La teoria critica non deve puntare semplicemente a dissipare l’illusione e a smascherare l’apparenza ideologica, togliendo senso all’intero dramma, ma a cogliere in essa la traccia dell’ostinata volontà di vivere meglio, per confermare che le energie necessarie per cambiare qualcosa siano sempre disponibili
Dispacci dal fronte
Tempi critici s’avvicinano, dappertutto s’avvertono i prodromi. Una guerra civile sta iniziando a stagliarsi all’orizzonte del nostro presente, assumendo sempre più i caratteri di una guerra di religione. Il mondo è attraversato da una portentosa inquietudine: dappertutto si formano fronti di guerra, dappertutto scoppia un’aspra e letale inimicizia. Qua e là si scavano trincee. A stento una fazione riesce a ricostruire la potenza, il dinamismo, il contenuto e i significati dei motti e gridi di battaglia dell’altra, e meno ancora sembra disposta a comprenderli. Come ai tempi di Lutero, vediamo ovunque partigiani della verità darsele di santa ragione, entusiasti o disperati. I fronti attraversano le carte geografiche, le affiliazioni politiche, le classi e le famiglie, e risulta difficile dubitare che per la maggioranza dei combattenti tutto ciò sia pienamente sensato, com’è difficile negare a molti condottieri e portavoce di questi conflitti una certa buona fede o un certo idealismo. Dappertutto si combatte, si litiga e si critica e sempre, da una parte e dall’altra, nella convinzione di combattere in favore della ragione e contro l’irrazionalità.
Da una parte e dall’altra, ci si nutre dell’odio reciproco e della gratificazione di additare l’avversario colpevolizzandolo. Da una parte e dall’altra, ci si trova d’accordo soltanto sull’inutilità del reciproco confronto, dal momento che ogni tentativo s’arena sempre sullo stesso punto: “Siete faticosi e prevedibili, non ha senso discutere con voi”. Da una parte e dall’altra, si critica la religione dell’avversario: complottisti, negazionisti, no-vax e no-pass sarebbero gli adepti di una nuova Inquisizione, poliziotti dell’oscurantismo interessati a ignorare le verità scientifiche in nome di credenze irrazionali – dicono gli uni; la medicina è la nuova religione, il vaccino è il nuovo sacramento, la salute è la nuova salvezza, altrimenti come spiegare l’ossessione di alcune persone per la bontà delle misure sanitarie – dicono gli altri. Entrambe le parti confermano il fatto che è sempre più facile vedere la religione negli occhi altrui che quella nei propri occhi. A questa sublimazione negativa s’accompagna la diffusione capillare, su entrambi i fronti, dello stesso atteggiamento pastorale che ha nell’appello a un “risveglio” il suo leitmotiv. Ricorre, costantemente, la contrapposizione di sapore eracliteo fra i desti e i dormienti, i migliori e i più, connesso al motivo di una generale incapacità della maggioranza a comprendere la vera natura delle cose. Tale atteggiamento pastorale si fonda sul mito che esistano due tipi di soggetti nell’arena pubblica: il soggetto che non sa, il quale subisce passivamente la situazione ed è bisognoso di venire illuminato; e il soggetto che sa, il quale, pur subendo la situazione, si adopera per svegliare i dormienti. Gli svegli sarebbero quelle persone che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose. I dormienti, viceversa, sarebbero i più che brancolano in un sonno mentale profondo che non permette di comprendere il mondo circostante.
