Intervista a Michela Morandini-Consigliera di Parità della Provincia Autonoma di Bolzano.
Abbiamo avuto l’opportunità di leggere un’intervista a Michela Morandini nel numero di luglio 2020 di Passion&Linguaggi nel quale si parlava delle fatiche che, soprattutto le donne, hanno vissuto durante la pandemia, un ruolo che è stato sovraccaricato di questa di questa situazione critica e soprattutto ci si è trovati poi a dover fare i conti con una grandissima sofferenza e una pesantezza anche di vissuto personale e relazionale.
La redazione in questi mesi ha continuato ad osservare questo tema e soprattutto come si sta evolvendo la situazione, in particolare nel mondo del lavoro, ed è per questo motivo che abbiamo deciso di riprendere il dialogo chiedendo a Michela Morandini di ripercorrere questi mesi da un punto di vista strategico ed esperienziale quale il suo. La situazione che si sta prospettando oggi è una situazione abbastanza preoccupante ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare il numero di gennaio al tema della precarietà. Si sta assistendo a un fortissimo fenomeno di persone che decidono di sospendersi o che decidono di abbandonare il mondo del lavoro perché non stanno bene e ci sono persone che effettivamente si stanno interrogando su quale può essere il futuro del lavoro, soprattutto per le donne.
Molti di questi cambiamenti sono descritti in maniera chiara nell’ultimo libro di Richard Baldwin, La rivoluzione globotica. Globalizzazione robotica e futuro del lavoro, recensito su questa rivista in Bazar della mente del numero di settembre 2021. Dopo un esame di realtà documentato e sconvolgente, Baldwin chiarisce con dati e argomentazioni molte cose che intuiamo e viviamo da qualche tempo sul cambiamento in atto nelle nostre società e nelle nostre economie. Una misura ce la danno le professioni del futuro che, oltre l’intelligenza artificiale (IA) e l’intelligenza remota (IR), saranno tali da richiedere le capacità specificamente umane. Nelle attività in cui è decisiva la capacità di convincere le persone a lavorare le une con le altre, coinvolgendo l’intelligenza sociale, in cui l’IA è inadatta, laddove le cose devono essere fatte bene, nonché dove è necessario stabilire un rapporto personale, di fiducia e motivazione, dove l’IR (intelligenza remota) non è applicabile, in tutte queste e in altre occupazioni sono richieste competenze ad alto livello di percezione e manipolazione, intelligenza creativa e intelligenza sociale. Questa sembra la nuova frontiera del lavoro ed è urgente rendersene conto prima possibile.
La prima domanda che pongo a Michela Morandini è legata proprio alla riflessione su come si sono create queste situazioni di precarietà, e se in qualche modo la pandemia ha avuto effetti decisivi oppure se la situazione era già presente prima di Covid19.
Sicuramente se vogliamo iniziare una riflessione così dobbiamo parlare di tipologie di lavoratrici e faccio riferimento a persone che lavorano in aziende con più di cento collaboratori. Dopo la pandemia abbiamo ricevuto un quadro che si conosceva in quanto il precariato, a livello nazionale, è presente soprattutto in persone che hanno un basso livello culturale. In Alto Adige a questo si aggiunge anche la conoscenza della seconda lingua, il tedesco. L’aspetto che dobbiamo tenere in considerazione però è che anche prima della pandemia le donne occupavano in numero più elevato posti precari, poco tutelati e a tempo determinato. Basti pensare ai lavori nel mondo del sociale, alle badanti, ai lavori di cura. Sicuramente una cosa che rende difficile la situazione è la presenza dei figli per cui non è prevista una opportuna flessibilità al lavoro. Ora la situazione per le donne è un po’ cambiata, esiste un mercato molto attivo e tuttora esiste una quota di partecipazione lavorativa all’incirca del 67%, mentre a livello europeo la media è del 65 % per cui siamo sicuramente di fronte ad un dato incoraggiante. Se però guardiamo al dato qualitativo le donne lavorano spesso in occupazioni meno retribuite, ad esempio nel settore turistico e quindi in lavori stagionali dove le forme di precariato sono molto diffuse, e durante la pandemia è uno dei settori che ha sofferto maggiormente.
Mi viene in mente a questo proposito la questione dello smart working che poteva essere considerata una nuova frontiera del lavoro; si è però arrivati a relegarlo a forme che, nella maggior parte dei casi, hanno portato ad aggravare ulteriormente il mondo del lavoro. Lo smart working prima è stata per molti una necessità e una conditio sine qua non per riuscire a lavorare anche da casa. Ne abbiamo percepito tutti i benefici per uno stile di vita che poteva avere caratteristiche diverse da quelle alle quali eravamo abituati. Anche a livello di traffico e di congestioni nelle ore di punta si sono visti i benefici alle classiche modalità degli orari e della presenza fisica in ufficio verso un’alternanza che poteva essere sfruttata molto meglio.
