In una intervista immediatamente successiva all’uscita del film “Teorema”, Pier Paolo Pasolini risponde alla domanda relativa a una sua “certa compassione, si potrebbe dire simpatia, nei confronti dei borghesi”: “Come mai?”. “Questo è il primo film che ho girato in un ambiente borghese con personaggi borghesi. – spiega – Finora non l’avevo mai fatto perché non reggerei alla prospettiva di dover vivere mesi e mesi a contatto con gente che non riesco a digerire, preparando la sceneggiatura e poi realizzando il film. Ma il mio odio per la borghesia è in realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccolo-borghese, la volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente”.
E’ il 1968. Il primo marzo c’è stata la battaglia di Valle Giulia a Roma, uno dei momenti simbolici dell’anno dei giovani, con i violenti scontri tra gli studenti della vicina Università e i poliziotti dei reparti della Celere. Quando, il 16 giugno successivo, Pasolini è chiamato a partecipare a una tavola rotonda promossa da “l’Espresso” su quello che a tutti gli effetti appariva l’episodio-chiave della stagione della contestazione, e lì declina la sua posizione. Di tanta eresia scandalosa farà versi, ne “Il Pci ai giovani”, un brano destinato a rimanere impresso nella narrazione di quei tempi epperò mai inserito nelle antologie delle poesie di Pasolini, consegnato invece a “Empirismo eretico” che nella sua bibliografia va a occupare lo spazio degli interventi giornalistici in punta di polemica, appunto eretici epperò empirici. E’ come se Pier Paolo Pasolini voglia delineare già uno schema interpretativo per parole che sa destinate a smuovere le categorie di giudizio ormai vigenti sulle gesta, sull’identità, sugli obiettivi del movimento. Scrive dei giovani di Valle Giulia come dei borghesi figli di papà, “Siete pavidi, incerti, disperati / (benissimo!) ma sapete anche come essere/ prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: /prerogative piccolo-borghesi, cari. /Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, /io simpatizzavo coi poliziotti”. Coloro, cioé, che, pur vestiti “come pagliacci, /con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio /furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, / è lo stato psicologico cui sono ridotti / (per una quarantina di mille lire al mese)”, restano “figli di poveri./ Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano”. Lui li conosce bene: sono i frammenti della modernità irrisolta dell’Italia un tempo contadina, di un processo di trasformazione antropologica del Paes e avviato almeno un decennio prima ed allora – così inizia “Il Pci ai giovani” – gli studenti avrebbero dovuto scuotere il Partito. Ora è tardi, ora non ci sono che “Le ceneri di Gramsci” e la piccola-borghesia pretende di conquistare il mondo.
“Teorema”, il film e il romanzo che poi ne è la sceneggiatura, dunque un testo dalla natura che Pier Paolo Pasolini definirà “anfibologica”, si colloca alla stessa altezza cronologica dell’anno di Valle Giulia. Verrebbe da azzardare che insieme costituiscano un corpus unico ed omogeneo, a sua volta insediato nella vitalità già disperata e presaga di Pasolini. Perché la vicenda della famiglia milanese della ricca borghesia industriale che viene sconvolta dall’arrivo del giovane bello, silenzioso e affascinante nel suo enigma, con lui che seduce sessualmente la moglie, la figlia, il figlio, la domestica e lo stesso padrone di casa, c’è la nitida metafora di un mondo ormai consunto e sfrangiato. Il giovane ripartirà e niente sarà più come prima: la moglie prenderà a concedersi in giro, la figlia si chiuderà nella catatonia, il figlio se ne andrà per dedicarsi all’arte, il marito lascerà fabbrica e operai, prima si denuderà alla stazione di Milano e poi si perderà nel deserto, la cameriera pare recuperare il tratto originario di contadina e quindi si alzerò nell’aria come una santa.
Tutto ciò subisce accuse giudizi di oscenità. Ma la vera ed ennesima eresia di Pasolini appare quella dello scandalo all’interno della classe – non esclusivamente sociale, bensì antropologica – della borghesia. La classe italiana, secondo Pier Paolo Pasolini, che è la peggiore nel novero europeo, portatrice del “cinismo della nuova rivoluzione capitalista – la prima vera rivoluzione da parte della destra”, composta da uomini senza alcun legame con il passato, lui che al contrario si proponeva si essere una forza che dal passato derivava -, segnata da “l’imponderabilità”: “L’unica loro possibile aspettativa esistenziale è il consumismo e la soddisfazione dei loro impulsi edonistici”.
In questa affermazione si rintraccia – e non pochi lo hanno rilevato – un legame tra Pasolini e Guy Debord autore della “Società dello spettacolo”, il saggio pubblicato per la prima volta nel 1967 dove si coglie il crescente imperversare dei mass media e quindi l’impalcabile dominio delle immagini sulla realtà, l’apparire che sovrasta l’essere e produce la marxiana alienazione, fino a delineare il nuovo assoluto protagonista della modernità e dei suoi vari post, solidi, liquidi o gassosi: l’uomo televisivo. A rivedere il brano di Karl Marx dei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, il personaggio che dichiara “io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne” assume i contorni di una contemporaneità sconcertante: “Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore (…) Io sono stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre questo può comprarsi le persone intelligenti e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più intelligente dell’uomo intelligente?”. Non sarebbe incongruo o paradossale ascoltare un tale proclama oggi. Chi se ne sorprenderebbe?
