Qualche anno fa fui colpito da una notizia che fece il giro del mondo: a Barletta nove laureati, tra cui uno con lode in ingegneria, si sono aggiudicati 9 dei 13 posti da operatore ecologico presso una società municipalizzata. Certamente, ogni lavoro ha la propria dignità e valore sociale, ma questo è l’esempio plastico del lockdown del sistema formativo e di un paese che non punta sui giovani, che non investe in istruzione e che non valorizza i talenti, condannandosi a invecchiare, a veder partire i propri figli e impoverirsi non solo economicamente ma anche socialmente e culturalmente. L’educational mismatch, ovvero lo scollamento tra il mondo della formazione e il mondo del lavoro, è il prodotto del disallineamento della preparazione offerta dalle scuole con le esigenze professionali delle imprese e del ritardo di molte nostre aziende nel raggiungere un livello di innovazione tale da poter accogliere le alte professionalità. In Italia si finisce per assumere laureati laddove la laurea non servirebbe, creando frustrazione tra i laureati stessi che si sentono sotto qualificati rispetto al proprio percorso di studio che viene percepito come inutile e che, quindi, può essere tranquillamente abbandonato; dall’altro lato, lo Stato si stente legittimato nello smettere di investire in istruzione e formazione; i pochi laureati, e i migliori, vanno all’estero. L’Italia, con il suo 28% di laureati tra i 25 e i 34 anni, contro il 47% della media Ocse, è l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi sul debito pubblico supera quella per l’istruzione. Un paese che produce pochi laureati, e da cui i laureati emigrano, è un paese che ne produrrà fisiologicamente meno e da cui i laureati stessi emigreranno sempre più. Un deserto intellettuale che tiene alla larga gli investitori, esteri e non, facendoci accumulare ritardi in tecnologia e innovazione rispetto agli altri paesi industrializzati. Quanto maggiore sarà questo gap tanto minore sarà il bisogno di avere figure professionali ad alta scolarizzazione. E meno ne avrà bisogno, meno ne formerà, o investirà per formarle, sapendo che una volta formate se ne andranno. Un corto circuito totale che rischia di far calare il sipario sul nostro futuro. In più, la spesa pensionistica netta è di gran lunga superiore a quella destinata alla scuola. Le cause del nostro inverno demografico vanno ricercate anche in questi numeri che ci dicono, chiaramente, di quanto continuiamo a investire sugli anziani, facendo tirare la cinghia ai giovani in nome di un patto intergenerazionale che assomiglia, sempre più, a una Fata Morgana nel deserto. Il PNRR deve essere un’occasione per ridare peso e protagonismo alle giovani generazioni, continuando ad assicurare il diritto a vivere una vecchiaia felice ai nostri anziani. Non ci stupisca, altrimenti, che tra il 2008 e il 2018 250 mila giovani, tra i 15 e i 34 anni, abbiano lasciato l’Italia, bruciando anni di investimenti scolastici e rinunciando a 16 miliardi di potenziale valore aggiunto. Se guardiamo il Rapporto Italiani nel Mondo 2021 il trend non si è modificato, dimostrando che lo scenario è ormai strutturale. Al 1° gennaio 2021, la comunità italiana residente all’estero è pari a 5.652.080 connazionali, il 9,5% degli oltre 59,2 milioni residenti in Italia. Negli ultimi sedici anni i cittadini italiani che hanno oltrepassato il confine sono aumentati dell’82%. Nel 2021 si sono iscritti all’Aire 46.856 italiani tra i 18 e i 34 anni, pari al 42,8% del totale dei nuovi residenti all’estero, a conferma che il nostro non è un paese per giovani e che continuiamo a regalare ad altri le nostre migliori energie. Da anni ormai è caduto il falso mito che a emigrare siano soprattutto i nostri connazionali del Sud visto che, dopo la Sicilia, è la Lombardia a lasciar partire il maggior numero di persone. Inoltre, una ricerca promossa dal Laboratorio di Ricerca Sociale del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina con la collaborazione di Sapienza Università di Roma registra che la pandemia ha infranto i sogni degli immatricolati appartenenti a famiglie di classe media che desideravano iscriversi in un’università fuori sede. L’incertezza e il timore dovuti al Covid-19 hanno fatto propendere le famiglie a ridurre le distanze e i costi dello studio universitario, complice le possibilità che si sono aperte grazie allo studio a distanza. Un altro scatto nella divaricazione delle disuguaglianze del nostro paese.
