La libertà come eteronomia senza dominio

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

Per un nuovo regime di emancipazione

Le società sono, fondamentalmente, trame di affetti. Forme di vita determinate che si basano su determinate grammatiche di affetti: vale a dire, hanno bisogno di affetti specifici per continuare a ripetersi, a imporre i propri modi di ordine definendo, così, il campo del possibile. La grammatica degli affetti in virtù della quale la società contemporanea si regge, quella della modernità capitalistica, si fonda sulla figura dell’individuo proprietario, il quale ha nell’interesse e nella paura i due pilastri su cui regge il suo specifico universo psichico. La paura come affetto politico centrale è indissociabile da una certa comprensione dell’individuo, con i suoi sistemi di interessi e le sue frontiere che devono essere continuamente difese. Ciò è conseguenza necessaria del fatto che la politica liberale ha per orizzonte l’uomo nuovo definito dalla ricerca del proprio interesse, dalla soddisfazione del suo amor proprio e dalle motivazioni passionali che lo fanno agire.

Una società il cui modello di iscrizione si dà a partire dalla determinazione di soggetti sotto la forma di individui non può che comprendere la libertà in un senso profondamente egologico, costituita cioè dalla definizione dell’altro come una specie di “invasore potenziale”, come qualcuno col quale ci si relaziona in modo preferenziale attraverso contratti che definiscono obbligazioni e limitazioni mutue sotto lo sguardo di un terzo. In altri termini, il modello egologico di libertà presuppone la grammatica degli affetti che genera l’individualismo proprietario e lo riproduce: nella misura in cui è costruito a partire da categorie come “identità personale” e “personalità”, esso perpetua le illusioni fondamentali dell’individuo moderno. Al cuore di questo modello è individuabile la presupposizione dell’individualismo possessivo moderno, cioè di quell’essere proprietari della propria persona di cui parla John Locke nel Secondo trattato sul governo. Pertanto, dietro l’appello a una libertà intesa come assoluta autodeterminazione ed emancipazione dalla dipendenza, si cela un’antropologia individualistica del tutto incapace di pensare un’esistenza collettiva che vada oltre l’illusione di una somma di individualità. La rivendicazione della libertà come fatto essenzialmente individuale, come un’esperienza sottratta a ogni condizionamento e mediazione con la vita collettiva, è modellata sulla base di una grammatica degli affetti e una dinamica psichica dell’individualità interessata unicamente a preservare la propria integrità contro ciò che è percepito come incessante minaccia di disgregazione.

È possibile rintracciare un concetto di libertà indipendente da quella grammatica dei sentimenti propria di una concezione fortemente egologica del soggetto? Riformulare, così, il concetto di libertà al di fuori della sfera razionalista della conferma di sé, dell’autonomia e della giurisdizione di sé, per evitare di pensare a essa come alla libertà di un Io isolato, eccessivamente legato all’entificazione della struttura identitaria dell’individuo?

Una libertà così intesa non può che spazzar via tutti gli impegni e le responsabilità, vale a dire le conseguenze sociali di un’esistenza collettiva – e anzi finisce con il rivolgervisi contro. Pensare un nuovo modello di libertà vuol dire, allora, decostruire l’immagine dell’individuo moderno pensato come persona e proprietà, e dunque la specifica grammatica degli affetti che lo fonda e lo alimenta.

Si tratta di rompere con l’idea classica della libertà come egolatria: l’idea, cioè, che la libertà coincida con l’autoposizione di una soggettività straripante intesa in senso psicologico e razionalistico. Per vedere come, al contrario, l’autonomia del soggetto non sia la giurisdizione assoluta di sé, ma implichi invece una eteronomia dal punto di vista delle forme socialmente date, comprese le forme prevalenti di soggettivazione. Il punto è chiaramente politico: la lettura egologica della libertà vede in essa un prolungamento, anziché un contrappunto, dell’affermazione storica dell’individualità atomistica.

Sarebbe opportuno, allora, sottrarre il concetto di libertà, in tutte le sue forme, all’orizzonte tematico di nozioni come autolegislazione, libero arbitrio, decisione e adesione volontaria a scelte. Il concetto di libertà andrebbe, cioè, distinto da quello attualmente egemone nelle discussioni su autonomia morale e politica, che è segnato interamente dalla tematica appunto dell’autogoverno, dell’autocontrollo e della giurisdizione di sé. Anziché il modello dell’autolegislazione che si costituisce nell’adeguazione assoluta tra la forma della legge e la volontà libera, andrebbe elaborato un modello nel quale la libertà appaia, paradossalmente, come la costituzione di uno spazio in cui può essere messa in discussione la distinzione tra autonomia ed eteronomia, con le sue dicotomie di base tra intelletto e sensibilità, volontario e involontario, individuale e collettivo.