A questo stadio, dunque, sta arrivando nel 1968 l’Italia che, dalla povertà, era stata gratificata dal benessere e proiettava la sua immagine verso gli anni a venire specchiandosi nella “televisione criminale”? Appiattendosi così sui valori dis-valutati della piccola borghesia e impaludandosi, tanto da trovarsi sommersa e spacciata come la famiglia di “Teorema”, ne “la volgarità delle “buone maniere” ipocrite”?
Certo è che per ragionare di volgarità, per provare a risalire al momento in cui dal suo significato, rimandato dai dizionari, di grossolanità, laidezza, rozzezza, scurrilità, sguaiataggine, trivialità, porcheria, sconcezza, essa si è imposta come canone della contemporaneità, conviene riascoltare proprio la voce di Pier Paolo Pasolini. Si comprende che la volgarità non è più esclusivamente la stupidità, la betiserie che pervade le pagine del “Bouvard e Pécuchet” di Gustave Flaubert, ormai saldata nel cattivo gusto ostentato e messo in scena. Non si limita a scaturire dal ribaltamento della categoria etica in quella estetica, lo scambio che Umberto Eco sostiene essere l’essenza del Kitsch, della ricerca dell’effetto che trascende il brutto e il cattivo gusto per decretare la mancanza di gusto, “i nanetti da giardino, le cupole di vetro in cui cade la neve sulla Madonna di Oropa, ma anche le buone cose di pessimo gusto di Guido Gozzano”, dice. C’è qualcosa di più. Johann Huizinga afferma che la volgarità è il maggior vizio del mondo moderno, riassumendo e compendiando tutti gli elementi negativi: la superficialità, l’egoismo, il narcisismo patologico, l’arrivismo cialtrone, l’utilitarismo cinico, la brutalità e la mancanza di compassione. Insomma, non una questione puramente estetica e formale, ma l’indice di un orientamento morale sia nel singolo che nelle società: non un incidente di percorso nella evoluzione sociale e culturale, bensì il punto d’arrivo di tendenze e atteggiamenti che si andavano delineando nel corso delle generazioni precedenti e che si sono pienamente affermati nell’incrocio della Storia.
Pasolini individua il frangente italiano negli anni del secondo dopoguerra, quando viene definita una modernizzazione miope e gregaria, accantonando la memoria e proiettandosi in uno spericolato nuovismo: il Paesaggio, il Potere, il Palazzo, la Politica costituiscono i prodotti – con la maiuscola che conferisce una sorta di aura metafisica ai vari ambiti – di un sistema degradato. E tale processo – in questo la lettura pasoliniana diventa straordinariamente valida – va ad allacciarsi a quello che ha condotto alla costituzione del carattere nazionale così come esso si è declinato negli ultimi 7-8 decenni, senza voler qui andare alle amare considerazioni sui costui degli italiani di Giacomo Leopardi o alle severe conclusioni in merito all’identità nazionale di Giulio Bollati. La volgarità come esito di una deriva della società nazionale nel suo complesso, che nell’esaltazione della classe piccolo-borghese ha toccato il suo trionfo antropologico. L’espressione alta dell’ideologia che domina l’area grigia dell’indifferenza contro cui Antonio Gramsci aveva lanciato i suoi strali: l’ipocrisia che genera il trasformismo, l’opportunismo che anima il servilismo della maschera di Arlecchino, la disinvoltura spietata che muove la meccanica di Pulcinella, insieme nell’eterno “Mardi gras” di Paul Cezanne.
La riflessione a cui invita Pier Paolo Pasolini pare debitrice dell’approccio epistemologico di Michel Foucault ne “L’archeologia del sapere”. Il testo è del 1969, preceduto però nel 1966 dalla dichiarazione d’intenti a favore della filosofia come “un’impresa di diagnosi, l’archeologia è un metodo di descrizione del pensiero”. Introdursi nell’archivio, poi preciserà: “Intendo per archivio l’insieme dei discorsi effettivamente pronunciati; e questo insieme di discorsi è considerato non solo come un insieme di eventi che sarebbero accaduti una volta per tutte e che resterebbero in sospeso, nel limbo o nel purgatorio della storia, ma anche come un insieme che continua a funzionare, a trasformarsi attraverso la storia, a dare possibilità di apparire ad altri discorsi”. Ebbene, proprio un simile paradigma diventa utile per acquisire una dimensione più ampia della diffusione pervasiva della volgarità oggi. Bucare la superficie di una società dello spettacolo dalle tonalità ormai inquietanti a cui pare essere ridotto il tempo che si sta attraversando: senza acquisire la consapevolezza del percorso che ha condotto a questi giorni si rimarrà disarmati e sconfitti.