Commentatori di ogni tipo si appellano ai “complottisti” come fossero un gregge: “Devono svegliarsi ed emanciparsi dal potere dei mercanti di dubbi e bufale, che agiscono come il prete dispensando grazia e salvezza a ogni singolo membro del gregge”. Dall’altro lato, gli “esperti profani” sembrano aver assunto la stessa postura di quei pastori contro i quali erano insorti (medici, psichiatri, criminologi, tecnocrati, pianificatori sociali e specialisti di ogni tipo), in nome di un rifiuto del potere che promette di prendersi cura di loro: “Gli ingenui sono fermamente convinti che tutto questo venga fatto per il nostro bene, per tutelare noi e i nostri cari per uscire da questa pandemia. È arrivato il momento di svegliarsi!”. In entrambi i casi, le maggioranze sono identificate con una massa di illusi e di sprovveduti che hanno perennemente bisogno di essere risvegliati dall’esterno. Si insegna a guardare alla gente con il generico amore a buon mercato e con il sostanziale disprezzo che si prova per coloro che non appaiono mai in grado di essere protagonisti. Si apprende a considerare se stessi come membri di un’avanguardia e le proprie idee come rivelatrici del senso profondo e oggettivo della storia che resta sconosciuto ai più.
Il paternalismo e il classismo con cui si tratta coloro che sono presi da un intenso sentimento di diffidenza verso i politici, i giornalisti e gli esperti, quando gli si vuole insegnare cosa si può dire e cosa no, fa da contraltare alle analogie infelici e indelicate, per non dire ampiamente disoneste e vili, gravi e fuori fuoco, di chi ricorre a termini a sproposito come “deportazione” e “stupro” per parlare delle misure sanitarie.
In questi tempi caotici e babilonici, come ritrovare un linguaggio comune? Invece di lanciarsi in una nebulosa sublimazione negativa (“Vade retro, Satana!”), potrebbe esser opportuno provare a problematizzare la posizione di chi dice “irrazionalità” e a esaminare con attenzione gli aspetti specifici dei cosiddetti “nuovi irrazionalismi”, cercando così di far chiarezza sulla propria confusione. Affrontare la spinosa questione dell’irratio, oggi, non ha solo interessi teorici, ma è ormai diventata una questione di responsabilità politica. Mentre gli esorcismi di accademia (la cui inadeguatezza è superata solo dalla loro impotenza) non riescono a capire che i miti non possono essere confutati in qualche seduta seminariale, e insistono sull’idea della loro ridicola falsità, queste produzioni culturali hanno dimostrato di avere effetti politici reali. Pertanto, occorre chiedersi se gli “irrazionalismi” possano per lo meno offrire spunti di riflessione – ricordando che mettersi in ascolto è altra cosa dal giustificarli. La teoria critica, vale a dire l’opposizione teorica all’ordine dominante delle cose, dovrebbe lavorare per elaborare tali “irrazionalismi” e renderli produttivi – invece di metterli al bando, secondo la tipica tendenza a rendere tabù tutto ciò che non si adatta al proprio paradigma.
Riattaccare la coda al mostro
Farneticazioni, frenesia, principio di febbre cerebrale: così parlavano del caso di Belluca i suoi compagni d’ufficio, tornando dall’ospizio in cui era stato rinchiuso. Ai loro occhi, l’atteggiamento di quell’uomo «mansueto e sottomesso, metodico e paziente» sembrava inconcepibile. L’unica spiegazione possibile all’interruzione nella linea ordinaria della sua vita doveva essere cercata in un deficit mentale: l’illogicità del suo atteggiamento rifletteva quella della sua psiche; era la proiezione di una ragione accidentalmente, se non proprio clinicamente, in stato di regressione e disgregazione, come ripiombata in uno stadio cronologico precedente, di minor compiutezza o realizzazione, entro la linea dello sviluppo psichico.
Rigettando le teorie della causalità che tendevano a comprendere il caso di Belluca come un problema d’ordine cognitivo e a spiegarne l’atteggiamento sulla base delle operazioni mentali di tipo individuale e soggettivo, l’io narrante, che conosceva bene le condizioni di vita di Belluca, è l’unico a intuire che non si trattava di un’esplosione di follia barbarica; che l’imprecisato vaniloquio in cui s’era prodotto, ribellandosi alle angherie del capoufficio e dei colleghi, doveva avere motivazioni ben più profonde: «A nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso […]. Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui».
