- Educazione e libertà, sono due parole fondamentali del nostro vivere civile, spesso non comprese nel loro significato più genuino o addirittura manipolate e svuotate di senso, banalizzate. Che definizione daresti di queste due parole e in che relazione stanno tra esse?
Mi chiedi una sintesi difficile, che il concetto riesce a cogliere solo in parte. Ma se devo rischiare, definirei l’educazione l’esperienza relazionale che accompagna il venire al mondo il mistero del “figlio”, la relazione generativa per eccellenza. Per “figlio” intendo l’altro che sta dentro di me, che non mi è indifferente, che mi ri-guarda. In questa relazione, che è una vera avventura, c’è una compromissione integrale e integrata, personale ( singolare e plurale) di corpo, spirito e intelletto. Anche la libertà è una relazione. E’ ciò che distingue e lega i pronomi personali che costituiscono la nostra persona. C’è sempre una libertà di, per, con, da,….La libertà individuale concepita in senso assoluto non esiste, è un’illusione mortifera; la mia libertà è sempre la libertà dell’altro. Se mi spingessi un po’ più in là direi che la libertà è essere ciò che si è chiamati (dalla vita) ad essere. E’ il respiro dell’esistente. Educazione e libertà hanno una stretta relazione di senso. Sinteticamente utilizzerei queste parole: coscienza, speranza, interdipendenza, ascolto, comunità.
2. Il grande pedagogista e teorico dell’educazione Paulo Freire concepiva l’educazione come “pratica di libertà”, e “come il modo di essere, come il destino dell’uomo, e perciò stesso ha senso soltanto in seno alla storia vissuta dagli uomini”¹. “L’auto-sufficienza è incompatibile col dialogo” – scriveva Freire, ricordando che l’educazione è un processo co-evolutivo, nel quale il compito degli educatori non è parlare alla persona della nostra visione del mondo, o “tentare di imporgliela, ma dialogare con lui circa la sua e la nostra. Dobbiamo convincerci che la sua visione del mondo, che si manifesta nelle varie forme della sua azione, riflette la sua situazione nel mondo”².
Perché, ti chiedo, in contesti educativi quali famiglia, scuola, associazionismo, è così difficile attivare processi di questo tipo?
L’affermazione di Freire, che condivido integralmente, si scontra in questo momento, nella parte di mondo che conosco più da vicino, innanzi tutto con la confusione delle parole. In una società funzionalista, in cui il “senso” risulta persino imbarazzante, educazione e libertà per come le abbiamo precedentemente intese vivono in una costante emarginazione.
Libertà è stata ridotta a “libertà di scegliere”, chiaramente scegliere e consumare ormai sono sinonimi, scegliere tra i beni e servizi che qualche altro ha pensato per te.
Educazione da noi è ormai sinonimo di formazione, istruzione, addestramento, informazione, apprendimento. Siamo molto lontani dall’esperienza di educazione come pratica di libertà. Devo dire con grande tristezza che questo oggi non riguarda solo la scuola, che ha preso ormai da decenni questa china, ma anche l’esperienza di moltissime famiglie e associazioni. L’esperienza pandemica di questi due anni ha svelato ampiamente questa perversione, tutto è stato commisurato al “dispositivo tecnico”, senza nessun margine di dialogo, riflessione e pratiche su vitali esperienze alternative di senso. Aprire e chiudere la scuola ha voluto dire nell’esperienza di milioni di bambini, adolescenti e giovani aprire e chiudere un edificio o in alternativa aprire e chiudere un dispositivo digitale. La concretezza è stata questa, per il resto pura retorica. D’altro canto l’ordine sociale in cui viviamo, fondato su un immaginario di infinita volontà di potenza, è molto pervasivo con parole d’ordine molto penetranti: produrre, consumare, massimizzare, accelerare. Se libertà ed educazione devono stare in questo super-ordine è allora necessario trasgredire consapevolmente.
3. Indicatore significativo e fattore costitutivo di un percorso educativo finalizzato alla libertà è il linguaggio. Ne parla nel suo bel libro dal titolo “Insegnare a trasgredire”, Bell Hooks (al secolo Gloria Jean Watkins), studiosa afro-americana delle identità femministe, e seguace di Paulo Freire. La Hooks scrive che “come il desiderio, il linguaggio sconvolge, rifiuta di essere racchiuso all’interno di confini”, e, contro ogni imperialismo culturale, invita a trasformare “le nostre parole in un discorso contro-egemonico, trovando la libertà nel linguaggio”³.
Libertà e pensiero unico sono incompatibili, così come libertà e conformismo. Cosa ne pensi?
