Ad un vecchio professore – ormai prossimo alla pensione- abituato alla lavagna, al gesso e al cancellino, due anni di didattica a distanza quali riflessioni inducono? E, poi, quale didattica a distanza: quella “asincrona” o quella “sincrona”?
I due termini del nuovo burocratese nato con la pandemia significano semplicemente, e rispettivamente, la lezione videoregistrata e immessa in rete a disposizione degli studenti che possono così seguirla quando loro aggrada; e la lezione in diretta video cui assistere da dove si vuole grazie a un collegamento telematico.
Ho sperimentato entrambe le modalità e credo di averne ora qualche opinione più precisa di quella che mi ero formato all’inizio, quando la mia esperienza di didattica era solo asincrona e da fruitore, limitata alla frequentazione – devo sottolineare per me molto proficua- dei programmi erogati da anni da alcuni grandi atenei statunitensi, dalla Federico II e dal Politecnico di Milano.
Nel mettere mano alla mia didattica a distanza, avvertivo però anche io, già da tempo, le condizioni critiche che a molti appaiono come un “collasso” della formazione culturale dei giovani, connotato da alcune ben note, ampiamente descritte e dibattute caratteristiche. Ora anche io- dopo l’esperienza biennale dell’insegnamento telematico- non posso non constatarne la consistenza.
In tale direzione, paiono accentuarsi tra l’altro: le difficoltà ormai generalizzate di comprensione e riesposizione di un testo appena concettualmente elaborato e sintatticamente articolato; la sempre più scarsa o nulla dimestichezza con il ragionamento ipotetico-deduttivo e con la esposizione ordinata consequenziale e grammaticalmente corretta di un discorso, di un’opinione, di una riflessione ; la mancanza di nozioni storiche e geografiche e, più in generale, di senso storico, il tutto in un processo di irreversibile destrutturazione dei modi e delle forme di trasmissione del sapere che a molti appare come una delle manifestazioni evidenti della de-razionalizzazione della vita sociale contemporanea.
A tanto, di proprio, posso solo aggiungere quanto osservo, oggi rafforzato, da oltre un decennio, dal mio ristretto angolo visuale ( il Trentino e, prevalentemente, i recessi del Veneto montano) : l’assenza, tra i miei allievi di qualsiasi senso di appartenenza ad una impresa culturale collettiva e la percezione, quindi, dell’Università come luogo di erogazione di un servizio e non di incontro tra generazioni, di socializzazione e di partecipazione, per il tramite della trasmissione del sapere, ad una fondamentale e insostituibile esperienza civile.
Alle circostanze che ho appena richiamato contribuisce di certo l’ambito nel quale si svolge la mia vita universitaria – ambito tradizionalmente poco incline alla comunicazione e all’incontro interpersonale per antichi retaggi antropologico culturali e di lontananza da contesti metropolitani- ma anche la trasformazione della vita accademica che in atenei privi di grandi tradizioni accelera molti dei processi che erodono le forme consolidate dell’insegnamento universitario e, quindi, dei rapporti tra docenti e discenti.
Ne segue, che questo modello culturale adeguato ai tempi è totalitario: non si affianca semplicemente a quelli tradizionali, ma li sostituisce completamente. Inoltre, “il rovescio di una acculturazione aggiornata ai tempi è l’oblio”, che si traduce, come detto, nella allarmante assenza nei giovani di senso storico.
La didattica a distanza ha, infine, per quello che sperimento, ulteriormente contribuito ad una tendenza che vede l’educazione e l’istruzione sempre più conformarsi impropriamente alle attività di formazione e, peggio, virare verso la divulgazione.
Fin qui le mie constatazioni di fatto.
Alla ricerca però di risposte e di una conclusione, ripeto tra me e me un vecchio insegnamento mai smarrito- il mio permanente grimaldello ermeneutico- cioè, che la base materiale determina la sovrastruttura e che i processi culturali che ne sono il riflesso vanno analizzati su prospettive ampie, di lunga durata, cercando di individuare le linee di tendenza e gli orizzonti verso i quali questi processi tendono ad assestarsi. Se l’attuale è un tempo che ci appare di destrutturazione di pratiche e di rapporti sociali, di metodi e contenuti delle conoscenze, in una parola, di alienazione e di ideologia ( come falsa coscienza), di smarrimento ed incertezza dei saperi e del sapere, è, poi, anche vero che un nuovo equilibrio verrà raggiunto ed esso non necessariamente sarà regressivo o peggiorativo rispetto al passato più o meno recente.
Ma io, anche se non “addottorato con soli mezzi letterari”, non sono in grado di delineare questi equilibri futuri: non sono però pessimista, sono solo ignorante!