La perseveranza di una situazione che non ha visto un’implementazione e un pensiero legato ad un nuovo modo di lavorare, bensì ha creato tensioni e fatiche che nel corso dei mesi si sono accumulate creando un disagio notevole, ha avuto delle ricadute anche nella dimensione relazionale in quanto sono venute totalmente a mancare i contatti con i colleghi e con le situazioni di confronto e di scambio all’interno del contesto lavorativo. Possiamo considerare anche questa una precarietà?
Sicuramente sono d’accordo con te che abbiamo perso, e stiamo perdendo tuttora, la possibilità di un cambiamento di cultura lavorativa e questa è la cosa più importante. Sto partecipando anche ad un gruppo romano nel quale analizziamo la questione dello smart working e abbiamo la certezza che abbiamo perso una grande opportunità. Sono stati presi in considerazione anche i limiti di questa questione e lo smart working poteva essere un’opportunità se fossero stati offerti i servizi e condizioni adeguati.
Riguardo alla precarietà, se guardiamo i dati sicuramente le donne spesso non sono collegate all’amministrazione, lavorano nei settori della cura o sociali e quindi non possono fare smart working, perché si tratta di lavori principalmente manuali, non di grandissimo spessore, nei quali non ci vuole una particolare preparazione. Chi si è trovato a doverli fare ha anche un minimo di formazione ma non risulta sufficiente. I precari che vengono da me anche in consulenza sono comunque delle persone che spesso fanno dei lavori manuali o lavorano nel sociale e nel terzo settore, dal magazziniere alle addette alla cassa.
Questi lavori anche durante la pandemia non sono stati considerati e quindi non tutelati nonostante siano stati lavoratrici e lavoratori esposti a rischi di salute e, nella maggior parte dei casi, lavoratori e lavoratrici precari. Pensiamo ai corrieri, nonostante non siano presenti molte donne, che durante la prima fase sono risultati fondamentali per consegnare nelle case beni, sicuramente non considerati di primissima necessità.
Non è stata fatta una riflessione su queste professioni, non è stata fatta ed è un grave segno di irresponsabilità civile. Ci sono moltissime professioni che hanno reso possibile e hanno agevolato una certa quotidianità.
Se si pensa sono quelle categorie che non possono permettersi di essere sospesi se sono a tempo determinato. A questi livelli stiamo dimenticando le fasce deboli, e anche nel piano di resilienza e di ripresa, si lascia uno spazio enorme tra chi ha profili di alta formazione e le fasce più deboli, formate da persone meno formate. Questo mi preoccupa moltissimo… .
Abbiamo quindi perso una grande opportunità di riflettere su come potevamo fare per vivere questo grande cambiamento di cultura lavorativa, un cambiamento che doveva avvenire sicuramente anche a livello dirigenziale.
Ci sono due aspetti che vorrei sottolineare sulla questione dello smart working. Il primo riguarda il benessere che poteva essere valorizzato tenendo una dimensione di lavoro più agile se studiato come nuova frontiera lavorativa.
C’è una questione invece più delicata che a mio parere ha fatto emergere la pandemia a proposito delle modalità di lavoro e dello smart working che è legata al concetto di fiducia dell’altro nel lavoro. I dirigenti da un giorno all’altro richiamano in ufficio i propri collaboratori, come se si avesse la certezza che una persona in ufficio lavora di più e lavora fattivamente. Questo è una questione di controllo. Mi viene in mente a questo proposito il film di Charlie Chaplin “Tempi moderni”, siamo ancora in questo limbo, siamo cioè favorevoli alla famiglia e tante persone non riescono a capire che esistono più ambiti di lavoro, più culture lavorative e ci sono delle dinamiche che diventano pericolose.
Vorrei spostare l’attenzione sulla formazione dei dirigenti. Questa mancanza di fiducia è effettivamente solo una questione culturale o forse è una questione di formazione dei dirigenti?
Assolutamente si, a livello nazionale e in provincia i concorsi per i dirigenti spesso vengono fatti solo su competenze tecniche. La competenza dirigenziale, le soft skills, la competenza personale di comunicazione, la competenza sociale di rapporto interpersonale nei concorsi non ci sono!
La definizione di dirigenza è quella di 60/70 anni, a differenza dei paesi nordici nei quali la definizione di dirigente deve avere competenze dirigenziali e chi ricopre quei ruoli non deve essere necessariamente un tecnico, perché ha la possibilità di avere collaboratori e collaboratrici formati su competenze tecniche. Invece le scelte dirigenziali e i concorsi vengono fatti su cose esclusivamente tecniche, basti pensare alle selezioni: sono composte da domande tecniche e una parte orale della durata di un’ora nella quale non si riesce a capire e ad approfondire questioni relazionali. Quando sono coinvolta in queste selezioni solitamente creo dei role playing in cui vengono simulate delle situazioni concrete e le persone vanno letteralmente in tilt. La dirigenza ha un’enorme importanza ma il concetto che noi abbiamo di dirigenza è estremamente antiquato.
Abbiamo quindi un’urgenza di fare una riflessione di cambio di cultura che parta dalla dirigenza.
