Viviamo in una democrazia senza democrazia. In una politica senza politica. In una libertà senza libertà. Oggi, più che lo stato minimo si vede la politica minima, ridotta anch’essa a brandelli e liberamente arcaicizzata all’impoverente rapporto tra leader e plebe. Tutto è a un minimo che tende verso il nulla: la forza di pensare in tempi lunghi, la capacità di vedere criticamente il mondo, il bisogno di progettare di fronte ai disastri e alle catastrofi sociali e naturali che incombono su di noi. Troppo preoccupati di guardare narcisisticamente dentro il nostro ombelico, abbiamo perso l’abitudine di guardarci intorno e vedere ciò che ci circonda, ma anche di alzare la testa e scrutare oltre la parete, là dove non si vede ma si immagina. Tutto è al minimo tranne il primato della battuta ad effetto sul discorso ragionato, l’ansia del consenso, l’opportunismo diventato la norma dell’agire e quasi un valore, la corruzione.
Si può essere prigionieri credendo di essere liberi? Non solo si può, ma direi che, a dispetto di tanta retorica sulla libertà, è, a mio parere, la condizione oggi dominante. Nel suo ultimo racconto Franz Kafka narra di un animale che passa la maggior parte del suo tempo sottoterra a cercare di rafforzare le difese della sua tana che è diventata quasi un labirinto. L’ossessione della sicurezza era arrivata a un punto tale che il suo massimo godimento era quello di uscire dalla tana non per respirare i profumi dell’aria aperta e per provare l’ebbrezza della libertà, ma mettersi in un punto nascosto e contemplare dal di fuori la sua tana ammirando il potere della sua impenetrabilità. Sapeva bene che era una follia, ma non ne poteva fare a meno. Il protagonista di questo racconto riassume in sé la condizione dei prigionieri della caverna di Platone e quella del prigioniero liberato, il cui compito questa volta non è quello di avvertire i suoi compagni e renderli consapevoli del loro stato di prigionia, ma di rassicurare sé stesso sul fatto che l’uscita dalla tana è quell’atto di libertà che conferma la sua condizione di sicurezza diventata prigionia. Ho visto manifestare contro il green pass al grido di “Libertà! Libertà!” ma ho avuto la sensazione che quella richiesta di libertà fosse fondamentalmente un bisogno di lasciare le cose così come stanno e le cose così come stanno implicano una società che si presenta come un semplice mezzo per i fini degli individui privati. Fuori da questi fini vi sarebbero solo oppressione e coercizione. E così si vanno a confondere i valori collettivi e cooperativi con l’oppressione istituzionale mentre il modo più spontaneo di stare insieme è quello del branco che trova l’unità soltanto contro il diverso, contro la donna, contro l’immigrato, contro lo straniero, comunque contro un nemico, vittima sacrificale di un’unità d’insieme raggiunta in negativo. E l’ultimo arrivato nella scala gerarchica del privilegio diventa il nemico più feroce nei confronti di chi sta fuori dal muro e preme per superarlo. Tutto questo perché le regole e le istituzioni hanno perso il loro carattere di collante organizzativo e cooperativo delle relazioni umane, espressione del bene pubblico e dunque di tutti, e sono diventare qualcosa di astratto, estraneo, lontano. Tutto apparentemente si tiene. Sinistramente ma si tiene. Nel pacchetto odierno della libertà vi stanno il dominio del privato sul pubblico, il bene comune inteso come bene di nessuno, il libero mercato, gli individui come imprenditori di sé stessi, la competition contro la cooperazione. La domanda è: perché tanto rumore per il green pass e assordante silenzio sui morti sul lavoro, sugli annegati in mare, sull’urgenza, irresponsabilmente elusa, della sospensione dei brevetti sui vaccini, sulla disoccupazione, sull’aumento delle tariffe, sul nesso tra inquinamento e corruzione, sul rapporto tra disastri civili e ambientali e connivenza con il il potere? Si tratta forse di un diversivo, cioè di una protesta tesa a mettere in secondo piano ben altre ragioni per protestare e per lottare. Nell’alternativa tra lo stato minimo e lo stato coercitivo, vi è un altro diversivo, quello che nasconde la necessità di uno stato sociale, oggi del tutto smantellato e ridotto a brandelli. E’ nello stato sociale che si dovrebbe giocare la dialettica e la tensione fra regole, istituzioni e libertà. E invece questo non accade perché l’ideologia neoliberista funziona come la caverna di Platone, non ci permette di guardare altrove se non nei termini del personaggio di Kafka e ci impone il godimento della chiusura in nome della libertà. Ma come posso essere e sentirmi libero se questa libertà è ottenuta al prezzo dell’oppressione del mio vicino?