Al modello egologico di libertà è possibile contrapporre uno differente, fondato, all’opposto, sulle categorie di apertura, indeterminazione, de-costituzione, spossessamento: un regime di libertà la cui affermazione presuppone e alimenta l’abolizione di quell’economia psichica basata sull’affermazione della personalità come categoria identitaria, e la cui esperienza rende possibile l’emersione di nuovi soggetti non più fissati alle convenzioni identitarie e alla dimensione del “proprio”. Una libertà pensata non semplicemente come costituzione di nuovi spazi relazionali a partire da deliberazioni non costrette da processi eteronomi, ma come rapporto con ciò che decentra il singolo, apertura a ciò che nega la sua assoluta centralità.

Se l’alterità è già da sempre interna all’io, l’idea di un individuo isolato si rivela un effetto aleatorio, fragile, chimerico. Un’individualità costituita in una modalità negativa o di privazione rispetto alle relazioni, che isola gli uni dagli altri coloro che ne sono portatori, rendendo per essi impossibile, o comunque dolorosa, la vita collettiva. Fatto è che l’individuo, che s’immagina come ego, è sempre già attraversato dall’alter, ma non in quanto alter-ego, anch’esso evidentemente tanto immaginario quanto l’ego, ma in quanto trama complessa di corpi, passioni, pratiche, idee, parole. Si può così vedere come l’isolamento dell’individuo sia esso stesso un fenomeno di relazione e una funzione di un certo tipo di società. Il carattere intrinsecamente relazionale dei soggetti, in altri termini, dimostra che l’individualità isolata è un’apparenza sociale: la singolarità individuale, in realtà, non può essere isolata rispetto alla rete di relazioni con altri individui che la determina, e in cui essa è sempre contemporaneamente attiva e passiva, modificata dagli altri e attiva a modificare gli altri. Quindi, è un paradosso soltanto apparente che il soggetto raggiunga la sua più alta libertà nell’apertura a ciò che lo nega, nell’esperienza di quello che potremmo definire come una eteronomia senza dominio.

Il modello egologico di libertà farà posto, così, alla tematica dell’autonomia come superamento delle dicotomie ereditate da uno specifico regime di sensibilità e, di conseguenza, come avvento di forme peculiari di esperienza del sensibile, in cui i soggetti possano farsi coinvolgere da ciò che sembrava, fino a quel momento, ontologicamente separato dal rapporto con gli individui: possano, paradossalmente, farsi coinvolgere da ciò che li spossessa. Non si tratta, cioè, di un’autonomia come autolegislazione, ma di un’autonomia come l’emersione di un nuovo regime di esperienza dell’ordine sensibile, un regime estraneo e addirittura incomprensibile per la sensibilità irretita nelle determinazioni e rappresentazioni proprie della realtà socialmente condivisa e responsabile della direzione dei processi di riproduzione materiale della vita. È questa esperienza che appare come il germe di una nuova forma di vita individuale e collettiva.

Lungi dal coincidere con il culto di un Io straripante ed esaltato, la libertà appare ora come l’emancipazione del soggetto rispetto alla propria condizione di individuo. Per quanto risulti sempre più difficile pensarlo, si dovrebbe riflettere ancora a lungo su questo nuovo regime di libertà. L’emancipazione non può esser pensata semplicemente in base al paradigma della conquista della maggiore età prodotta dalle possibilità di giurisdizione di sé, ma in base all’emersione di una sovranità legata alla possibilità di una eteronomia senza dominio. Questa libertà sarà legata alla forza sovrana di aprirsi a ciò che è eteronomo, ma che non per questo assoggetta a un rapporto di servitù, poiché in certo modo è già da sempre interno. Questo nuovo regime di emancipazione libera dalla paura del rapporto con l’alterità, eliminando il desiderio di illusioni di autogoverno, con conseguenze decisive per la costituzione di una soggettività politica nella misura in cui produce uno straniamento rispetto alle disposizioni formali e materiali di reiterazione dello stato di cose presente e di sottomissione del rapporto di se stessi al primato dell’identità.

