«Qui tutto è immobile, manca quasi l’aria». Difficile, per chi vive nei paesi dell’entroterra meridionale, specialmente se giovane, non ritrovarsi nelle parole che Ernst Bloch, quasi 100 anni fa, dedicava alla “piccola città” lontana ed estranea dalla modernità del centro. In esse sembra addensarsi il senso d’amarezza generato dalla mancanza di opportunità e dall’esaurimento del possibile che caratterizza questi paesaggi psico-sociali: la desolazione dei luoghi e il sentire di vivere in territori marginali; il dramma di una generazione che non intravede alcun futuro a queste latitudini; la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato e la speranza di andare via al più presto. Per i giovani nati qui, la realtà appare sempre più asfittica, sterile, come una distesa inaridita in cui è difficile riempire i polmoni. Manca l’aria: il respiro si fa sempre più affannoso, strozzato dall’immobilismo e dalla precarietà, e i polmoni sono ingombri delle sostanze tossiche che opprimono il mondo come una cappa soffocante.
La rappresentanza politica appare quasi impermeabile, se non irrimediabilmente distante, rispetto a ciò che la realtà produce e si muove nella società, mentre gli individui risultano sfiancati, spossati di fronte a una situazione che non sembra offrire opportunità o comunque occasioni per poter concretizzare il proprio progetto di vita. Le cornici di senso che delimitano le forme che la condotta dei singoli può assumere e gli ambienti istituzionalmente determinati entro cui si svolge la vita sociale assumono i tratti insensati della fatalità. Menti e corpi scivolano così verso una resa incondizionata alla logica del mondo e al diktat dell’indicativo presente, irretiti in una sorta di positivismo tragico, il quale, «ben prima d’ogni filosofia, sa già che il mondo non va né interpretato né cambiato: va sopportato» (P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992, p. 284).
Questa condizione sociale e generazionale frutto della crisi, degli anni di austerità, della precarietà, dello smantellamento dei servizi pubblici, delle disuguaglianze insopportabili, dell’assenza di opportunità e prospettive si presenta come una normalità senza tempo. La sensazione d’immobilismo temporale non orienta soltanto la condotta dei singoli, modellando passioni e indifferenze, azioni e omissioni, ma finisce con il rendere impossibile qualsiasi altra condotta alternativa. Presi dentro quest’ambiente, vincolati a tale porzione di realtà, ci si ritrova come avviluppati in una densa claustrofilia che, quasi inavvertitamente, si propaga dall’ambito spaziale a quello temporale.
Per favorire l’adattamento sociale e psicologico, si è costretti a barattare le proprie aspirazioni, i propri desideri, i propri progetti, le parti migliori di sé con surrogati di seconda mano – sostituendo i propri organi vitali con materiale macchinico a buon mercato. La frustrazione, la depressione e la rabbia che restano covano senza riuscire a individuare spazi pubblici in cui esprimersi. Le energie sono mortificate, disperse, sprecate: non trovano la strada del confronto e del conflitto, diventando veleno che inquina i rapporti. Ciò che ne risulta è un’immensa solitudine gregaria, individui i cui scontenti si addizionano ma non si aggregano. Una generazione di pentole a pressione, la cui frustrazione ribolle e implode senza trovare un riscatto sociale. Una rabbia inarticolata, inespressa, come una scarica elettrica che non ha una messa a terra.
La figura della soggettività che questi luoghi incarnano e mobilitano non è semplicemente debole, ma svuotata, ridotta al suo punto-zero: volge le spalle al futuro, per convertirsi nel diktat dell’indicativo presente. L’esaurimento del possibile che domina questi spazi apre la dimensione che Gilles Deleuze aveva colto come lo spazio dell’esausto: «L’esausto è molto più dello stanco […]. Lo stanco non dispone più di nessuna possibilità (soggettiva): e non può quindi mettere in atto la minima possibilità (oggettiva). Ma questa possibilità permane, perché non si attua mai tutto il possibile, anzi lo si produce man mano che lo si va attuando. Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare» (G. Deleuze, L’esausto, Cronopio, Napoli 1990, p. 9).
