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Viandanti dei saperi

Autore

Lavinia Mainardi
Laureata in filosofia con una tesi in estetica nell'anno 1994 presso l'Università degli studi di Bologna, Lavinia è una curiosa, ambientalista, studiosa di estetica e di filosofia del paesaggio, semiotica, iconologia, iconografia e visual studies

La parola  “crisi” deriva -come ci documenta l’approfondita ricognizione di Pierre Chantraine nel suo “Dictionnaire Etymologique Grec”- dal verbo κρινω, connesso originariamente alla pratica della trebbiatura, alla separazione -nel frumento- di chicco e pula, ad una vaglio selettivo quindi.

Nell’ “Iliade” si legge: “Come il vento sull’aia sacra porta via la pula/quando si ventila il grano allorché la bionda Demetra/al soffio dei venti separa il chicco e la pula/ e ne biancheggiano i mucchi”.

Francesco Mercadante compie un excursus del termine “crisi”, documentandone il significato iniziale di scelta, taglio, divisione “disconnessione”, potremmo azzardare mutuando il lemma dal vocabolario contemporaneo, e se anche l’ampliamento semantico che si insinua e penetra differenti ambiti, dal politico allo scientifico  -Mercadante cita Tucidide ed Aristotele-  fino a slittare-nella lingua latina- verso valenze sempre più negative, è la sua radice che non dobbiamo mai dimenticare, l’idea cioè di una lacerazione di una parte da un tutto organico.

Ed ancora una volta è una simbiosi a venirci in aiuto, quella esistente fra linguaggio ed immagini compiuta dall’ iconologia, in cui l’ermeneutica si fa storia della cultura, decifrazione di simboli, classificazione di repertori, attraverso strumenti eterogenei spazianti dal recupero delle categorie retoriche – l’inventio su tutte- all’applicazione del paradigma indiziario, che, come ci ricorda Carlo Ginzburg in “Miti, emblemi e spie” del 1986, può “farci uscire dalle secche della contrapposizione tra razionalismo ed irrazionalismo”.

In questo fondamentale testo Ginzburg ravvisa una coincidenza metodologica che, nel decennio che va dal 1870 al 1880, accomuna tre figure distantissime fra loro, unite tuttavia dalla maniacale ricerca del particolare, della minuzia che diviene indizio, dello scarto rivelatore : il critico d’arte Giovanni Morelli, il detective immaginario Sherlock Holmes creato da Arthur Conan Doyle e l’ideatore della psicanalisi Sigmund Freud, tutti debitori della pratica medica della semeiotica, declinata però in ambiti lontanissimi.

“Tracce, sintomi, indizi e segni pittorici”, in uno statuto epistemologico che eleva la marginalità a metodo.

E non può sfuggire la correlazione con l’emergenza di quello che Gilles Clèment definisce “terzo paesaggio”, ovvero quegli spazi diffusi, trascurabili, dimenticati, che hanno tuttavia -proprio nella loro marginalità-   un’importanza fondamentale per la conservazione della biodiversità.

Attraverso questa chiave interpretativa Georges Didi-Huberman, iconografo, storico dell’arte e della filosofia, ha investigato- in occasione di un Festival della Mente tenutosi a Sarzana- un’opera che, proprio per la sua intrinseca contraddittorietà,  si fa paradigmatica dell’oggetto di questa breve disamina:“ I Capricci” di Francisco Goya ed in primis il numero 43 : “ El sueño de la razón produce monstruos”.

Recuperandone i disegni preparatori ed innestando l’elaborazione del soggetto in una diacronia figurativa che da Arcimboldo arriva al Tiepolo, attraverso la mediazione di suggestioni eterodosse quali la “Melancholia” di Durer, Didi-Huberman dimostra quanto Goya, seppur culturalmente radicato nell’età dei lumi, non riesca ad appagare la sua weltanschauung con la sola razionalità.

“Iter per labyrinthum” per dirla con Aby Warburg o meglio “ per monstra ad astra”: una dicotomia attraverso cui la concezione artistica di Goya aggiorna i canoni dell’ emblematica tardo manierista alle argomentazioni dialettiche, in quella che lo storico dell’arte francese definisce “inquieta gaia scienza dell’immaginazione”, la cui protagonista è la dissonanza. 

Forze conflittuali in forma di brulicanti creature della notte abitano una densità vibrante, fra le cui tenebre Didi-Huberman individua una macchia nera- un gatto- che poggia come un fardello sulla schiena del protagonista ( l’opera è in realtà un autoritratto ), il cui corpo è accasciato sul tavolo da lavoro. Un novello Atlante che paga la sua lucidità’ -la razón- solo scendendo a patti con l’oscuro -i monstruos-. 

