Viviamo tempi urgenti, drammatici, complicati, che impongono un’esegesi parziale, vacillante, provvisoria, non più in grado di essere supportata da un’ermeneutica basata su di un sistema fondativo.
Viviamo tempi che autori del secondo dopoguerra americano, come Thomas Pynchon e Isaac Asimov, sospesi fra fantascienza, distopia e realtà, hanno avvicinato al concetto fisico di entropia.
Se dovessimo raffigurare attraverso un simbolo “araldico” la contemporaneità in cui- heideggerianamente- siamo gettati, l’immagine del cigno nero ( “rara avis in terris, nigroque simillima cygno” scrive Giovenale ), che l’epistemologo Nassim Nicholas Taleb, nel suo celebre saggio così intitolato, assurge a metafora dell’ improbabile ed imprevisto che – senza regole – dirige i nostri destini, sarebbe la più’ calzante.
Ma, nonostante questo contesto così articolato, lo “zeitgeist” ( espressione romantico-idealistica recuperata in tempi recenti anche da certa storiografia post marxista) che impronta il nostro quotidiano è rintracciabile nella banalità , nella superficialità e nello stereotipato appiattimento critico attraverso cui ci approcciamo alla complessità del presente.
Pier Paolo Pasolini, alla cui profetica acutezza dovremmo fare ricorso più spesso per interpretare le incrinature di un’attualità sempre sull’orlo dello sgretolamento, scrive in “La Divina Mimesis” del 1975 :
“ la volgarità è il momento di pieno rigoglio del conformismo “, una volgarità che non a caso compare in un’opera che tenta di recuperare la lectio della Commedia dantesca, Commedia che proprio al “volgare”come lingua o meglio come artificio retorico, affidava il suo intento didascalico. “ Ed è strano, scrive Pasolini, come, nell’idea estetica che abbiamo di Dante come la si ha, mettiamo, di una città, di un paesaggio, nel ricordo un punto di vista non esclude l’altro: io non so dire se il mio Dante è quello che dall’alto di un cielo tomistico mutua ai suoi lettori uno sguardo immenso e comprensivo al mondo, o è quello che, per i vicoli dei comuni e per i calanchi dell’Appennino, osserva analiticamente Il mondo caso per casο”….
Ma al di là dello scarto semantico del lemma, scarto in realtà così pregno di significati, c’è da chiedersi cosa resti oggi di un così arduo sforzo di attualizzazione e degli intenti che lo guidavano.
Bernard Stiegler, filosofo francese recentemente scomparso, ha tentato, in tutt’altra prospettiva in tempi ed in un orizzonte di situazione molto differenti, una simile operazione ,ovver trasformare lo sguardo estetico in speculazione politica, definendo la nostra attuale weltanschauung come “miseria del simbolico”, un’espressione che aderisce compiutamente alla nostra attuale temperie.
La speculazione di Stiegler, indagata in Italia inizialmente dagli appartenenti al Gruppo Ippolita , è solo recentemente diventata oggetto di analisi da parte di intellettuali attenti più di altri alle oscillazioni e contraddizioni in cui versa l’attuale pensiero e che tentano di avvicinarsi ad una comprensione più profonda delle contraddizioni della contemporaneità : Ugo Morelli ed Edoardo Camurri sono da annoverare fra coloro che si stanno sforzando affinché la nostra cultura mainstream, supportata da un conformismo editoriale difficilmente scalfibile, accettino ed introiettino le problematiche portate alla luce da un pensatore così “necessario “. In particolare lo statuto ambiguo della tecnologia cui consegue un’atrofizzazione culturale ed emotiva in grado di banalizzare ogni aspetto creativo, trasformando l’estetica ( il metodo ci impone a questo punto di circoscrivere il campo d’indagine ad una chiave interpretativa unica ed univoca ) in consumo, collegandosi così ad un fil rouge speculativo che, partendo dal freudiano “disagio della civiltà”, attraverso plurime influenze filosofiche e referenti ,non solo di matrice dialettica, coadiuvati da strumenti socio-economici, ci conduce alle teorie di pensatori quali Walter Benjamin, Theodor W.Adorno, Herbert Marcuse e Marshall McLuhan, anticipatori di correnti che iniziano a guardare all’arte come forma di comunicazione inserita in un preciso contesto dove la tecnologia è sempre più presente e pressante.
Un approccio come quello elaborato da Renato Barilli nella sua “Fenomenologia degli stili”, ad esempio, ci offre un excursus di tendenze artistiche e di gusto emergenti, analizzate diacronicamente attraverso un criterio “generazionale”, innestando così’ un’ επιστημη interpretativa innovativa in un orizzonte di critica militante che dominava aprioristicamente la critica d’arte della fine del Novecento .