Un quadretto che deve porci qualche interrogativo profondo se pensiamo ai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Il World Economic Forum quando sostiene che il 65% dei bambini che hanno iniziato le elementari nel 2017 avrà un’occupazione di cui, oggi, non conosciamo nemmeno il nome, ci da l’idea dei grandi cambiamenti che stanno già investendo il mondo del lavoro. Non possiamo pensare di presentarci all’appuntamento con il futuro in queste condizioni, con una lacerazione totale tra mondo della scuola e mondo del lavoro. Oggi i cambiamenti in atto sono molto più radicali e veloci rispetto al passato. Nei luoghi di lavoro si è già, da tempo, cambiato il modo di produrre: esoscheletri per rendere il lavoro meno faticoso; cobot, ovvero robot collaborativi; dispositivi warable; realtà aumentata e virtuale. Questi cambiamenti si basano, sostanzialmente, su tecnologie che noi già conosciamo e con cui abbiamo molta dimestichezza come, ad esempio, smart phone, smart watch, tablet. Per capire di ciò che parliamo, familiarità e velocità, bastino questi due esempi: Charles Duke, che guidò nel ’72 l’ultimo allunaggio con la missione Apollo 16, disse, a distanza di anni, che il computer a bordo del modulo lunare aveva la stessa potenza di calcolo del blackberry che aveva in tasca all’epoca dell’intervista. E ancora, la sonda New Horizons, che recentemente fotografò Plutone, utilizzava lo stesso processore della prima playstation lanciata anni prima, nel 1994.
Questi cambiamenti tecnologici hanno già iniziato a produrre cambiamenti organizzativi nel mondo del lavoro: si è passati dal lavoratore massa, alla creatività e programmazione; dalla grande produzione di massa alla grande personalizzazione di massa; dalle basse competenze alle elevate competenze; dagli orari e spazi fissi allo smartworking (con ripercussioni che, inevitabilmente, arriveranno anche sul riconoscimento della prestazione lavorativa: oggi un lavoratore è pagato per il numero di ore lavorate; domani sarà pagato sulla base di un mix che prevede sempre le ore ma, anche e soprattutto, la valorizzazione del progetto e dell’autonomia e responsabilità).
È chiaro che, in questo quadro, dovrà assumere un ruolo centrale la scuola e la formazione che tornino soprattutto a insegnare ai giovani ad apprendere, preparandoli a un mondo in cui, appunto, l’apprendimento continuo dovrà essere il tratto distintivo. Investire sul lavoratore e sul cittadino è la sfida per costruire un modello diverso di società. La conoscenza, infatti, è alla base delle società evolute, che progrediscono. Per far ciò è necessaria una grande alleanza tra scuola, enti di formazione, università, ricerca e corpi intermedi tutti. Oggi nessuno si occupa del ciclo di vita delle competenze del capitale umano, senza cui non c’è futuro per l’industria, che saranno il nuovo fattore di competitività delle imprese, unitamente alla valorizzazione dei giovani high skill, tanto dal punto di vista retributivo che di carriera, fermando la fuga all’estero verso chi quelle abilità le sa attrarre e valorizzare.
Occorre avere molta consapevolezza di quanto sta già accadendo perché, oggi, siamo di fronte a un’ulteriore accelerazione, quella che Richard Baldwin chiama Rivoluzione Globotica dove per globotica si intende il mix tra una nuova forma di globalizzazione e nuova forma di robotica fondata su Intelligenza artificiale e Intelligenza Remota.