La questione del linguaggio che sottolinei in questa domanda, rende evidente ciò che ho cercato di dire in precedenza. Oggi esistono solo termini funzionali, schemi cognitivi comportamentali, appropriatezza di azioni. In sintesi la paranoia del know-how. Il “come” è l’elemento portante del linguaggio. E’ quello che chiamo “scientismo” che ha poco a che fare con la conoscenza e con la scienza. La mia preoccupazione non è tanto che esista un pensiero egemonico (e in simbiosi con esso un linguaggio egemonico) presente in ogni epoca storica, è che non c’è traccia di un pensiero critico che non sfugga al pensiero e al linguaggio binario. E’ tutto o/o. Generare alternative ed esperienze di pensiero, linguaggio, azione significa invece muoversi nella prospettiva dell’e/e. Il linguaggio genera ed è veicolo di senso (significato, orientamento, passione), la parola è un mistero di relazione (significato, significante, parlante, ascoltatore, silenzio).
C’è molto da fare amico mio.
4. Insisto sulla questione del linguaggio in relazione alla libertà, riprendendo le considerazioni del filosofo Pietro Barcellona, che già molti anni fa evidenziava come “l’influenza di chi costruisce i linguaggi della comunicazione globale, informatica e praticamente segnica e monolinguistica, si può estendere all’intero pianeta”. Secondo Barcellona si tratta di una forma moderna di totalitarismo, quella che – citando “La banalità del male” di Hannah Arendt – egli individua nello “sviluppo di un dominio linguistico che con la manipolazione delle parole e del linguaggio esercita un’influenza sulla vita delle persone che ne oscura progressivamente le capacità autonome di produrre immagini, rappresentazioni e parole”⁴.
Nell’era della tecnologia digitale, il rischio di manipolazione sembra decisamente aumentare, generando una sostanziale perdita di libertà delle persone. A cosa dovrebbe mirare l’educazione in questo contesto?
Ad emancipare le persone dalla tecnologia che è ormai tecnocrazia e tecnobusiness. Servono esperienze di emancipazione, che non significa affatto rifiuto, ma nemmeno assuefazione. Il pensiero gnostico binario (la logica degli algoritmi è 0/1) che sta alla base del digitale e che rende accelerato e moltiplicato il nostro desiderio di volontà di potenza e di sicurezza/certezza non può essere considerato l’unico logos, ne tanto meno il “migliore”. Il pensiero ed il linguaggio tecnologico (macchina di secondo e terzo grado) hanno poco a che fare con la techne. E’ in sostanza una potente riduzione del pensiero a quantità, analisi, misura, codificazione. Non solo riduce la prosa del linguaggio, non lascia spazio a nessun pensiero poetico, artistico, artigianale. Se non rubricandolo nella marginalità dello spazio privato soggettivo. Il sistema trova un posto a tutto e a tutti, purché non se ne metta in discussione l’implicito potere e direzione.
5. Se la posta in gioco dell’educazione è formare uomini liberi, che non siano perciò soggiogati dal dominio di altri e da forme patologiche di dipendenza, non tutti i modelli e le prassi educative fanno al caso. Un grande educatore, sociologo, poeta, qual è stato Danilo Dolci, amava distinguere radicalmente due prospettive: quella del trasmettere, che connota una relazione formativa unidirezionale, addestrativa, orfana della reciprocità; e quella del comunicare, che prende forma nell’intersoggettività, nel conflitto, nello scambio e nella maieutica reciproca. Scriveva in proposito Danilo Dolci: “dal profondo conflitto tra l’insensato dominio che trasmette meccanicamente e le forze educative autentiche comunicanti in modo creativo ne risulterà il destino del mondo”⁵.
Mi pare che siamo lontani nell’educazione dall’approccio proposto da Dolci….
Nelle pratiche siamo lontanissimi, ma se si vive a contatto con molte realtà quotidiane se ne avverte l’urgente necessità. Credo che l’esperienza pandemica che stiamo attraversando possa anche aiutarci a tentare vie nuove. Il punto è che in questi anni abbiamo assistito ad una profonda decadenza del pensiero e ad una massificazione dei comportamenti sociali. Il paradosso è che in una società che storicamente non è mai stata così libera, non sappiamo che farne della nostra libertà. Ne abbiamo anzi paura, rincorriamo continuamente dipendenze. La “libertà di”(consumare) ha completamente annichilito il senso vocazionale della vita, sfigurando la nostra unicità in individualismo narcisista.
Da tempo sostengo, e cerco di perseguire la necessità e l’importanza di dar vita a esperienze comunitarie istituenti. Nessuno da solo ce la può fare, ma penso che l’uomo è ancora in grado di fare la differenza, che la vita ha una sua forza intrinseca. Se la tecnocrazia tende a saturare qualsiasi immaginario del possibile, ci resta l’immenso campo del necessario e dell’impossibile. In fondo nei seimila anni di storia umana sono questi due poli della realtà che hanno mosso le esperienze più significative della libertà e dell’educazione.