La ragione del comportamento apparentemente inspiegabile e irrazionale di Belluca doveva esser rintracciata nelle “specialissime condizioni” in cui egli viveva da anni, «entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno», continuamente sottoposto a pressioni tanto in ambito lavorativo quanto in quello familiare. Visto da lì, non c’era più un’irruzione brusca d’irrazionalità, ma soltanto la gemmazione epifenomenica di qualcosa a lungo covato, l’affiorare visibile di una “erosione silenziosa” sordamente cresciuta in un progressivo sfasamento. Una risposta inarticolata a una situazione divenuta insostenibile: «Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima».
Dalla novella di Pirandello (Il treno ha fischiato, in Tutte le novelle. Volume V, BUR, Milano 2017) è possibile attingere una particolare indicazione di metodo per fronteggiare in modo produttivo l’irratio, una sorta di euristica del perturbante che ne renda generativa l’esperienza. Il grado zero dell’intuizione che costituisce il cuore di questo gesto teorico si può riassumere nell’idea che, di fronte a una realtà che pare inquietante e irrazionale, “mostruosa”, in primo luogo bisogna problematizzare la propria difficoltà a inserirla in un’adeguata cornice di senso. Quando si giudica qualcosa come “irrazionale”, parlando esclusivamente di elementi morbosi, si sta giudicando più il proprio armamentario concettuale che non il fenomeno che si cerca di comprendere. In tal senso, definire un fenomeno “irrazionale” è come definirlo “barbaro”: rappresenta più l’espressione del disagio nei suoi confronti che non una sua vera comprensione. Sul piano pratico, tale giudizio finisce col soprannaturalizzare o deumanizzare il fenomeno, ostacolando l’analisi delle condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche che ne costituiscono le fondamenta.
Se i giudizi dei colleghi di Belluca finiscono più col dar voce alla loro confusione riguardo al caso che non al caso stesso, l’io narrante si sforza di mettere in prospettiva gli eventi, per “riattaccare” quell’orribile “coda” (l’atteggiamento inspiegabile) al “mostro” a cui appartiene (le “condizioni di vita impossibili”): da “mostruosa”, la coda diviene così “naturalissima”, “qual dev’essere” – fermo restando che è comunque la coda di “un mostro”. Il metodo suggerito, che inverte l’ordine degli eventi, si presterebbe alla definizione di “sintomatologia”: non si va dalla normalità alla pazzia, ma dalla pazzia occorre risalire alle cause che l’hanno modellata, che affondano nella “normalità”. Tale metodo sintomatologico opera così una trasvalutazione dei fenomeni e, dando valore di sintomo a un fenomeno apparentemente inspiegabile e paradossale, chiama direttamente in causa i nostri abituali strumenti di comprensione, costringendoci ad approntarne di nuovi. Utilizzando un’immagine musicale, il metodo sintomatologico impone che, al cospetto di un ambiente sonoro cacofonico, prima di giudicare la qualità dello spartito converrebbe chiedersi se il problema non stia negli strumenti con cui lo si vorrebbe mettere in musica.
A un secondo livello, l’euristica del perturbante suggerisce che, più che ricorrere a spiegazioni d’ordine mentale di tipo individuale, per rendere ragione dei fenomeni d’irratio occorre risalire oggettivamente dagli effetti alle cause materiali: vale a dire che l’apparente illogicità di certi atteggiamenti non ha a che fare con una disposizione irrazionale, intrinsecamente illusoria, rispetto a quella scientifico-razionale. Piuttosto, si tratta di porsi il problema teorico e sociologico di evidenziare il rapporto che quel tipo di atteggiamenti intrattiene con le condizioni materiali da cui derivano (ossia, con la situazione politica, i rapporti di potere, il sistema economico).