Dovremo essere capaci di analizzare i cambiamenti in atto e intervenire per tempo. Più la capacità di analisi e previsione sarà affinata e tempestiva e minore sarà il gap di tempo e velocità tra il dislocamento e la creazione di nuovi posti di lavoro. in questo scenario sarà decisivo giocare la sfida a livello europeo costruendo un’Unione Europea capace di essere centro regolatore, immaginando complementarietà tra politica estera e politica industriale e ragionando, in entrambi i casi, con questi confini e non più nelle mura domestiche. Un’Unione Europea che giochi un ruolo fondamentale anche nella conquista dell’indipendenza tecnologica e nella capacità di mantenere il controllo delle tecnologie indispensabili per lo sviluppo, recuperando i ritardi sui settori del futuro: batterie al litio per auto elettrica, auto autonoma, IA, innovazione medicale, reti digitali, IOT, cyber-security. Se guardiamo ai dati che ho citato prima, non possiamo fare a meno di pensare che l’Europa dei cittadini è già viva. A titolo di esempio, la mia è una famiglia europea: Matteo, mio fratello, dopo aver vissuto e lavorato a Cambridge per dieci anni, ora vive con sua moglie, la francese Anne Laure, conosciuta in Inghilterra, a Village Neuf, nel dipartimento dell’Alto Reno in Francia; Mauro, mio cugino, risiede a Ginevra con il bimbo Luca avuto con Silvia, spagnola; Chiara, mia cugina, nel settembre scorso è partita per l’Erasmus ad Amsterdam. L’idea di Europa è viva e praticata, normale. Le giovani generazioni sono nate in Europa, senza dazi, senza mura, con un welfare universale, protette dall’euro e in pace. Un lusso per chi è stato premiato dalla lotteria della nascita, un’eredità da custodire e rinnovare ogni giorno e, se possibile, da migliorare. E tocca proprio alle giovani generazioni costruire il futuro che dovranno abitare. In fondo è sempre stato così, specie nei passaggi più delicati della Storia. Nel dopoguerra i trentenni, che allora erano il 50% della popolazione italiana, furono protagonisti del miracolo economico pur avendo meno possibilità di oggi. La tecnologia può essere la grande alleata per guidare la transizione verso un’Europa attenta all’ambiente, all’efficienza energetica, alla mobilità sostenibile, all’economia circolare, rilanciando la produttività nei vari stati e creando nuove occasioni di lavoro. Importante diventerebbe anche rivitalizzare l’Erasmus e potenziare l’offerta per i giovani che vogliono lavorare all’estero. Padre Antonio Loffredo, il parroco che ha ridato futuro al Rione Sanità di Napoli, per formare i giovani, protagonisti della rinascita del quartiere, ha favorito le loro esperienze in città e capitali europee, ripercorrendo il modello di Don Lorenzo Milani.
In mezzo a due colossi come Stati Uniti e Cina, e nel mare dei cambiamenti epocali che viviamo, i singoli paesi europei non possono pensare di poter competere singolarmente né di farcela da soli. L’Unione Europea è l’unica alternativa e l’unica via per poter mantenere e migliorare benessere e lavoro.
L’Europa, infine, è anche la chiave per gestire in modo virtuoso il tema delle migrazioni dando risposta a chi legittimamente cerca la propria occasione di vivere una vita dignitosa e, contemporaneamente, prospettiva all’invecchiamento demografico, consentendoci di tutelare l’universalità del nostro welfare e di liberare energie e protagonismo dei giovani perché l’Europa sia ciò che era nell’idea dei suoi fondatori, un modello e un’esperienza viva di cittadinanza e una culla di opportunità, dentro la quale ognuno si faccia carico dei problemi dell’altro trasformandoli in una riscossa verso il futuro.