Se i referenti culturali, prosegue Didi-Huberman, rintracciabili in un vasto orizzonte che va dagli “Ierogliphica” ai trattati di iconologia di Alciato e Ripa, da Orazio  a Francisco de Quevedo, collocano il capriccio di Goya in una tradizione documentabile storicamente, è tuttavia impossibile  non evincere la valenza metastorica  del soggetto, paragonabile ad un “montaggio ”, una combinazione di immaginazione e ragione, la cui dicotomia  si mostra al nostro occhio in tutta la sua flagranza noetica.

Un’altra coincidenza diviene allora significativa in questo contesto: “ El sueño de la razón” è datato 1798, anno in cui esce “L’antropologia dal punto di vista pragmatico” di Immanuel Kant , che, non casualmente, sarà  Michel Foucault a tradurre in francese nel 1961, in occasione dell’ ottenimento della libera docenza,  come rammenta Didier Eribon nella sua recente e documentatissima biografia “Michel Foucault il filosofo del secolo”, dopo aver trascorso un biennio di studi ad Amburgo. E non è neppure casuale che Foucault legga Kant sub specie heideggeriana e soprattutto nietzschiana, proprio quel Nietzsche che, nella “Nascita della tragedia” -pubblicata nel 1872-  aveva disvelato il lato dionisiaco della grecità , rovesciando il canone di “nobile semplicità e quieta grandezza” che da Winckelmann in poi aveva improntato tutta l’estetica neoclassica. 

Non un hapax quello di Nietzsche, ma il rapprendersi di plurime componenti, capaci di trovare  un humus fertile nell’ eredità di quel cotè del Romanticismo che, finalmente liberato dalle catene idealistiche, mostra gli aspetti più irrazionali e le componenti più remote, misteriche e  ctonie della classicità, complici le coeve ricerche di studiosi quali Creuzer, Bachofen, Burckhardt,  contaminando definitivamente la ricerca filologica con il  sublime degli “abissi luminosi”. 

Del resto Frances Yates non ci aveva  mostrato l’imparentamento del Rinascimento con la speculazione ermetica, la magia , l’alchimia, la qabbalah , l’astrologia, i teatri della memoria e il panteismo degli “infiniti mondi” di Giordano Bruno, la cui densità filosofica è a tutt’oggi fonte di inattese interpretazioni da parte di ermeneuti attenti quali Michele Ciliberto e Mino Gabriele?

La Firenze di Lorenzo il Magnifico non opera forse, con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, un azzardato  sincretismo di filosofia neoplatonica, ermetismo e cabala ebraica all’insegna della Prisca Theologia, sulla scorta di un suggestivo quanto improbabile rinvenimento del corpus dei testi di Ermete Trismegisto? 

Nell’Europa del 1500  non convivono gli umori saturnini, sulfurei, nutriti di alchimia ed esoterismo della Praga  di Rodolfo II d’Asburgo, in quel clima così ben tratteggiato da Angelo Maria Ripellino nel breve ma denso            “ Arcimboldo e il re malinconico”,  e i prodromi della rivoluzione copernicana, con il suo totale sconvolgimento di paradigmi e sistemi concettuali sui quali poggiava fino ad allora l’intera concezione dell’Universo?

Le biografie di Keplero, Galileo e Newton non si intrecciano con quella di un enciclopedico gesuita, Athanasius Kircher , che, nella Roma barocca, sperimenta il tentativo di una scienza universale, fra azzardate analogie ed invenzioni fantasmagoriche, avendo per sola guida il tropo retorico dell’accumulazione, nel tentativo di arginare e racchiudere l’esistente  prima nell’ ”Ars Magna lucis et umbrae “, poi nel suo museo  -in realtà una smisurata  wunderkammer–  al Collegio Romano ? 

L’emersione della Modernità non è dunque il frutto di una  tesaurizzazione disordinata di stampo collezionistico, in una commistione di naturalia , artificialia e mirabilia dentro stanze non solo metaforiche,  che assurgono allo statuto di eterogenei microcosmi?

Il recente “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” del cileno ma cosmopolita Benjamin Labatut, ci racconta la storia di fondamentali scoperte scientifiche attraverso la loro, per dirla con Georges Bataille, parte maudite, una trama ossessiva in cui orrore e luce si intrecciano intessendo con  il loro chiaroscuro le menti cui si devono invenzioni che a tutt’oggi rasserenano il nostro quotidiano. Lo stesso Labatut stigmatizza la contemporaneità connotandola dei caratteri di indecifrabilità e contraddizione, un’ostilità alla cognizione di cui diviene simbolo quella “pietra della follia”, la cui estrazione -dipinta da Hieronymus Bosch- si erge a tentativo irrisolto di comprensione della realtà, se non attraverso le categorie della science-fiction, del fantastico, dell’orrorifico, con la loro capacità deformante, come in una di quelle  anamorfosi  tanto amate da Baltrusaitis .