E’ accaduto in questo tempo che ci fossero situazioni di forte controllo. Ci sono stati collaboratori che dovevano scrivere per filo e per segno cosa svolgevano durante l’orario di lavoro. In consulenza ho visto tabelle nelle quali i dipendenti erano obbligati a segnare minuto per minuto cosa facevano, anche le e-mail che scrivevano e a chi le inviavano. In che cosa la identifichiamo la qualità lavorativa?
Non è solo una questione legata al mondo femminile ma una condizione di precarietà che riguarda e che coinvolge uomini e donne.
Questo accadeva anche prima della pandemia, veniva chiamato telelavoro ed era una questione contrattuale riservata principalmente alle donne. Le escludeva da qualsiasi forma di progressione lavorativa perché la donna doveva decidere di chiedere il telelavoro e spesso questo per la dirigenza voleva dire che c’erano altre priorità. In questo caso si può notare un’effettiva disparità nel trattamento lavorativo. Anche in consulenza queste disparità erano chiare, soprattutto nei premi di fine anno. Nel caso in cui una persona era in telelavoro non veniva presa in considerazione, in quanto lavorando da casa aveva già una sorta di premio. E qui ritorniamo alla questione della cultura.
In consulenza ultimamente mi trovo ad affrontare un’altra questione difficile. Ci sono persone che non vogliono più tornare in ufficio a lavorare perché già prima c’erano problemi legati alle relazioni. Non viene più vista la qualità di vita che è proprio del confronto e delle relazioni. Ho avuto due casi di persone che sono state richiamate in ufficio al lavoro e si sono licenziate perché non volevano più rientrare.
Questo punto è fondamentale, perché anziché riuscire a risolvere una situazione, che definiamo precaria perché non è definita e chiara, ha fatto in modo che le persone si chiudessero ulteriormente in questo stato di necessità di autoesclusione.
Nella mia esperienza nelle consulenze, nel lavoro di cura abbiamo una situazione molto difficile perché ci sono dei servizi che non è più possibile attivare, perché tante persone sono state sospese o hanno chiesto un’aspettativa.
La cosa che preoccupa è che spesso le aree più colpite sono quelle dove lavorano maggiormente donne, pensiamo alla sanità, al sociale o la scuola. Spesso rischiano di perdere l’indipendenza economica: o hanno dei punti di introito o tante donne tornano ad essere dipendenti. Quindi dal punto di vista dell’emancipazione è un passo indietro. Oltre a questo, nelle consulenze ho trovato persone che vogliono farsi sospendere perché dopo questi anni pandemici così convulsi sono talmente stanche e sfinite che si vogliono far sospendere per stare a casa un po’, per uscire da questo lavoro logorante. Poi chissà cosa accade. Questa la leggo come una forma di ribellione al sistema e alla gestione lavorativa.
Quale secondo te potrebbe essere una soluzione a tutto questo, anche a livello utopico, dove per utopia intendiamo qualcosa che non esiste ancora non che non esisterà mai.
Dobbiamo abbandonare e lasciare andare il pensiero che prima era tutto a posto; quella che a livello individuale e di società avevamo visto come normalità non c’è più. Il concetto di normalità poi per noi psicologi apre un discorso che ci richiederebbe ore di confronto, quindi lo lasciamo ad un’altra occasione. Proprio ieri sera leggevo un articolo su un giornale tedesco che diceva che dobbiamo salutare questo concetto di normalità. Quando parliamo di resilienza e di ripartenza facciamo sempre il paragone con quello che c’era, e le misure e gli interventi da pensare adesso li paragoniamo all’impatto sulla normalità che noi abbiamo vissuto nel tempo pre-pandemia.
Per prendere il presente come opportunità ma anche gestire la situazione guardando avanti e guardando al futuro, ci vuole una certa intelligenza e flessibilità mentale, perché indubbiamente il presente fa paura. Non credo che a livello sociale siamo pronti a questo, ma ciò che mi preoccupa è che non penso nemmeno che abbiamo le persone competenti e responsabili per questa trasformazione.
Tanti hanno capito che è un’opportunità e che possiamo effettivamente trasformare le cose però dobbiamo lasciar andare il passato come unico riferimento. Tanti a livello politico organizzano gli interventi sulla base della normalità conosciuta, pre-pandemica. La mia prima speranza è che a livello politico coloro che fanno parte di una fascia che crea e pensa allo sviluppo della società lascino andare il vecchio modello e creino una visione condivisa, una certezza condivisa. Crearci una nuova “normalità”, assistere attivamente a questa nuova trasformazione è quello che auspico possa accadere.
Questo dialogo poteva continuare per molto tempo perché ha aperto molte riflessioni e mi ha dato molti stimoli. Mi piacerebbe aprire un dialogo anche con i lettori, per sapere cosa ne pensano loro alla luce delle questioni emerse da chi, come Michela Morandini, ha la possibilità di confrontarsi quotidianamente con le tematiche esposte in questa intervista.