Qualche tempo fa un ragazzo neolaureato in fisica, entrato da qualche mese in una grande azienda, scrisse un post su LinkedIn in cui prendeva atto di come all’università, qualche mese prima, fosse solito occuparsi di integrali e sistemi di equazioni molto complesse sia per la mole di teorie di base coinvolte che per la tecnica di calcolo utile alla loro risoluzione, mentre ora la cosa più difficile che gli era richiesta era saper utilizzare i filtri di Excel.
Quel post mi pungolò come uno spillo, vivendo quotidianamente in prima persona, in quel periodo, la medesima situazione. Ho còlto un’importante opportunità di lavoro prima di concludere la tesi di laurea magistrale, rigettando tuttavia l’idea di concludere il percorso accademico impiegando più tempo del previsto, nonostante la mia nuova condizione di lavoratore. Ed eccomi lì: di giorno, neoassunto, impegnato a confezionare brevi testi di circolari interne, registrare presenze, ritirare la posta; di notte e nei fine settimana, laureando, a discettare di linguaggio commentando i sudati testi di Hegel (in lingua, naturalmente), abituato alla complessità concettuale e di pensiero plasmata in anni di studio filosofico.
Consapevole, ora come allora, dell’inevitabilità fisiologica e della giustificabilità di più di un aspetto concorrente al determinarsi di quella dinamica – soprattutto nei primi mesi –, la forbice di complessità che ero chiamato a gestire nell’una e nell’altra situazione costituiva ciononostante la grande protagonista delle emozioni che si generavano in me vivendo quello scarto tra l’attività diurna e quella notturna, non di rado percependo la prima come una distrazione alla seconda, con la conseguente fatica nell’affezionarmi ad una mansione così lontana, nella pratica, da quelle che erano le mie potenzialità e la mia abitudine alla fatica.
Il salto netto tra l’esperienza universitaria e il lavoro in un’azienda merita, al di là dell’esperienza personale, un’interrogazione più approfondita sui perché che lo generano, consapevoli del fatto che il problema non riguarda purtroppo soltanto la fase di entrata in azienda, ma sovente anche il permanere delle giovani risorse all’interno di essa. Un discorso, quindi, che coinvolge il mondo del lavoro nel suo complesso.
Praticamente tutte le grandi aziende oggi richiedono come requisito di candidabilità, indipendentemente dalla posizione offerta, un percorso di laurea, andando poi a scremare i curricula che giungono ai selezionatori sulla base dei tempi, del grado dei voti, delle esperienze all’estero, delle lingue conosciute, delle esperienze “extra curricolari” che le candidate e i candidati possono esibire al termine del loro percorso di studi. In sostanza, il neolaureato che vuole essere appetibile al mondo del lavoro, soprattutto se è privo di esperienza, deve avere alle spalle almeno un percorso di studio eccellente, perché questo è quello che nella pratica ricercano le aziende. Il paradosso è tuttavia insito nella domanda: le aziende sono consce della responsabilità che deriva nel portare a bordo soltanto eccellenze? Un’azienda non vive di soli talenti, non ha bisogno esclusivamente di essi per funzionare come organizzazione, anzi. Il problema si genera pertanto dal momento che, se da un lato questo sistema richiede soltanto laureati di livello, dall’altro non riesce a fornire loro un lavoro per cui si richiedano effettivamente quell’eccellenza e quelle qualità che la persona ha coltivato e maturato con il lavoro di anni. «In Italia» riporta Andrea Donegà nel suo articolo presente su questo numero di P&L, «si finisce per assumere laureati laddove la laurea non servirebbe, creando frustrazione tra i laureati stessi».
Oltre alla mansione che gli viene affidata, il giovane laureato in azienda si scontra inoltre con un limite storico-culturale che impatta sulla sua gestione come risorsa: il fatto che la bravura poggi fondamentalmente sull’esperienza acquisita – e che solo mediante essa si arrivi effettivamente a posizioni di responsabilità e si abbia accesso ad un certo tipo di premialità. Mediamente infatti non si riesce nemmeno a concepire (quanti degli attuali top manager era un/a neolaureato/a eccellente?) una posizione adatta ad un talento del tipo tratteggiato all’interno dell’impresa; ciò accade in Italia, molto meno di quanto non avviene all’estero. I requisiti richiesti in modo così ingiustificatamente alto in ingresso, inoltre, sono utili quasi esclusivamente per arrivare ad avere la possibilità di giocarsi l’entrata in azienda: una volta dentro si parte da zero, dall’essere l’ultimo arrivato. La serietà e l’eccellenza con cui la risorsa ha affrontato il suo percorso universitario non colmano affatto e troppo poco vengono presi in considerazione – anche solo come potenzialità ad apprendere! – nel momento in cui quella persona viene gestita. Ciò che conta è quel che viene maturato dentro a quel contesto, non quel che si è fatto fuori di esso, nonostante sia il motivo esatto che porta la persona ad essere lì.
