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Oltrepassare. Frontiere, transiti, confini

Autore

Marco Dotti
Insegna Professioni dell’editoria al Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione Professionale dei Media dell’Università di Pavia. Giornalista professionista, si occupa di etica delle nuove professioni e del digitale, con particolare attenzione alle questioni aperte dallo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (AI). Il suo ultimo libro è “Finis Europae. Welfare, neonazionalismo, corpi intermedi digitali” (Roma, 2017).

La speranza, osservava la scrittrice brasiliana Clarice Lispector, è un nervo teso che sostiene il cuore. Non delimita, ma connette. La speranza è il transito lungo una linea di faglia (una frontiera) non confine: definisce presenza e presente legando il già stato e il non ancora. 

In questo senso rimanda a un’immagine dei monaci del IV secolo evocata dal gesuita Michel de Certeau. I monaci di notte stavano svegli, in piedi, nella posizione dell’attesa. Restavano lì, all’aperto, dritti e immobili come alberi, con le mani alzate al cielo, rivolgendo lo sguardo all’orizzonte nel punto in cui sarebbe sorto il sole. Stavano lì, fino allo sfinimento. Fino a quando il corpo si svuotava di intenzioni, e veniva abitato dal desiderio. Era la loro preghiera, scrive de Certeau, non avevano bisogno di parole, che bisogno c’era di parole? Solo al mattino, quando il sole si posava sulle palme delle mani, si potevano riposare. Il sole arriva diversamente da come la notte permette di conoscerlo. Che cosa accade? “Quel che ci accade è precisamente il raggio”, scrive Michel de Certeau. Il raggio, che improvviso cade sulle palme delle nostre mani, modifica il paesaggio, mostra quel luogo in cui è impossibile insediarsi. Non si può “localizzare” Dio. Gesù annuncia che l’ultima illusione, quella dei tempi ultimi, è precisamente questa illusione dell’insediamento, della topografia divina (Luca, 17, 25), illusione del luogo: “Vi diranno: Eccolo là, o eccolo qua; non andateci, non seguiteli. Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”. Cercare Dio? Per il mistico Dio è attesa di un luogo, transito in luoghi in cui è impossibile sostare. È la frontiera. 

“Non si possono addomesticare le frontiere”, afferma Papa Francesco (Discorso agli Scrittori della “Civiltà Cattolica”, 14 giugno 2013). Una frontiera va attraversata, persino sfidata, la sua natura stessa chiama a questa sfida. La struttura della frontiera, d’altronde, non solo simbolicamente, si apre al transito, ovvero a quel doppio movimento capace di senso che in sé comprende tanto l’incessante contestazione di ciò che è stabilito, avvenuto, quanto una continua, inesausta complicità con ciò che è sempre nuovo e sempre di là da venire.

Una frontiera richiede il coraggio di un pensiero aperto, incapace forse di occupare lo spazio, ma in grado di imprimere al tempo quella sottile e talvolta impercettibile deviazione che permette di istituire processi nel tempo, senza mai cristallizzarli in rapporti di potere. Michel de Certeau definiva questo transito come un’opera, una pratica o meglio un insieme di pratiche di “dissodamento”. Dissodamento che, massimamente, sarebbe possibile cogliere nel percorso del mistico, laddove quello dell’esperienza è luogo di per sé oscuro di un sapere vissuto, non chiara denotazione topografica sulla mappa dei saperi istituiti. Il mistico è, già in sé, l’incarnazione paradossale e vivente di un punto di fuga: egli trova un luogo, quel luogo in cui è sempre impossibile insediarsi. Forse nessuno più del mistico, col privilegio che accorda all’esperienza, vive nel transito e perturba le frontiere ponendo al centro della propria esperienza quella frattura che impone persino una delusione nei confronti del linguaggio e la ricerca, parlando con Teresa d’Avila, di un diverso «entendimiento y letras y nuevas palabras». Il mistico – sempre con le parole di de Certeau, che alla scienza dell’esperienza («science expérimentale») spirituale, come la chiamava Jean-Joseph Surin (1600-1665), ha dedicato tutta la sua vita – è colui o colei che non può arrestare il cammino e replica in sé l’indocile “movimento” di ciò che per un popolo è al tempo stesso esilio e esodo: non può risiedere in un luogo, ma quel luogo lo può solo – appunto – attraversare trasformando ogni approdo in una nuova frontiera. Ogni confine tracciato in una soglia da abitare. Oltrepassandola.

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