Le relazioni di comunità come infrastruttura della cittadinanza attiva e della nuova economia. Il lascito di Michele nella sfida alle mafie e nel costruire un mondo nuovo.

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È facile e difficile al tempo stesso ricordare un uomo straordinario, cioè proprio fuori dall’ordinario, come Michele Ammendola, per i tanti aspetti della sua persona che facevano di lui un unicum. Certo ciascuno di noi è un unicum, ma Michele era un unicum speciale, particolare, capace di combinare elementi che in altri non si sarebbero incrociati, fusi: la mitezza e la determinazione, la  generosità e la testardaggine, la bonarietà e la tenacia, la semplicità e la scaltrezza, la schiettezza e la cortesia, la parola e l’esempio, l’essere burbero e gentile, l’ironia e la grandezza d’animo.

Figlio di Napoli, del quartiere Capodimonte, sebbene emigrato a Bologna per lavoro, Michele non solo non avevo disperso la sua napoletanità, come accade a tanti che lasciano la città di origine, ma quel tratto culturale di “solarità e solidarietà” l’aveva aiutato a riprodurre altrove, dando ad esso forma di cittadinanza e di impresa sociale, esperienze di condivisione e sostegno agli ultimi di questo mondo. Michele aveva una grande passione: fare il bene degli altri. Una passione divisa con quell’universo straordinario di persone impegnate nella lotta alla camorra e nel rilancio di un’economia e di un lavoro sostenibili, legali e produttivi che alimentava con le frequentazioni casertane con gli amici di una vita, impegnati a far fiorire un’economia pulita, lavoro, legalità, sostenibilità e inclusione nella cosiddetta Terra dei Fuochi, e nei terreni e beni confiscati alla camorra. 

Michele sapeva bene che la camorra non è solo un’organizzazione criminale, militare, capace di espandersi anche in territori come l’Emilia Romagna, ma è prima di tutto una cultura, un atteggiamento da combattere cambiando la logica e la prassi delle relazioni, attivando percorsi di integrazione sociale e di libertà, facendo vivere accanto al fare la dimensione dell’essere, suscitando e formando quella autonomia delle persone che nasce da processi educativi. Per questo non si risparmiava, impegnandosi in prima persona e pretendendo lo stesso impegno da chi con lui condivideva i progetti che avviava e soprattutto dalle istituzioni. Per il bene degli altri, Michele non guardava in faccia a nessuno: la sua determinazione e tenacia erano grandi come il suo cuore. Passionale e sanguigno, Michele era però “nu piezzo ‘e pane”: selettivo per serietà nelle relazioni, ma una volta che ti apriva la porta del cuore ti rendeva ospite d’onore. Michele viveva di relazioni e nelle relazioni, ma di quelle autentiche, capaci di rivelarsi l’infrastruttura più importante della sua attività sociale, soprattutto nei momenti difficili, nonché il “bene” più grande che le sue iniziative potessero produrre: generare socialità e comunità in un contesto sociale ed economico che tende a consumarli. Le relazioni erano la sua forza su cui faceva leva per tirarsi fuori dai momenti più bui della sua attività sociale, in particolare in questi ultimi due anni segnati dall’emergenza sanitaria. 

Non lo conoscevamo ancora Michele, malgrado le nostre sempre più assidue frequentazioni con l’universo straordinario di persone e gruppi impegnati nella lotta alla camorra e soprattutto nel rilancio di un’economia legale e produttiva a Casal di Principe e nel casertano. Ma una sera a casa di Peppe Pagano, tra i fondatori di NCO (Nuova Cooperazione Organizzata), tra una mozzarella e un bicchiere di Asprinio, presenze costanti delle nostre relazioni, incrociammo Michele. Passionale e sanguigno fu il nostro incontro, proprio come era lui: passionale e sanguigno. Non gli pareva vero avere davanti due sindacalisti e non sprecò l’occasione per rimproverarci, ricordarci e sottolinearci quanto fosse importante che anche il sindacato si occupasse a tempo pieno di legalità. Noi accettammo il gioco, sapendo di poter mettere sul piatto qualche carta importante davanti a un uomo che su lavoro, legalità e inclusione, come tanti nostri amici di quelle terre, aveva scommesso senza riserve la propria vita. Michele era severo nella selezione all’ingresso ma, generoso qual era, ci mise poco a comprendere che parlavamo la stessa lingua, fatta di valori e comuni cammini. Apprezzò l’impegno che da anni avevamo intrapreso seriamente e il fatto che avevamo coinvolto tanti giovani sindacalisti nei campi di formazione e lavoro nei terreni confiscati alla camorra. 