Lungi dalle intenzioni dell’autore leggere queste righe come una richiesta di un “tutto subito” al quale i giovani dovrebbero accedere di diritto: ciò che si tenta di portare all’attenzione è la difficoltà di concepire e realizzare nei fatti che non soltanto l’esperienza sia la fonte della possibilità di conoscere le dinamiche di una determinata mansione e realtà organizzativa e che non soltanto essa lo sia di poterle dominare. L’inesperienza di una risorsa neolaureata che entra in azienda è reale e va rispettata in quanto tale. Ci si deve interrogare sulla risposta che si dà a quell’inesperienza: se essa può essere colmata soltanto con gli anni che si hanno davanti, diventa difficile riuscire a mantenere in azienda una giovane che si è assunta chiedendole di essere così brillante in fase di selezione. L’inesperienza non è una malattia da cui si guarisce contando il tempo che passa: ci hanno sempre insegnato che lo studio è quello strumento che permette di imparare ciò che l’esperienza ha insegnato ad altri. L’appello dovrebbe tradursi pertanto in una richiesta di condivisione trasparente del sapere depositato e in un conseguente rifiuto della retorica manageriale del “guardami e rubami il lavoro”, per la quale la competenza vera, il metodo di lavoro, il processo decisionale del capo non vengono invece volutamente condivise per motivi diversi, sovente riconducibili a fragilità e paura di delegittimazione. Questo atteggiamento non può che generare, all’opposto delle intenzioni, un parricidio.
Lo stato dell’arte ci restituisce quindi un problema generazionale? È pur vero che la generazione di chi oggi è top manager ha mediamente, in Italia, piuttosto un diploma che una laurea, com’è vero che non si può chiedere a qualcuno che arriva a maneggiare un certo sapere e una certa complessità dopo 30 anni di esperienza lavorativa di riuscire a concepire che lo strumento razionale del neo assunto potrebbe consentirgli di impugnare quella complessità nel giro di pochi anni, se solo gliela si desse da masticare. Non è questo, credo, quanto piuttosto il dato di fatto culturale per cui – ed oggi è ancora così – una persona costruisce lo “zoccolo duro” della propria istruzione studiando fino al traguardo convenzionale (la terza media, il diploma, la laurea, …) e poi poco o nulla. Nei casi più virtuosi troviamo professionisti che hanno svolto programmi MBA, Master o Executive, quasi sempre più su impulso personale che non come sistema messo in atto dalla cultura aziendale in cui il singolo presta la sua opera. La riflessione andrebbe allargata alla formazione continua che le persone dovrebbero incontrare in azienda e/o all’interno di quello che viene definito sistema Paese: cosa c’è per un adulto professionista oltre all’aggiornamento tecnico? Che opportunità ci sono, fuori dell’iniziativa personale, perché una persona si emancipi e cresca fuori dal periodo scolastico dell’adolescenza e dei primi anni di vita adulta? Cosa facciamo a livello di sistema per fornire gli strumenti critici, per consentire a tutti di attingere alle miniere delle letterature, scientifiche e umanistiche? Come mettiamo le persone nelle condizioni di poter fare anche altro – o soltanto di immaginare altro? Come coltiviamo, se le coltiviamo, le immense eccedenze di cui ciascuna persona è capace?
La domanda apre a scenari immensi; il punto, riguardo al nostro problema, sembra essere questo: non possiamo permettere, in generale, che un manager possegga soltanto la sua esperienza lavorativa e che il suo sapere effettivo gli derivi per la quasi totalità da ciò.
Tutti gli elementi analizzati sin qui si traducono in un panorama lavorativo che agli occhi dei giovani genera frustrazione, disincentivo al lavoro e disaffezione. Leggendo i dati che fotografano la situazione attuale dei laureati under 30 che lavorano ci si trova davanti a tassi di turnover altissimi e soprattutto con un cambiamento velocissimo del modo di concepire il lavoro, che sempre più è sentito esclusivamente come un mezzo, un’attività/un luogo di cui fruire per il proprio sostentamento. Perché il lavoro tuttavia sia realizzazione e dignità dev’esserci l’incontro tra la dinamica personale di vocazione e inclinazione dell’individuo con quello che realizza lavorando, tra l’impiego del giorno e l’occupazione notturna sopra richiamate. Terribili sono già, su larga scala, gli effetti della gestione in atto e dei suoi riferimenti culturali.
Da dove partire, quindi, per un cambiamento tangibile? Dall’alba e dal crepuscolo.