La differenza tra l’esausto e lo stanco sta dunque nel diverso rapporto che essi intrattengono con il possibile. Lo stanco “non ce la fa più” ad attuare dei possibili – ma la possibilità oggettiva resta, posta in riserva, per quanto attualmente inattingibile dallo stanco. L’esausto, al contrario, «mette fine al possibile, al di là di ogni stanchezza, per continuare a finire». Egli viene dopo la fine dei tentativi di portare la possibilità all’atto, e assume l’impossibilità come il suo stesso essere. Ma l’impossibilità soggettiva è spesso un’impossibilità oggettiva assunta, introiettata: l’angustia di prospettive si trasforma in spirito di rassegnazione, in uno stato d’animo di resa. La mancanza di opportunità genera un senso d’oppressione, tale per cui il mondo risulta freddo, silenzioso, indifferente o ripugnante. È il silenzio del mondo, la sordità nella relazione tra sé e il mondo: l’idea che non si possa far altro se non urlare a vuoto nel mondo e aspettare una risposta che potremmo non ricevere mai, data la completa non risonanza per e nei confronti del proprio ambiente.
Eppure nel margine qualcosa si muove. C’è chi racimola l’ultimo resto d’aria, raschiandolo dal fondo dei propri polmoni per mostrare la ferma volontà del proprio esser vivo – non solo perché respira, ma perché vuole farlo. C’è chi scopre nella propria marginalità (geografica, economica e generazionale) un vantaggio cognitivo: dalla prospettiva del margine, infatti, è possibile guadagnare una visione d’insieme su quello che avviene al centro, in modo da riuscire a restituire i nodi del presente con la forza di un punto di vista consapevolmente periferico. Nella misura in cui, per capire se stesso, il margine deve capire anche il centro – ma non viceversa –, assumendo il punto di vista del margine si può scoprire che esso presenta vantaggi cognitivi: dal suo luogo defilato, il margine è in grado di gettare una luce particolare, una comprensione aggiuntiva dei fenomeni complessivi.
Così, nonostante la resistenza che le espressioni di scarsa integrazione nel diktat dell’indicativo presente incontrano a ogni passo, come se si muovessero in un pianeta dotato di maggiore forza di gravità, ci sono ragazze e ragazzi che provano a mettersi in gioco, a rendersi disponibili e a creare processi di welfare leggero e di prossimità all’interno del proprio territorio. Ad esempio, organizzando centri polifunzionali con l’ambizione di provare a costruire spazi a disposizione delle ragazze e dei ragazzi della città, che li possano accompagnare nel mondo dello studio, del lavoro, nel costruirsi una professionalità, nel mondo dell’arte e della cultura. Dando il via ad aule studio, spazi di co-working, radio, eventi culturali, sportelli di orientamento psicologico e al lavoro, per provare a stare assieme mettendo al centro esigenze, passioni e persone. Per provare a costruire un modello di socialità basata sulla cultura e sull’aggregazione. Per accorciare la distanza con la contemporaneità. Avviando, quindi, una battaglia per gli spazi di aggregazione, cultura e socialità per i giovani, per contrastare la dispersione scolastica nei quartieri, per valorizzare le energie del territorio, per rispondere allo spopolamento, per fare rete e costruire cultura – in un territorio in cui la cultura funziona solo come mercato di consumo. Insomma: c’è chi decide di non abbandonarsi al cinismo e alla rassegnazione, continuando a impegnarsi in diversi ambiti – dall’associazionismo ai movimenti, dagli spazi sociali e culturali alla battaglia delle idee, fino alla solidarietà concreta e materiale. Esperimenti atti a rendere il mondo “responsivo”, a svegliarlo, animando spazi e circoli di attività sociali e culturali, riempiendo di suoni e voci aree altrimenti abbandonate, saldando con pratiche solidaristiche e mutualistiche un legame sociale messo a dura prova da decenni di politiche egoistiche. Organizzandosi collettivamente, costruendo insieme idee e azioni, provando, insieme, a cambiare le proprie vite, rompendo la solitudine gregaria per mettere in comune una parte della propria vita, delle proprie idee, delle proprie energie.
Si tratta di sforzi per dar vita a processi di “terraformazione”, come se si trattasse di dover rendere abitabili questi pianeti ostili, aridi, inospitali, dotandoli di un’atmosfera respirabile, creando le condizioni materiali per permettere la (buona) vita. Sono esempi dell’impegno, della forza e della determinazione di sperimentare, di provare a riaprire la finestra del possibile, investendo tempo ed energie che spesso non tornano indietro se non nella forma di benessere collettivo. Espressioni della volontà di respirare collettivamente, e dunque rompere l’anello del soffocamento e dell’asfissia. È a queste esperienze di alleanza dei respiri che occorre dare ossigeno con creatività e voglia di fare.