Fatto sta che quell’incontro acceso, passionale, ma affettuoso, divenne la base della nostra grande fraterna amicizia. Fu solo l’inizio di una relazione a 360 gradi, capace di generare non solo occasioni di impegno sociale accanto al progetto di Michele, ma anche di indimenticabili festività passate insieme tra Napoli, Casal di Principe, Casoria e Sessa Aurunca e di belle e ironiche discussioni calcistiche condite da sfottò fraternamente pesantissimi: lo spartiacque, manco a dirlo, era il tifo per il Napoli. Michele tifava Napoli con la stessa passione con la quale si occupava socialmente degli altri, per cui non sarebbe mai stato possibile fargli cambiare idea.  Anche nel calcio, come nella vita, nella professione e nell’impegno sociale, era un militante, tifoso irriducibile che spernacchiava la sportività forte della sua fede cieca e convinta. Ne sappiamo qualcosa – noi due e Andrea Tammaro, cuori rossoneri – per la frequentazione di una esilarante chat con Giuliano Ciano, Peppe Pagano, Simmaco Perillo, Maurizio Criscitelli e Mauro Pagnano – nella quale i tifosi non del Napoli pagano puntualmente dazio. “Magnateve ‘o limone”, è stata la frase più affettuosa rivoltaci da Michele a noi tifosi del Milan, dopo l’ultimo 1-0 inflittoci dal Napoli in campionato. Sostenuto dal Presidente Maurizio e dagli alfieri Giuliano e Mauro, per milanisti come noi non c’era scampo, potendo contare anche sull’appoggio dell’interista Simmaco e diversificare la potenza di fuoco su Peppe, lo juventino del gruppo al quale mai fu perdonata l’incompatibilità tra napoletanità (presunta) e gobbismo (certo). Per Michele il Napoli era una ragione di vita. Ricordiamo bene quando sosteneva il cosiddetto “sarrismo”. Ma il suo pensiero non si limitava al calcio: il “sarrismo” per Michele era una sorta di manifesto dei deboli contro i forti, scelta-simbolo di una vita vissuta sapendo, e scegliendo, da che parte stare. E ciò gli faceva onore! Con Michele le discussioni erano toste, aveva sempre ragione lui, perché stava sempre dalla parte giusta. Il 25 febbraio 2017 rimarrà nella nostra mente e nel nostro cuore una data indelebile: Michele dopo tante traversie e fatiche inaugurò a Bologna, alla presenza di tanti amici, La Fattoria di Masaniello che, di lì a poco, diventò un luogo di incontro di sindacalisti grazie alla “collusione” di un altro napoletano come Gianni Caruso, che ne fece in sostanza una seconda sede sindacale. Michele è stato capace di vincere una sfida raccolta tanti anni prima e che ora, con Masaniello, si faceva storia: di legalità, di sostenibilità ambientale e di offerta di lavoro anche ai più fragili, tenendo insieme solidarietà, lotta alle mafie, inclusione, prodotti sani e di qualità, spazi per i bambini e acqua gratis. In pratica, tutto il mondo in un solo locale. Ce lo ricordiamo il clima che si respirava la sera dell’inaugurazione, una grande festa con l’assaggio della pizza napoletana fatta con tutti i crismi. Buonissima, straordinaria. Quella sera, però, ’o limone se lo dovette magnare Michele perché, in contemporanea, l’Atalanta stese il Napoli, mentre lui si divideva tra gli onori di casa e il tablet di Sandro Ruotolo che trasmetteva la diretta dal San Paolo, stadio che qualche anno dopo sarebbe diventato il Diego Armando Maradona. Già, D10S era un altro stile di vita per Michele che inseguiva tutto ciò che gli ricordava il Pibe de Oro fino a stalkerizzarci per avere la password di Netflix per potersi vedere a scrocco il film “E’ stata la mano di Dio”. Mauro, alla fine, cedette alle pressioni prestandogli il proprio account e salvando anni di impegno per la legalità, sottraendolo alla tentazione del pezzotto…

Michele è stata una persona verace, autentica, senza angoli nascosti. Qualche anno fa fece il colpo di teatro trasformando la Fattoria di Masaniello in Porta Pazienza, riconfermando il progetto sociale di inclusione per le persone fragili, un luogo dove le pietre scartate diventano pietre angolari di un nuovo modo di stare insieme, protagonisti del lavoro che sa dare dignità e diritto di cittadinanza in un mondo migliore e più giusto da abitare solo dopo averlo costruito, insieme.