6.Ti chiederei di commentare con gli occhi di un’attualità fortemente condizionata dall’emergenza sanitaria, rispetto alla quale si riconosce pochissima importanza agli impatti critici di carattere psichico, soprattutto di adolescenti e giovani, le parole di Danilo Dolci sull’essenza della libertà. Egli scriveva che: “termini quali assenza di coercizione o libertà non possono semplicemente significare assenza di costrizioni o di influenze esterne, bensì devono significare al tempo stesso un’assenza di blocchi interni, di inibizioni e angosce psichiche. […] Le forme di riconoscimento proprie dell’amore, del diritto e della solidarietà rappresentano protezioni intersoggettive che tutelano e assicurano quelle condizioni della libertà interna ed esterna da cui dipende il processo di autonoma articolazione e di realizzazione di fini di vita individuali”⁶.
E’ una frase molto bella e molto profonda. Molto attuale. Esprime bene il contenuto che ho cercato in precedenza di presentare quando ho sollevato il tema delle esperienze comunitarie istituenti. Cerco di spiegarmi. In questo momento la realistica percezione della nostra fragilità/mortalità, in particolare, ma non solo, per bambini/adolescenti/giovani, non può trovare un’unica risposta illusoriamente rassicurante nell’idea che i dispositivi tecnici (digitali, sanitari, assistenziali, finanziari, etc…etc) ci “salveranno”. Senza comunità non ci si “salva”. Ma la comunità, che è condivisione del “munus”, non è immediatamente la società delle funzioni, delle regole, del diritto. Io credo che non possa esistere una società umana senza comunità. Non perché la comunità sia in sé bella e non presenti tutti i suoi rischi, ma perché noi siamo comunità, non abbiamo una comunità. L’esperienza dell’interdipendenza è esattamente l’esperienza singolare della comunità. Il “munus” condiviso è contemporaneamente dono e obbligazione morale. Non è l’uno o l’altro. E’ l’uno e l’altro. Senza comunità non c’è politica, caso mai c’è una forma retorica di tecnocrazia. Tutti questi nodi dalla morte di Danilo Dolci mi sembrano ci si presentino ciclicamente sotto gli occhi, con un livello di complessità sempre maggiore. Credo sarà inevitabile passare da altri drammi perché le coscienze non solo si sveglino ma entrino in un processo di trasformazione e si mettano in movimento.
7.Nei tuoi libri, come ad esempio in “Giuseppe siamo noi”⁷, e nei tuoi interventi pubblici, spesso richiami un concetto caro a Sigmund Freud: educare è un mestiere impossibile! E’ chiaro che si tratta di un linguaggio paradossale che rimarca la fatica dell’educare come processo relazionale, aperto, inedito, rischioso….
Proprio perché è impossibile è umano. L’umano è mancanza d’essere, sta tra il nulla e l’infinito, una posizione “in sé” impossibile. Eppure la nostra esistenza è questa avventura, e per nostra non intendo solo quella di ogni uomo singolo, ma dell’umanità. E in questa avventura siamo in compagnia anche del cosmo e del divino. Una solitudine non isolata. E’ per questo che penso che l’essenza dell’educare sta nella custodia e nella cura della domanda, non nella presunzione della risposta. Solo attraverso la verità della domanda, la nostra compromissione con la domanda, l’impossibile prende forma. Insieme, nello stupore e nella meraviglia.
Johnny Dotti è amministratore delegato di ON impresa sociale, e presidente di È-one abitare generativo. Pedagogista e imprenditore sociale. E’ stato presidente di CGM (Consorzio Gino Mattarelli) e di Welfare Italia servizi. È tra i fondatori di Comm.On!, associazione che sviluppa iniziative e progetti di economia generativa. Dirige all’Università Cattolica di Milano il Laboratorio Analisi e gestione di fenomeni sociali complessi, attivo presso la cattedra di Sociologia.Tra le sue pubblicazioni più recenti: Venite a mangiare con me. Una nuova convivialità per tornare umani (con M. Aldegani), Vita e Pensiero, 2020; La vita dentro la morte. Come offrire gesti di speranza, EMI, 2020; Più vivi, più umani. Virtù e vita quotidiana (con M. Aldegani), Edizioni San Paolo, 2019; Educare è roba seria. Corresponsabilità, oratorio, vocazione. Parole per il domani, EMI, 2018; L’Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni (con A. Rapaccini), Vita e Pensiero 2019; Condividere, Luca Sossella Editore, 2018; Giuseppe siamo noi, (con M. Aldegani), Edizioni San Paolo, 2017; Buono è giusto. Il welfare che costruiremo insieme (con M. Regosa), Luca Sossella Editore, 2015.
¹ P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, 1975
² P. Freire, L’essenza dell’educazione come pratica di libertà, in Animazione Sociale, Gennaio 1998
³ Bell Hooks, Insegnare a trasgredire, L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, 2020
⁴P. Barcellona, ParolePotere, Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Castelvecchi, 2013
⁵ D. Dolci, Comunicare, legge della vita, Piero Lacaita Editore, 1995
⁶ D. Dolci, La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, 1996
⁷J. Dotti, Giuseppe siamo noi, Edizioni San Paolo, 2017