatto non esiste un gene per il linguaggio, o per la capacità di parlare, o ancora per la postura eretta. Queste caratteristiche umane sono emerse dal rimodellamento del nostro sistema cervello-mente, dei nostri sistemi nervosi, della muscolatura, delle ossa e dello scheletro nel corso dell’evoluzione. I nostri antenati avevano tutti i geni che abbiamo noi per realizzare queste strutture, ma li usavano in modi diversi. Homo sapiens diventa capace di comportamenti peculiari solo se immerso in un ambiente umano. Facciamo l’esempio del gene Foxp2, che è presente in tutte le scimmie antropomorfe, così come nei topi e negli uccelli, ma questo non basta a rendere questi animali capaci di parlare e comprendere una lingua. La capacità di parlare ha certamente un fondamento biologico, ma è altrettanto evidente che perché venga messa in atto deve intervenire un’enorme componente culturale. La biologia umana, perciò, come quella degli altri esseri viventi, non è del tutto individuale, non si limita alla chimica della vita. Per capire chi siamo abbiamo bisogno di includere anche ciò che si riteneva non avesse a che fare con la natura, cioè la società e la storia. Non ha senso contrapporre il carattere storico dell’animale umano al suo corredo genetico, bensì è importante cercare di costruire una biologia che includa in sé anche la storia, o una storia che sia capace di misurarsi con la biologia. Non possiamo capire noi stessi se non si fa entrare in campo il tema dello sviluppo e quindi del tempo e dell’ambiente. [Si veda su questi aspetti, tra gli altri: S. Carroll, Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo, Codice edizioni, Torino 2006].
È probabile che, nonostante le prove evidenti delle forme altruistiche e fiduciarie, allora, non sia proprio parlare di noi umani come “altruisti nati”, anche a fronte delle basi scientifiche che mostrano la nostra propensione a fidarci degli altri, a cooperare e ad aiutare il prossimo, in base a molte ricerche importanti come quella di Michael Tomasello [Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino 2010].
“Qualsiasi teoria cerchi di spiegare l’esistenza delle menti e della coscienza ignorando il sistema nervoso è destinata al fallimento”, scrive Antonio Damasio [Sentire e conoscere, Adelphi, Milano 2022; p. 32], “giacché il contributo di quest’ultimo è essenziale per la loro realizzazione, sia per il ragionamento creativo che esse consentono. D’altra parte, qualsiasi teoria si appoggi esclusivamente sul sistema nervoso per spiegare le menti e la coscienza è destinata a fallire anch’essa”.
Abbiamo bisogno contemporaneamente e contingentemente di Being, di Feeling e di Knowing, cioè di sensibilità, di mente e di sentimenti e coscienza.
Come evidenzia Vittorio Pelligra, le società che, più di altre, sono state in grado di costruire e sviluppare norme e legami fiduciari, dalla condivisione di cibo tra i cacciatori-raccoglitori fino alle transazioni informatiche delle moderne economie digitali, sono riuscite a innescare processi di sviluppo non solo economico, ma anche politico e sociale. Senza fiducia tenderebbe ad affermarsi una condizione molto simile allo stato di natura hobbesiano, dove non esistono “arti, né lettere, né società”, dove domina “la continua paura ed il pericolo di una morte violenta”. Fidarsi significa innanzitutto instaurare una relazione interpersonale cooperativa. Ma a tale possibilità fa da naturale contraltare il rischio legato al tradimento della fiducia. Fidarsi vuol dire rischiare, ma implica anche cercare di agire per indurre gli altri ad essere più affidabili. Il paradosso sta nel fatto che fidarsi significa ridurre il rischio di inganni e tradimenti. [V. Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, Il Mulino, Bologna 2007]
Non residuale, la fiducia
La sconfitta dell’utilitarismo individualista rispetto alla sua stessa capacità di creare un ordine sociale ed economico basato sulla giustizia, sulla libertà e sul valore del limite, appare evidente all’inizio del terzo millennio, non per questo lo si mette in discussione. Questa sconfitta potrebbe consentire, a saperla vedere, di riconoscere la cesura e la negazione sulla quale si fonda l’economia della modernità e, per molti aspetti, l’intero progetto moderno. L’economia della modernità ha concepito ed espresso se stessa ponendo al centro l’utilità come frutto di scelte razionali e calcoli ottimizzanti. Ciò ha significato negare, mortificare, escludere quella dimensione costitutiva di ogni scambio e di ogni relazione, riguardante la fiducia, la solidarietà e la gratuità, trattandole nel migliore nei casi come residuali. Ma sono residuali o, invece, essendo costitutive e ineliminabili, sono state trattate come tali in ragione della specializzazione verticale del progetto moderno? E che cosa ha perduto il progetto moderno con questa opzione che è divenuta forma a dominanza nel modello di sviluppo occidentale proposto e imposto all’intero pianeta? [A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2001]. Mentre appare necessario un attento lavoro di analisi per documentare le ragioni che hanno portato alla prevalenza e alla prevaricazione dell’utilitarismo individualista come forma unica, e a trattare come residuale la fiducia, la gratuità e la solidarietà, se non si accetta l’imposizione del moto retrogrado del vero, è possibile pensare che, ciò che è andato in un certo modo, poteva andare diversamente. È così che le forme di vita organizzate e la loro gestione interna si trovano ad affrontare due limiti decisivi:
– il limite di concepirsi solo come mercato nella sua forma utilitaristica, anche nella gestione delle relazioni interne alle organizzazioni;
– il limite dell’altro e delle relazioni, unica vera possibilità, che, escluso dal modello di sviluppo occidentale, preme alle sue porte, così come l’altro vicino ed escluso premeva e preme dall’interno, chiedendo la ricerca di una forma di vita che sappia accogliere il limite come valore.
