L’esperienza di scrivere alcunché sulla libertà si scontra con un grande problema di fondo, e cioè che la libertà non si lascia stringere, nemmeno concettualmente. Chi legge provi a chiedersi: che cos’è la libertà? Ecco, avete pensato a Gaber. Grazie, ma no grazie: al di là dello slogan, che cosa rimane, che cosa si può depositare nelle parole quale riflessione sensata sulla libertà? Ci vorrei arrivare raccontando la mia personale esperienza di ricerca finalizzata alla scrittura di ciò che state leggendo.
Per affrontare la domanda sulla libertà risulta difficile non tornare a Platone e a quel luogo d’origine imprescindibile che è il mito della caverna¹. Ciò che in quel luogo si rivela chiaramente e risulta importante per la nostra questione è la messa a fuoco della relazione costitutiva tra la libertà e la verità. La liberazione del prigioniero è simultanea al percorso di svelamento della verità che egli scopre, per gradi, circa la propria condizione e la realtà in cui è inserita: dapprima ingannato che la realtà fosse quella generata da un mondo di ombre riflesse dalla luce di un fuoco, il prigioniero si volta e scopre innanzitutto che quelle che egli riteneva persone od oggetti reali erano soltanto ombre generate da un fuoco, comprende che anche il fuoco è immagine di una luce maggiore che lo porta ad uscire e vedere che fuori dalla caverna esiste un mondo a lui sconosciuto² e con ciò a realizzare che aveva sempre vissuto in una caverna – inganno nell’inganno –, ma soprattutto lo porta a vedere e contemplare la luce del sole. È perché là fuori c’è il sole e il prigioniero ne giunge alla contemplazione che egli è inizialmente detto libero, ed è per il fatto che ha visto – in greco “idèin”, che è “avere visto” quindi conoscere – il sole che egli deve tornare nella caverna per essere a sua volta liberatore. Il cammino che porta alla verità è un cammino di liberazione tanto quanto il cammino che porta alla liberazione è un cammino di verità. Libertà e verità si tengono in uno.
Ciascuno nella propria vita, relativamente spesso, ha vissuto e vivrà delle esperienze di liberazione, siano da una situazione, da un periodo di fatiche, da una domanda importante… Riflettendo un poco su quelle nostre singole esperienze non sarà difficile riscontrarne la connessione con quanto il mito ci insegna, ovvero che esse accadono in parte consistente di una comprensione diversa della propria realtà che prima non si aveva, il sapere (da liberati rispetto a quella situazione) quello che prima non si sapeva. Mettendo quindi anche empiricamente a fattor comune tutto ciò, potremmo affermare che ciascuna liberazione rappresenta lo sbroglio di una situazione, di un groviglio di pensieri, di preoccupazioni, di impedimenti, di spazi reclusi. Che sia pratica – un diritto civile, la libertà di esprimersi, di andare a lavorare senza rischiare di essere uccisi – o abbracci una dimensione più ampia dell’essere umano – la libertà di essere ciò che siamo, di amare la persona desiderata, di corrispondere alla propria vocazione –, la libertà ha sempre la pretesa, anche nel particolare, di essere la libertà e non una libertà ed è connessa ad un modello narrativo-veritativo di riferimento. Quali sono i valori dominanti – esterni o interni, imposti o autonomamente fissati – che ostacolano l’esperienza della libertà? Seguendo il mito e tutto ciò che ha prodotto, è risolvendo anche cognitivamente un modello che possiamo ottenere la libertà di volta in volta contingente che, nel suo momento, è sempre la libertà totale.
D’accordo su questo punto, accade ora tuttavia quanto accade proprio, tra le altre, alla questione della verità: che non riusciamo a darne una definizione, né formale né di contenuto, non riusciamo a stringerne il concetto e a depositarlo, appunto, definitivamente in modo da poterci una volta per sempre intendere cognitivamente su che cosa e quale sia la libertà. Fraintendere questo passaggio è assai pericoloso. Allorquando lo abbiamo fatto, nella storia, siamo stati protagonisti di crimini terribili: in nome della diffusione della libertà abbiamo combattuto crociate, guerre islamiche, abbiamo provato ad esportare democrazia (sigh!). Lo abbiamo fatto in tutti i secoli e in tutte le culture, in un fenomeno ampio tanto quanto la nostra appartenenza al genere umano, e abbiamo il dovere di non dimenticarlo, di salvaguardare noi stessi da questo errore. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto»³.
Come provocatoriamente si diceva in apertura, anche solo provando a rispondere alla domanda piombiamo in realtà nell’impaccio di non sapere che dire di una delle componenti più importanti su cui basiamo le nostre vite. Sembriamo abitare pertanto uno dei paradossi più classici del pensiero umano: di ciò che è fondamentale non abbiamo una risposta alla domanda che ci chiede che cosa sia, e la cosa appare tanto più grave avendo compreso che libertà e verità si tengono in un uno, ma non riuscendo a stringere la verità della libertà.