Un’ontologia della relazione

Astrazioni chimeriche di lungo corso forzano la nostra mente a localizzare l’essenza umana o nell’individuo a discapito della comunità – che non sarebbe altro che una costruzione seconda, volontaria o involontaria, contrattuale o abituale –, o nell’essere sociale a discapito dell’individuo – che non sarebbe altro che il prodotto più o meno completamente alienabile o separabile dalla propria origine. La figura logica che struttura queste scelte è quindi un “né… né” che porta sui termini contrari (l’individualismo, l’olismo o il collettivismo), e il problema che ne risulta è sapere sotto quale forma, entro quali limiti, con quale funzione pratica una polarità dovrà essere ricondotta all’altra. La questione, allora, è come pensare un modo d’essere che non si lasci ridurre né all’individualismo, né all’organicismo, e di cui possano beneficare tanto la costruzione di un’antropologia filosofica quanto l’invenzione di una politica che sia, allo stesso tempo, radicalmente democratica (o antitotalitaria) e irriducibile al formalismo giuridico dell’individualismo liberale. È possibile, in altre parole, sfuggire all’antitesi metafisica dell’individuale e del collettivo?

In quest’ottica, è il concetto di transindividualità elaborato da Gilbert Simondon a rendere pensabile la libertà come un’esperienza, al tempo stesso, non rigidamente vincolata a funzioni sociali esterne e non dipendente da una grammatica dei sentimenti propria di una concezione prettamente egologica del soggetto, ma anzi come un’apertura a forze eterogenee non più legata alle illusioni autarchiche di autonomia e giurisdizione di sé. Il concetto di transindividuale diviene allora la parola d’ordine di una politica realmente trasformatrice non più basata sul riconoscimento di individui formati all’intersezione della logica soggetto-predicato e persona-proprietà.

Nel corso delle sue ricerche, Simondon ha fatto del concetto di transindividualità il cardine del proprio sistema, con cui sperava di sovvertire simultaneamente i modi di pensare la natura e la cultura. L’idea del transindividuale, centrata sull’individuazione come categoria ontologica e morfologica universale, applicabile a tutti i generi di essere, ha analogie e affinità con gli obiettivi della trasformazione collettiva, della plasticità delle istituzioni che rimetta in discussione le opposizioni metafisiche tra il regno della necessità e quello della libertà. Per Simondon, contrariamente a quanto previsto dallo “schema ilemorfico” che domina tutta la storia della filosofia occidentale, persino tra i pensatori nominalisti, la forma individuale non è né il fine né il modello sul quale si regolerebbe una formazione dell’individuo. Essa non è che il risultato instabile di un processo che è in sé infinito. L’individuazione, secondo Simondon, occupa un posto intermedio tra un potenziale “pre-individuale”, che essa esprime ma non esaurisce mai, e un superamento “transindividuale” nel quale essa è sempre già impegnata. E d’altra parte essa si deve pensare come lo stato singolare, momentaneo, di una relazione o di un insieme di relazioni, allo stesso tempo interne ed esterne, cui i termini non preesistono, poiché essi stessi hanno bisogno di essere individualizzati. È in virtù di queste caratteristiche, che trasgrediscono l’ordine filosofico stabilito, che è possibile cercare in Simondon un’ispirazione e una conferma del tentativo di sviluppare un modello di libertà né egologico né olistico, basato sul primato della relazione sui propri termini.

Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui Gilbert Simondon giunge a definirne la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione di due tesi filosofiche di estrema importanza, che tracciano una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica occidentale: la tesi del primato del processo di individuazione sull’individuo e quella del primato della relazione sui termini della relazione. La teoria di Simondon del rapporto transindividuale costituisce il momento chiave nel superamento dell’opposizione tra l’individuale e il collettivo, nella forma critica di un’ontologia della relazione né individualista o atomista, né collettivista o organicista: una relazione che pone allo stesso tempo l’autonomia degli individui e la loro dipendenza reciproca.

Alla luce del concetto simondoniano di transindividualità, diventa allora possibile declinare la libertà non più come una riconquista di un bottino perduto, ma come la scoperta di un tesoro in comune attraverso una prassi trasformativa. Una scoperta radicalmente utopica, ma non per questo meno reale, che forza al continuo confronto con esperienze che non possiedono ancora una forma all’interno del tempo reale delle sperimentazioni concrete, configurandosi come la premessa e la promessa di qualcosa che non ha ancora immagine né coordinata d’esperienza: una vita collettiva migliore e più felice, oltre che di una società più giusta.

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