L’incompletezza dei sistemi e dello scambio basato sulla domanda e sull’offerta lasciano continuamente emergere il valore delle relazioni fiduciarie e delle forme di solidarietà. Una possibile via d’uscita dalla crisi strutturale e storica dei modelli di sviluppo occidentali può derivare dall’emancipazione dalla specializzazione che ha visto prevalere istituzioni e processi che non hanno considerato il valore del limite e il ruolo della fiducia, della solidarietà e della cooperazione se non come istanze residuali; che non hanno considerato cioè il valore della fiducia e della gratuità come condizioni per la stessa efficacia dello scambio [A. Hirschman, Lealtà. Defezione. Protesta, Bompiani, Milano 1970].
Accordi impliciti, pratiche sociali, e la fiducia
Le pratiche sociali si reggono per la maggior parte su accordi impliciti. Solo una parte di questi ultimi viene ricondotta ad esplicite giustificazioni razionali. Ciò che ognuno si aspetta dagli altri e dalla comunità in cui vive ha a che fare col sentimento di fiducia, di appartenenza e di reciproco riconoscimento presente ad un momento dato in quella comunità. Sono infatti le aspettative ad alimentare, tra l’altro, le motivazioni ad investire in cooperazione e impegno. Si possono considerare in proposito gli approfondimenti sul rapporto tra l’agire collettivo e la razionalità nella produzione della società [C. Bicchieri, Azione collettiva e razionalità sociale, Feltrinelli, Milano 1993]. Alla base delle aspettative e degli orientamenti ad affidare parte di un percorso di vita e di un progetto personale ad una comunità, agisce uno dei più fragili e potenti processi di influenza sociale: la fiducia. Le sue ragioni storiche, affettive e cognitive, come fattore distintivo degli accordi sociali soprattutto impliciti, ma anche espliciti, ne fanno uno dei più impegnativi e complessi fenomeni sociali. Le stesse giustificazioni razionali per assurgere a regole condivise e localmente valide hanno bisogno del sostegno della fiducia, anche per cercare di evitare gli effetti indesiderati del rumore (A. Axelrod, Giochi di reciprocità. L’insorgenza della cooperazione, Feltrinelli, Milano 1984; D. Kahneman, O. Sibony, C. R. Sunstein, Rumore, Utet, Torino 2021). Da tempo è ormai nota la complessità delle implicazioni economiche dell’incompletezza e dell’asimmetria informativa fra gli attori nelle relazioni sociali e nelle transazioni economiche. Incompletezza e asimmetria segnalano i limiti dell’equilibrio come principio regolatore e aprono spazio al riconoscimento dell’apprendimento per far fronte non solo all’incertezza di ogni relazione e di ogni scambio, ma anche come risposta ai limiti di linearità e razionalità. In verità non è che l’apprendimento sia una risposta a qualcosa: è costitutivo delle forme che le relazioni collaborative assumono, stante i caratteri peculiari e costitutivi della incompletezza, dell’asimmetria e dei limiti della razionalità. Il gioco collaborativo, a livello socio-economico e istituzionale, non sembra, a queste condizioni, riconducibile al solo calcolo, né tanto meno tendente spontaneamente all’equilibrio. [M. Diani, Capitale sociale, partecipazione associativa e fiducia istituzionale, in Rivista Italiana di Scienza Politica, 3, 2000].
La sua pratica non è comprensibile né agibile se non si fa riferimento a risorse che si generano nelle relazioni e che gli attori esprimono, per nulla marginali o secondarie, come le aspettative che alimentano i giochi di reciprocità e la fiducia che ne rende attendibile lo svolgimento. [A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1982].
Aspettative, coordinamento, reciprocità…e fiducia
L’utilitarismo individualista come regolatore unico delle relazioni lavorative si è esteso nelle forme di vita e ha pervaso perniciosamente il legame sociale, mostrando i suoi limiti intrinseci:
– l’incompletezza e l’asimmetria delle informazioni che, come è noto, non sono affatto disponibili in modo omogeneo né tanto meno sono esaustive generando incertezze costitutive nelle situazioni di scelta;
– i limiti della razionalità alla base delle scelte individuali e collettive e il ruolo delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti;
– l’incompletezza dei sistemi costruiti dalle dinamiche sociali e, in primo luogo, il problema del rapporto fra appartenenza e cambiamento;
– i fallimenti del mercato derivanti dall’applicazione della logica del puro prezzo come fattore di regolazione;
– i limiti dell’organizzazione e dell’istituzione, riconducibili all’ambiguità costitutiva dei giochi di reciprocità e alla fragilità dei processi fiduciari propri del loro svolgimento.