Per uscire dall’impasse ci facciamo aiutare, ancora una volta, da un aneddoto che coinvolge una delle grandi questioni della filosofia, la domanda sulla moralità. È noto come Kant, nella Critica della ragion pratica, riuscì a fornire un postulato unico e definitivo valido quale regola etica sempre efficace: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»⁴. I contemporanei del prussiano, riprendendo Aristotele, in breve tempo rivendicarono per contro come non esiste nella realtà dei fatti una situazione uguale all’altra, anche quando il problema è il medesimo, e perciò la scelta morale, la scelta migliore, non è data una volta per tutte, e neppure ne è dato un metodo fisso di risoluzione. Ogni situazione ha la sua scelta morale perché ogni contingenza è unica a sé, cangiante per valori, soggetti, ambiente in gioco nella scelta stessa.
Il punto è che la medesima dinamica governa anche la nostra risposta alla domanda sulla libertà.
La domanda che chiede dell’ente-libertà è mal posta: la libertà non è per l’uomo, nel concreto, una realtà fissa, quanto invece è contingente proprio perché anche l’essere umano vive la contingenza; le situazioni e le narrazioni di verità che attraversiamo nel corso della nostra vita sono diverse, le stagioni della vita, i periodi, le grandi domande dei giovani che non sono quelle dei vecchi e nemmeno quelle dei bambini. La questione deve considerare che siamo costitutivamente divenienti e che la domanda sulla verità non possiamo considerarla come una domanda che ha esclusivamente una risposta fissa, poiché il soggetto coinvolto, noi, non è soltanto fisso e stabile nel corso del tempo. Se non teniamo presente questo mancheremo sempre il punto, cercando di trovare la risposta impossibile, la libertà che non esiste e che se anche esistesse non si confarebbe a noi.
La libertà, ontologicamente connessa con la verità, come si s-copre e come si ri-conosce nel corso di una vita, dunque? Coltivando la domanda e mantenendo ad un tempo la consapevolezza di abitare la contingenza in quanto esseri limitati:
«La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere gravata da questioni che essa non può evitare, poiché le sono assegnate dalla sua stessa natura di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana»⁵.
Non riusciamo a non chiederci sempre e comunque che cosa sia la libertà come non riusciamo sempre e comunque a risponderci. La risposta si realizza abitando il quotidiano terreno esistenziale del possibile che è la nostra vita, risultante dalla relazione tra queste due dimensioni che convivono continuamente tra la domanda di una risposta fissa e l’esperienza del cambiamento del nostro essere finiti. Questa relazione ci abita e descrive radicalmente in quell’essere a metà⁶ tra il porci la domanda e il non saper rispondere, tra il vorrei e il non posso. Siamo così su tutto: sappiamo di essere mortali ma ci comportiamo anche come se non lo fossimo, aspiriamo al divino sapendo di non esserlo, vorremmo che il nostro amore sopravvivesse a noi e facciamo fatica a comprendere anche solo il fatto che, se ciò sarà, non potrà che esserlo in una forma diversa da quella terrena. Siamo una relazione possibile tra impossibili. La verità della libertà si gioca in questa partita, nella misura in cui è l’impossibilità di stringere una risposta che ci fa vivere nella domanda e la domanda di senso.
La relazione tra queste nostre dimensioni è il nostro abitare la terra perché la libertà sia. In divenire, cangiante come noi nell’arco della nostra vita. Una libertà da vivere, non da trovare e possedere. Un’oscillazione tra il guardare all’ente e alla sua relazione generativa, tra l’aver trovato e il sapere che è impossibile trovare. Trovare la libertà nella ricerca della stessa è l’unica dimensione che ci è concessa, così come la filosofia – che è atteggiamento ricercante – è la misura di verità possibile a noi umani.
¹ Platone, Repubblica, Libro VII
² Cfr. Alfonso Maurizio Iacono nel numero di novembre di P&L, che riprende anch’esso la narrazione platonica sottolineandone il senso del passaggio. https://www.passionelinguaggi.it/2021/11/01/la-distruttiva-lotta-tra-una-mente-pragmatica-sorda-e-una-mente-integralista-cieca/
³ Publio Terenzio Afro, in Heautontimorùmenos (il punitore di sé stesso), 165 a.C.
⁴ I. Kant, Critica della ragion pratica, §7. Legge fondamentale della ragion pura pratica, 1788. Tra. it. Vincenzo Cicero
⁵ I. Kant, Critica della ragion pura, Prefazione alla prima edizione, 1781. Tra. it. Vincenzo Cicero
⁶ Cfr. Platone, Simposio, con particolare riferimento al discorso di Aristofane