Eppure è proprio paradossalmente dalla forzatura di nuovi paradigmi concettuali che già insitamente portavano ad una forzatura dei codici esistenti, nell’intento di dare legittimazione ad una declinazione infinita di proposte creative, che si sono originate fratture che hanno poi portato ad una stereotipazione a volte ad una sclerotizzazione di moduli , giocati in infinite combinazioni, determinando uno scollamento fra ambiti e posizionamenti e un irreparabile allontanamento fra cultura e comunicazione. In ciò risiede una delle principali cause di quella che “pasolinianamente” potremmo definire volgarità, intesa appunto come sciatto conformismo.
La mercificazione della cultura, il progredire del capitalismo consumistico all’interno di un’ “economia autonomizzata e reificata, in cui un settore della società assoggetta a sé il tutto attraverso la spettacolarizzazione e la mediazione delle immagini che si vanno a sostituire alla realtá, profetizzata da Guy Debord nel suo “La societá dello spettacolo” del 1967, non anticipa forse la deriva massmediologica attraverso cui viene anestetizzato il sistema in nome di un confortevole conformismo ad uso anche politico? Al fruitore si sostituisce il consumatore, al tempo delle persone il tempo delle cose, l´aspetto qualitativo – come ci ricordano le riflessioni di Piero Dominici- viene scalzato da quello quantitativo.
Debord basava la sua disamina sul détournament dei testi giovanili di Hegel e Marx, cogliendone gli aspetti piú eversivi appunto nella critica al capitalismo moderno ispirato al “feticismo delle merci”.
Nell’incipit de “La societá dello spettacolo”scrive: “tutta la vita delle societá nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione, si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”: cosa c’è dunque di piú “volgare” di questo gigantesco Barnum di cui lo spettatore,silenziato da una soverchiante ridondanza di immagini, è ridotto alla stregua di un passivo consumatore e di una virtualitá in cui la dialettica non è più tra vero e falso, ma tra consumo e non-consumo?
Sará dodici anni più tardi Jean Francois Lyotard con il suo saggio “La condizione post moderna”, modellando le categorie sociologiche Weberiane a parlare di “industria culturale”, aprendo la strada a una riflessione critica sull’estetica della postmodernitá (si legga a tal proposito la quérelle -edita dall’ Istituto dell’ Enciclopedia Italiana- tra Valerio Verra e Paolo Portoghesi relativamente alle accezioni di modernità e post-modernità, in cui Verra, riprendendo il magistero di Benedetto Croce, sottolinea come la modernità abbia liberato la filosofia dal giogo della metafisica attraverso l’avvento dell’estetica e dell’economia, mentre Portoghesi dopo un breve riassunto della storia della parola postmodernism, ne evidenzia il valore combinatorio, giocoso, vitalistico e sperimentale, soprattutto in architettura e nelle arti applicate ).
Νel recente articolo “Per un conflitto culturale”, Pietro Savastio, si richiama a proposito del capitalismo culturale al testo di Fredric Jameson “Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo”, per spiegare come nell’età contemporanea la sfera culturale sia stata “colonizzata” da una nuova logica del capitalismo transnazionale, cominciata negli anni ’80 del Novecento, in cui gli interessi economici del capitalismo sono in grado di plasmare indirettamente la cultura di massa e le ideologie attraverso gli apparati tecnici e massmediali, ravvisando nella manipolazione mercecologica degli immaginari- sommo acme della volgarizzazione della “Inventio” artística- consonanze con la “violenza simbolica” teorizzata da Pierre Bourdieu per il quale “i fattori culturali simbolici si trasformano in meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali, normalizzando e neutralizzando ordini sociali, gerarchie, modi di vita che sono propri del capitalismo competitivo e consumistico”.
Ritengo tuttavia che le potenzialità e le insite derive implosive delle teorie estetiche tardonovecentesche, inclusa l’incontrollabile invasivita’ mediatica, siano state -nell’ambito del panorama culturale italiano- meglio intuite e comprese da due intellettuali tanto distanti per formazione, visioni, orizzonti, quanto vicini per finezza interpretativa al limite del profetico, entrambi scomparsi troppo prematuramente, in anni che ancora non ne avevano compreso la reale portata innovativa, marginalizzandone spesso il pensiero all’interno del dibattito critico: Omar Calabrese e Tommaso Labranca.
Il primo, semiólogo, ordinario di estetica e semiotica alle Università di Bologna ( quel pionieristico DAMS di cui fu voce fra le piú originali ed enciclopediche ) e Siena, nel 1977 pubblicò un testo cardine “ L’età neobarocca” in cui, mutuando dalla wolffliniana dicotomia fra le categorie metastoriche di classico e barocco, aveva ravvisato il rivitalizzarsi dei caratteri di questa temperie storica -vittima di un lungo pregiudizio ideologico- in forme del gusto e tendenze creative emergenti negli anni in cui il libro era stato scritto. Calabrese tuttavia ne individuava già all’interno ( cosa che farà in maniera molto più esaustiva nell’ Introduzione alla seconda edizione del 2011, ovvero solo un anno prima della sua improvvisa morte) i potenziali punti di rottura e di derive virtuosistiche ergo banalizzanti ed autoreferenziali.