Per queste ed altre ragioni la collaborazione basata sulla valorizzazione delle relazioni non può ridursi o essere ridotta ad una forma residuale, particolare, “diversa” e specialistica. Essa è alla base di ogni situazione, emergenza, istituzione, originate dal legame sociale. Non rappresenta un meccanismo di compensazione, ma è un processo costitutivo che non ha nulla di speciale: può essere valorizzata fino a divenire capace di rispondere ad aspettative evolute sostenendo giochi di reciprocità avanzati, avvalendosi della fiducia e alimentandola.
È il collegamento che si stabilisce fra le forme fiduciarie e collaborative diffuse nello scambio sociale e la vita nelle organizzazioni e nelle istituzioni, che può rendere queste ultime capaci di rappresentare le prime.
Interesse, partecipazione, libertà… e la fiducia
E’ tutta da comprendere la ragione per cui il paradigma dominante dell’economia abbia posto al centro le categorie di “homo oeconomicus” e di “razionalità olimpica e lineare”; ma in particolare la ragione della schiacciante prevalenza attribuita all’ interesse in quanto motore dell’agire umano. Emerge così il riduzionismo dell’economia standard che si fonda sull’ignoranza dei caratteri distintivi di quello stesso individuo che pone alla base della propria analisi. Se le persone sono viste soltanto come passive localizzazioni dette proprio utilità, esse non emergono per la loro ricchezza ma sembrano dei serbatoi di interessi e delle macchine da calcolo. È la nozione di capability e di ricerca delle condizioni per lo sviluppo delle capacità relazionali e intersoggettive, e in particolare delle opportunità di libertà, a divenire rilevante per la creazione, l’emergere e l’affermarsi di condizioni di fiducia. Lo sviluppo umano non dipende tanto dalla nozione di uguaglianza di risorse, quanto dalla disponibilità o meno di concrete opportunità. È l’eguaglianza di opportunità, e soprattutto l’eguaglianza di libertà positive disponibili, che dà luogo ad un insieme di realizzazioni che gli individui hanno l’effettivo potere di mettere in atto. Lo stesso sviluppo economico è perciò un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani. Fra interesse, partecipazione e libertà vi è perciò un’interdipendenza che non pone quei fattori affatto in alternativa. Anzi, dalla loro interazione si creano condizioni fiduciarie. Le vie della collaborazione hanno a che fare con l’incremento di partecipazione e libertà, con l’aumento delle capacità individuali di valorizzazione delle opportunità disponibili e, quindi, con la cura degli interessi. Gli stessi trasferimenti e calcoli sono anch’essi relativi alla presenza e alla diffusione della fiducia.
Un antidoto alla solitudine, la fiducia
La fragilità della fiducia coincide per molti aspetti con la sua forza. Se si considera qualsiasi processo di cooperazione, non si può riconoscerne l’origine e le dinamiche senza comprendere il conflitto che di ogni cooperazione è sodale. Così come quella cooperazione è inimmaginabile senza considerare la sua effettiva impossibilità, e senza i giochi linguistici e le dimensioni affettive ed emotive che convivono con le componenti razionali. D’altra parte, considerando i molteplici aspetti della fiducia, risulta importante riconoscere come essi agiscano in maniera particolarmente efficace non solo nei processi cooperativi che hanno come scopo la cura e l’emancipazione, ma anche nei gruppi e nelle organizzazioni che hanno scopi devianti rispetto alle norme sociali riconosciute, fino alle organizzazioni criminali, laddove la fiducia tende ad assumere le connotazioni di una fede e di un controllo settari, svolgendo una funzione di particolare coesione, fino a trasformarsi in omertà. Oltre a queste, sono altre le questioni critiche che meritano attenzione per uno studio approfondito della fiducia e delle sue dinamiche, come il suo uso strumentale e interessato, la sua funzione nei processi collusivi, e il rapporto di particolare rilevanza tra la fiducia e la responsabilità. Tra modulazioni intenzionali e simulazioni, tra diffidenze e dinamiche del “come se”, noi umani ci avviciniamo e allontaniamo, nel gioco della vita, e in questo teatro facciamo i conti con la fiducia.
A pensarci bene esiste una relazione abbastanza stretta fra finzione e fiducia. Se per finzione non si intende la falsità, il dire il falso, ma lo spazio del “fare come se”, noi viviamo in quello spazio alla ricerca degli altri e di noi stessi. La fiducia alimenta l’approssimazione e se ne alimenta a sua volta, ci avvicina e ci allontana e, forse, proprio in quanto associata alla finzione, è una via che può liberarci, o almeno aiutarci a sopportarlo, dal peso della solitudine.