Infine, ed è il terzo elemento del metodo sintomatologico, le diagnosi dei colleghi non sono semplicemente errori di valutazione compiuti da una presunta mentalità degenere in un maldestro tentativo di rintracciare le cause reali del caso di Belluca (ché vorrebbe dire capovolgere il verdetto addossando la presunta irrazionalità alla controparte sedicente razionale), ma sono affini alla forma epistemologica specifica della situazione da cui origina il caso di Belluca: costituiscono anch’esse il risultato di costellazioni di significati materialmente articolate, comuni a un’intera situazione socio-culturale. In altre parole, la tendenza a parlare unicamente di elementi morbosi senza prendere in considerazione le cause materiali non ha a che fare con una disposizione “irrazionale” rispetto alla “razionalità” di un’autentica spiegazione, ma è essa stessa il sintomo di una determinata costellazione materiale ed epistemica, che ha nella cecità per le basi sociali del sentire e nella perdita di connessione con la vita materiale il proprio dispositivo simbolico per attribuire senso ai fenomeni.
In sintesi, l’euristica del perturbante avanza in tre tempi: di fronte a fenomeni che risultano inquadrabili soltanto in termini di irratio, occorre anzitutto problematizzare la propria confusione, come un campanello d’allarme dello stato di salute dei radar analitici abituali; in secondo luogo, si tratta di andare alla ricerca delle cause materiali di quei fenomeni etichettati come irrazionali, problematizzando i rapporti tra le forme di irratio e la società in cui queste emergono, interrogandosi sulla loro natura e su come queste riflettano una crisi più profonda legata alle condizioni materiali della nostra contemporaneità; infine, bisogna considerare la percezione dominante del problema come parte del problema: vale a dire che l’abitudine a silenziare il polso socio-politico dei fenomeni e la cecità per le basi sociali (condizione di possibilità per la comparsa della categoria di irratio) rappresentano il sintomo di una situazione epistemica strutturale.
L’eredità dell’irratio
Nei giudizi dei colleghi di Belluca si ripresenta ciò che Bruno Latour ha definito «il solito vizio dell’epistemologia», cioè la tendenza ad attribuire a deficit intellettuali ciò che in realtà è un deficit di pratica comune (B. Latour, Tracciare la rotta, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 37). Per converso, il metodo sintomatologico suggerisce che la chiave della situazione non andrebbe cercata in una degenerazione dell’intelligenza o in una patologia della ragione, ma in una patologia della vita pubblica. Come precisa Latour: «Si tratta di sapere non come rimediare agli errori del pensiero, ma come condividere la stessa cultura, far fronte alle medesime sfide, rispetto a un paesaggio che può essere esplorato insieme».
Probabilmente, più che d’irrazionalismo, di elementi morbosi dettati da ignoranza o fanatismo, converrebbe parlare di rabbia senza volto, risultato di un legittimo senso d’ingiustizia – che c’invita a cercare modi di incanalarla in forze che non contrastino l’oppressione per mezzo della violenza, che non trasformino la rabbia in atrocità. Si tratta di capire se esista una “eredità” – nel senso di Ernst Bloch – dialetticamente utilizzabile nell’irratio. Un’eredità intesa come bottino, tesoro da conquistare in combattimento, in incursioni piratesche o in un corpo a corpo per sottrarre queste armi alla reazione. Precisando, però, che non si tratta di strizzare l’occhio al diavolo: «Possa piuttosto venirgli sottratta – con qualcosa di ben più forte di una strizzatina d’occhio – l’arma delle sue menzogne e delle sue chimere» (E. Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano 2015, p. 51). Se è vero che «non tutto quanto è ancora “irrazionale” si riduce a sciocchezza semplicemente da dissolvere», un intelletto non astrattamente liquidatorio dovrebbe farsi carico degli elementi utopici e sovversivi spesso nascosti in quei territori solitamente definiti “irrazionali”. Non bisogna limitarsi, sia pure giustamente, a demistificare, ma occorre rilanciare concretamente il “desiderio di una migliore libertà” che cova nell’irratio, nell’opacità e nei meandri tortuosi e spesso ambigui della nostra epoca. La teoria critica non deve puntare semplicemente a dissipare l’illusione e a smascherare l’apparenza ideologica, togliendo senso all’intero dramma, ma a cogliere in essa la traccia dell’ostinata volontà di vivere meglio, per confermare che le energie necessarie per cambiare qualcosa siano sempre disponibili.