«Benvenuti a casa vostra!» è il saluto che Michele regalava, sorridente, a chi varcava la soglia di Porta Pazienza dove non esistevano confini e barriere di alcun genere esattamente come lui, una persona senza frontiere. Gli ostacoli per lui non sono mai stati montagne da scalare, ma trampolini da cui spiccare il volo. I problemi per lui non sono mai state scuse per piangersi addosso, ma sfide da vincere e opportunità da cogliere. E non lo faceva mai in solitaria perché ha sempre avuto l’umiltà, che solo le persone intelligenti e sensibili hanno, di riconoscere i propri limiti e chiedere aiuto, consapevole che sono la collettività e il gruppo a fare la differenza. Michele era capace sinceramente di chiedere sostegno nei momenti di difficoltà, mai per se stesso, ma solo e soltanto per quei ragazzi coinvolti nei suoi progetti dei quali sentiva e viveva una grande responsabilità. Con questo spirito aveva attraversato anche la fase critica più recente dal pinto di vista lavorativo, superata brillantemente con il largo sostegno di amici e conoscenti, grazie alla credibilità del suo modo di essere e delle sue azioni, trasparenti e finalizzate solo al bene di altri. E così, quando il suo sogno rischiò di naufragare sotto il diluvio della pandemia, ha chiamato a raccolta la “sua rete”, come definiva quella straordinaria comunità di impegno civile e passione civica, animata da valori condivisi e orizzonti comuni, per salvare il progetto, rilanciandolo. In un solo mese, mentre il Covid stava sfasciando le relazioni e la solidarietà, dal 17 marzo al 18 aprile del 2021, 470 persone, insieme a diversi testimonial della cultura, della musica e dello spettacolo, si strinsero attorno a Michele e alla sua Cooperativa, raccogliendo 50.000 euro utili ad acquistare un Food Truck. Un “camioncino” che potesse fare sia didattica e attività per i più piccini, con uno sguardo attento e particolare ai bambini autistici, che buona cucina. Un “camioncino” che ora corre sulle ruote dell’amicizia e della fraternità per continuare a servire “primi, secondi e, soprattutto, ultimi”.

È questa la grande lezione che ci lascia, arrivata molto e troppo prima di quanto avremmo pensato: la vita si può considerare pienamente vissuta solo se destinata a far star bene gli altri, soprattutto se fragili. Questo ci dice l’esistenza impegnata e generosa di Michele. Abbiamo vissuto tutti una grande comunità, respirando amicizia e fraternità vera, disinteressata, scoprendoci una famiglia. Abbiamo discusso di progetti e immaginato orizzonti collettivi; abbiamo parlato di politica, dipinto sogni e fotografato vita reale. Ma abbiamo anche saputo sperimentare la bellezza del cazzeggio, dello stare bene insieme a ridere e scherzare. Michele aveva un puntualità svizzera nel ributtarla in caciara quando arrivavamo alle soglie del litigio calcistico, dopo averci infiammato coi suoi limoni e la sua moviola partigiana. La sua autoironia, sinonimo di intelligenza, era sempre in sottofondo: ultimamente a chi pareva stupito del fatto che avesse fatto la terza dose tra i primi, rispondeva serafico e ironico: «io so’ chiatto’!».  Risuonano ancora le risate quando Peppe – a cui rimproverava l’uso della “u” e non della “o” ricordandogli che, a differenza della cadenza casertana, in napoletano si pronuncia “o babbà” e non “‘u babbà”,  perchè “in napoletano la U non esiste!” – nel suo dialetto particolare, a seguito dei continui arricciamenti che Michele faceva alla propria barba, gli disse: «chist ten i pruchi da barb!», evocando scherzosamente la presenza di pidocchi nella barba.

Cosa rimane in noi ora? Tutto e niente carissimo Michele: il tutto della tua indicazione di come si può ben spendere un’esistenza seppur breve; il tutto del tuo immenso amore per la tua amata Alessandra e per i piccoli Francesco e Luca; il tutto del nostro amore per te; il niente del vuoto che ci lasci con la tua scomparsa. Ma forse anche questo appartiene al tuo stile sobrio e ironico al tempo stesso. E come dice un grande poeta scomparso anche lui anzitempo, Pierluigi Cappello: «Ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse, mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto, dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita, in mezzo a un panorama di pietre sparse e tegole rotte». Quel vuoto, in qualche modo, pur con tutti i nostri limiti, certamente non riusciremo a riempirlo ma cercheremo di dargli un senso. 

Il tuo cuore, pieno di amore, ha ceduto solo perché lo hai consumato per gli altri, per ciascuno di noi. Grazie Michele!

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