Se dunque la pars destruens da sempre è connaturata con la construens nei procedimenti euristici, in un ribaltamento dalle inesauribili potenzialità che si fa “trasfigurazione” – e alla mente si affaccia l’immagine della compenetrazione operata da Raffaello nell’ultimo dei suoi dipinti:  “gli misero alla morte – scrive Vasari – nella sala ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il Cardinal de’ Medici: la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”, quasi che il dato biografico, su cui si incentrano le “Vite”, diventasse la chiave con cui decifrare la fortissima contrapposizione compositiva del quadro- è all’origine ed alla radice della parola “crisi” che dobbiamo tornare per interpretare l’ impasse gnoseologica, venata di oscurantismo, riduzionismo, aprioristica separazione, radicalizzazione ed estremismo che caratterizza i nostri tempi. Le implicazioni sono molteplici e le ramificazioni imprevedibili ( basti solo pensare al nesso individuato fra gnosi e complottismo rintracciabile da un’attenta lettura di certe riflessioni di Harold Bloom). 

Un’impasse che somiglia ad una stereotipizzazione dei processi conoscitivi che impedisce un’effettiva comprensione degli aspetti complementari della realtà, organizzati in un tutto interconnesso ma interpretati in modo separato: un approccio che somiglia ad un’acritica πιστιζ mediatica da contrapporre dicotomicamente al λογισμοζ , come rileva anche Eric Dodds in “Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia” , un titolo quanto mai significativo per la temperie in cui stiamo vivendo.

Attualizzando appunto questo percorso, una  paleontologia epistemologica vedrebbe l’”homo sapiens” divenuto “cogitans “, ridursi ad “homo oeconomicus” abitante quello che Moore definisce provocatoriamente  “Capitalocene” , in una traslazione politicamente connotata dell’era geofilosofica di “Antropocene”,  l’iperoggetto  – come lo definisce Thimoty Morton-  che connota la nostra contemporaneità, trasformandosi in chiave interpretativa dei fenomeni che la stanno caratterizzando forse in maniera irreversibile, il cambiamento climatico su tutti.

Insistendo sulla metafora tassonomica dovremmo tendere alla realizzazione dell’ ”homo complexus “, in grado di accettare la sfida più difficile lanciata al nostro essere-nel-mondo e  alle nostre potenzialità interpretative, una sfida che abbia come avanguardie quelle discipline, ormai fra loro sinergiche- antropologia , sociologia, scienza sistemica – 

( emerge in questo ambiti il lavoro fatto sulle teorie del caos dal nostro premio Nobel Giorgio Parisi)-  e soprattutto ecologiche, in un cammino che dall’’ipotesi Gaia  di James Lovelock, attraverso il concetto di autopoiesi sviluppato da Maturana e  Varela, arriva al pensiero di Bruno Latour,  Philippe Descola ed Eduardo Viveiros De Castro, attraversando territori impervi, quali la filosofia della differenza di Deleuze e Derrida, certe interpretazioni della psicanalisi – Lacan su tutti- la semiologia, le cyberculture con il concetto di ibridazione, la biologia dei sistemi, le scienze ambientali, l’ecofemminismo, discipline cui spetta il compito fondante di sostituire alla complicazione la complessità, al quantitativo il qualitativo, al riduzionismo il pluralismo, all’isolamento il meticciato.

In una doppia derivazione, mutuando le parole di un intervento del Professor Piero Dominici, “l’erreur des erreures” è proprio quello di non farsi viandanti dei e fra i saperi, come il  Leonardo Da Vinci di Fritjof Capra, la cui felice curiositas non ghettizza le conoscenze e i metodi di ricerca isolandoli, ma li unisce in una visione che pensa unità, molteplicità e diversità come un sistema complesso.
Auspicare un tale approccio non può prescindere dalla figura di un filosofo che, traghettando le contraddizioni del Novecento fino ai nostri difficili giorni,  con la sua “Methode”, interdisciplinare ed inclusiva -un sistema aperto alla complessità e fondato sull’  “unitas  multiplex”-  contrappone a quella da lui definita policrisi, per la sua pervasività biologica, medica e socioeconomica, un “umanesimo planetario”,  le cui sorgenti siano etiche solidali e responsabili, questo pensatore si chiama Edgar Morin.

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