Nel corso degli ultimi 10 anni ho studiato, vissuto e lavorato in contesti molto diversi tra loro: Milano, Londra, Venezia, Roma, Kuwait city, Principato di Monaco e Val di Non.
Forse il momento più formativo è stato vivere e lavorare in Kuwait. Non nego che prima della partenza mi sono fatto le stesse domande che poi, al mio rientro, mi sono state poste quando ho raccontato la mia esperienza: come può essere lavorare in un contesto apparentemente diverso e in contrasto con tanti valori che appartengono alla cultura occidentale? Come si può adattare l’attitudine lavorativa che appartiene alla nostra società con quello che invece caratterizza il Medio Oriente? La lista di quesiti sarebbe infinita.
Sono partito con una valigia carica di camicie in lino e pregiudizi.
La verità è che, nonostante io abbia rilevato alcune diversità, tante sono state le occasioni in cui mi sono reso conto che queste non sono poi così considerevoli, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni. La mia sensazione è che le differenze siano una sorta di sovrastruttura della realtà che si incontra nei vari paesi in cui ho vissuto: più si restringe il focus dell’attenzione sulle giovani generazioni più la difficoltà nell’identificare queste differenze aumenta, o meglio la rilevanza di queste differenze diminuisce.
Chiaramente il mio discorso si rifà all’ambito strettamente lavorativo che ho potuto conoscere, diverse sarebbero le tematiche da affrontare riguardo i grandi problemi sociali che caratterizzano il Medio Oriente, ma è un approfondimento che poco concerne lo scopo di questo articolo. Dire che si percepisce la distanza tra le infinite possibilità tecnologiche, un’attitudine proiettata all’innovazione e certi incastri cultural-religiosi è un eufemismo, ma come già detto il tema non è questo.
Appena sono arrivato in Kuwait il mio atteggiamento, a posteriori quantomeno superbo, mi suggeriva delle semplificazioni che partorivano dei giudizi da cui era difficile liberarsi.
Ora considero quasi imbarazzante quella fase.
Il modo in cui è composta la società, la cultura, la storia, i sistemi economici del paese, il rapporto con gli stati vicini, la religione, il cibo, il consumo di alcolici, solo per citarne alcuni, sono completamente diversi. Lo sforzo per comprenderli è un esercizio che raramente mi era stato chiesto di fare, accettarli una missione quasi impossibile.
Siamo abituati a rinsaldare i rapporti lavorativi anche grazie alle uscite sociali fuori dall’orario d’ufficio, ma questo, in ecosistemi mediorientali, sembrava quasi impossibile, essendo il rapporto con l’alcol, con l’altro sesso, con le altre generazioni e con le comunità locali molto diverso da come viene inteso in occidente. Pensavo fosse quindi difficile trovare le situazioni sociali tipiche della nostra cultura, aumentando la difficoltà nel relazionarsi con gli altri.
L’esercizio mentale che ho dovuto fare è stato complesso: è stato necessario abbandonare il pensiero che aveva caratterizzato fino ad allora la mia idea di socialità per adattarmi a nuove vie, molto diverse da quelle che fino ad allora avevo percorso. Ho così scoperto altri linguaggi, altri luoghi e altri modi per arrivare allo stesso fine: la socialità e l’apertura, che non erano poi territori così impenetrabili quanto mi avevano descritto. Questo esempio, che sembra così semplice, è stato per me illuminante perché fa capire cosa accade quando ciò a cui siamo abituati non è presente in un altro contesto, caratterizzato da regole diverse che si ripropongono sia a livello sociale che a livello più generale.
Mi ha colpito molto la considerazione che i miei superiori e colleghi avevano nei confronti della professionalità, della formazione e delle esperienze altrui, che fanno nascere una propensione all’ascolto a cui non ero abituato. Ne sono rimasto ammirato. Normalmente, in contesti occidentali, per raggiungere una posizione tale da potersi sedere al “tavolo delle decisioni” viene richiesto molto più tempo, molto più sacrificio ma forse, e soprattutto, molti più anni sulla carta d’identità. In Kuwait invece, in ambito lavorativo, una volta comprese le regole culturali con cui ci si relaziona con gli altri, il contributo determinato da una sensibilità così lontana dalla loro viene enormemente ascoltato. Ho visto molti professionisti infrangersi contro il muro della poca propensione a trovare il giusto compromesso tra linguaggio, visioni, cultura, religione, dress code, modalità di presentarsi, ordinare al ristorante o scegliere di trattare o non trattare alcune questioni. L’intraprendenza rumorosa che spesso in occidente è suggerita in quel contesto non era assolutamente un pregio. La preparazione e la discrezione sì.
In quell’ambiente i concetti che noi consideriamo universali cambiano molto e regalano una prospettiva completamente diversa: i costrutti di famiglia, di matrimonio, di ricchezza e posizione sociale, la posizione della donna sono sistemi che non possono prescindere dall’essere osservati da vicino, in profondità e con prudenza. Una volta dimostrata questa volontà le possibilità di integrarsi, vivere e lavorare sono infinite. Le divisioni che esistono tra il privato e il lavorativo sono molto importanti ed è fondamentale tenerle sempre in considerazione se si mira ad un’integrazione professionale costruttiva.
Questi esercizi mentali sono stati utili non solo a posteriori, per dare una risposta alle difficoltà nell’integrarmi in altri ecosistemi, ad esempio quello veneziano dove non sono riuscito a conoscere così in profondità gli aspetti veri della piccola comunità di residenti con cui ho tentato invano di mescolarmi per lungo tempo, ma anche a preparare al meglio la mia successiva esperienza lavorativa nel Principato di Monaco dove convivono diverse realtà che tendono ad isolarsi e escludersi vicendevolmente. Quest’ultimo aspetto l’ho ritrovato e lo ritrovo in tutti gli ambienti in cui ho vissuto e lavorato. Se accorgersene è faticoso, viverlo lo è ancora di più ma tentare di comprendere e trovare una soluzione a questa rigida eterogeneità di pensieri e approcci culturali credo sia l’unica via per immaginare il mondo del domani.
Tornando a casa, in Trentino, ho compreso che le difficoltà sul piano lavorativo sono più o meno le stesse, e non riguardano gli strumenti, le tecnologie, le possibilità ma le persone e il loro mindset che limita le prospettive.
Mi rendo conto che mettere in discussione modelli che hanno arricchito così tanto e così velocemente questo tessuto sociale sia un azzardo ma l’attitudine, la comprensione delle differenze, delle fragilità e l’elasticità di pensiero che mi sembra di vedere nella mia generazione e ancor più in quelle successive sono a mio giudizio fondamentali per pensare alla costruzione del domani a partire dall’oggi, unendo l’esperienza acquisita dalle generazioni passate.
Sono ottimista.