I principi costitutivi di tale estetica erano stati già enumerati in coppie dicotomiche di concetti, declinabili “ sui consumi culturali degli anni Settanta e Ottanta”. Tali coppie dialettiche sono: ritmo vs. ripetizione, limite vs. eccesso, dettaglio vs.frammento, instabilità vs. metamorfosi, disordine vs. caos, nodo vs.labirinto, complessità vs. dissipazione, pressappoco vs. non-so-che, distorsione vs. perversione.
Erano evidentemente già presenti in nuce molti aspetti dell’attuale panorama epistemologico e critico : la complessità su tutti, la sinergia di humanities, scienza e tecnologie, l’ambivalenza dei media ( su tutti la televisione, ora affiancata e surclassata in molte generazioni dalla rete e dai social, ed ancora una volta il pensiero torna al Pasolini ermeneuta del suo presente nella raccolta degli “Scritti Corsari”), la valenza labirintica del reale con il suo carattere metamorfico e non ultima una tendenza all’acentramento e alla forzatura dei limiti caratteristiche di epoche segnate da crisi più o meno latenti.
Tommaso Labranca invece non è stato un frequentatore di ambienti accademici e alti, facendo della “perifericitá” ( per nascita, percorsi di studio, esperienze intellettuali ) un tratto saliente della sua opera e personalità , divenendo portavoce di quel precario meticciato culturale da cui è stato improntato l’ultimo decennio del secolo scorso.
Claudio Giunta nella biografia “ Le alternative non esistono” dedicata alla sua poliedrica e sfuggente figura , pubblicata nel 2020, ne ricostruisce con precisione filologica l’iter, si’ disordinato, eterodosso e liminare, ma altrettanto foriero di intuizioni, illuminazioni e premonizioni che, nonostante anni di importanti collaborazioni su plurimi fronti ( editoriali e televisive in primis ) ed un’attività di scrittore e saggista dalle alterne fortune, si è solitariamente avviato ad una progressiva e lucida caduta, culminata in una controversa morte a soli cinquantaquattro anni nel 2016.
“ Labranca non ha mai smesso di riflettere e di scrivere, in maniera spesso geniale, sulle cose che hanno riempito la nostra vita, il nostro immaginario nell’ultimo mezzo secolo: le canzoni, i film, l’arte contemporanea, la pubblicità, la televisione e insomma tutto quello sterminato, ubiquo prodotto che va sotto il nome di cultura pop “. “L’elevazione a categoria estetica onto-sociologica” -scrive Giovanni Fava- del trash sembra il culmine di quella deriva di “volgarizzazione” della pratica artistica e critica o meglio più’ compiutamente “culturale”, di cui avevamo incontrato i prodromi nelle weltanschauungen precedenti.
Labranca affronta il trash chiedendoci di abbandonare il pregiudizio estetico ma soprattutto ravvisandone la costante in un tentativo di “emulazione fallita”. Scrive ne “ Il giovane salmone del trash “ : “ Secondo il credo dei mediocri che governano la nostra estetica tutte le cose che ci circondano non possono che ricadere necessariamente in uno dei due settori contrapposti: o brutto o bello, o alto o basso o culturale o sottoculturale”.
Labranca sembra quindi -metaforicamente- evocare un “terzo paesaggio” culturale, che, archiviando pregiudizi e retaggi ideologici, assume iconologicamente lo statuto dell’attuale condizione dell’estetica.
Un recente saggio di Nadia Breda ( ricercatrice presso l’Universita’ di Firenze ) e Francesco Lai ( professore associato di Antropologia sociale all’Universita’ di Sassari ) intreccia in una tessitura complessa di sistemi simbolici, sociali, culturali ed economici, l’attuale appartenenza e percezione di un luogo e dei suoi cambiamenti, soffermandosi su quegli spazi interstiziali, marginali, abbandonati, trasformati in rovine, esclusi contemporaneamente dal centro e dalla periferia, in cui la biodiversità e’ omogeneizzata se non azzerata.
Credo che la fotografia di una villa veneta, ridotta a rudere e confinata all’uscita di un casello autostradale, affiancata da un enorme sgargiante e banalissimo cartellone pubblicitario inneggiante le offerte di una catena di supermercati, sia l’immagine che meglio sintetizza l’attuale e temo irreversibile bivio ontologico su cui tutti siamo chiamati a riflettere: ora sta a noi scegliere la strada da prendere.