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Menti integraliste e corpi talebani

Autore

Antonino Pennisi
Filosofo e Linguista. Dal 2012 al 2018 ha diretto il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali dell'Università di Messina, presso cui è titolare della cattedra di filosofia del linguaggio. I suoi interessi riguardano prevalentemente la psicopatologia del linguaggio e, più in generale, la relazione tra linguaggio, evoluzione e cognizione umana. Il suo ultimo libro edito da Il Mulino, Bologna nel 2021 è Che ne sarà dei corpi?

C’è una mente digitale e calcolistica per il corpo dell’uomo che ha lo sviluppo biologico più stupefacente della sinergia udito-voce. Dal mutuo corrispondersi fra tratto vocale e uditivo ha origine l’avventura cognitivo-verbale del cervello umano. La specie-specificità del linguaggio umano non sarebbe potuta esistere senza la formattazione uditiva del suo brain-body a partire dal suo non-brain-body.

Solo nello studio dell’evoluzione diacronica delle forme possiamo capire in concreto i modi con cui il corpo talebano determina il farsi etologico della mente integralista. 

Siamo comunemente affezionati all’idea che la mente domini totalmente i nostri comportamenti. La possiamo chiamare integralista perché la crediamo sostanzialmente priva di vincoli. La mente non vive gli oggetti e le persone: le fabbrica. I mondi non esistono: sono universi mentali. La relazione è sempre un cosciente intrudersi in altre menti tentando di anticiparne atti ed eventi. La mente estesa (Clark) allarga addirittura il suo dominio ai dispositivi che ha generato e che vi rientrano potenziandola ricorsivamente all’infinito. Insomma, la mente integralista è la quintessenza dell’idea di libertà: proteiforme, pervasiva, totipotente, senza vincoli. In un certo senso è forse per questo che possiamo anche pensarla come l’anima nera di tutte le moderne filosofie antropocentriche: dall’idealismo, alla svolta linguistica, al computazionalismo delle prime scienze cognitive. E forse è per questo che il Novecento è stata la culla dei totalitarismi e dei genocidi.

Spinoza aveva passato tutta la sua vita a dimostrare la falsità di questa idea, pagando per questo un gran prezzo: l’isolamento, la scomunica, la morte prematura. Per lui semplicemente la mente non può mai essere integralista perché è un sottoprodotto di vincoli corporei, emotivi, rettiliani: è il corpo ad essere il vero talebano nascosto nella nostra struttura biologica. E il programma filosofico del suo naturalismo si risolve per intero nel capire la natura e la potenza del corpo: 

“Nessuno ha sinora determinato le capacità del corpo. L’esperienza non ha sinora insegnato a nessuno che cosa, per le leggi della natura considerata solo in quanto corporea, il corpo possa e che cosa non possa, senza essere determinato dalla mente. Nessuno, infatti, conosce sinora la struttura del corpo così esattamente da poterne spiegare tutte le funzioni […]. Il corpo, per le sole leggi della sua natura, può tuttavia molte cose che suscitano la meraviglia della sua mente” (Spinoza, Etica, 1321).

 Ma cosa intende esattamente Spinoza quando si chiede «cosa può un corpo solo in quanto corpo senza essere determinato dalla mente?». La sua è una risposta radicalmente monistica, che ai suoi tempi ne ha fatto un filosofo maledetto ma che ha spalancato le porte alle moderne idee di scienza. Il corpo è il talebano dell’essere. Non esiste nient’altro che il corpo. Il cogitare è una secrezione del corpo, un prodotto che si distingue non per sostanza ma per attributo: “la mente e il corpo sono una sola e medesima cosa che è concepita ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto quello dell’estensione” (ib).

Dal darwinismo sino alle neuroscienze l’integralismo spinoziano del corpo è diventato un punto filosofico di non ritorno. Ridotta la mente alla stessa sostanza del corpo si comprende finalmente che anche il cervello è un pezzo di corpo, anzi, per dirla con Leroy Gourhan che “il cervello è l’inquilino del corpo”. Il problema del filosofo e dello scienziato sarebbe quindi quello di capire il ruolo funzionale dei due pezzi, come li chiama oggi l’Embodied Cognition: “neural body” e “non neural body” (Daniel Hutto) o “brain-body” e “non-brain-body” (Alva Nöe). 

Questo problema ammette oggi (almeno) due soluzioni: (1) un becero ritorno all’integralismo antropocentrico della mente, che consiste semplicemente nel sostituire la parola mente con la parola cervello; (2) nel capire i modi sincronici e diacronici con cui il corpo talebano determina il farsi della mente integralista. 

La prima è una conseguenza ovvia del cerebrocentrismo che ha imperato nelle prime scienze cognitive, sposandosi spesso col computazionalismo. Con tutti i suoi successi e i suoi macroscopici errori si tratta di un’idea intensamente abbarbicata al senso comune: è sempre il cervello che determina cosa debba fare il resto del corpo infondendogli intenzioni, coscienza, scopi, risposte – ovvero l’ultimo update della mente integralista.

La seconda è invece ancora tutta da scoprire: come potrebbe il corpo talebano condizionare le azioni del cervello e del suo prodotto-mente è una delle discussioni più polemiche, ma anche tragicamente inconcludenti, della filosofia della mente contemporanea. 

Alcuni, infatti, rispondono che il corpo conosce in maniera diretta spalancando un ritorno a Skinner: il corpo è un piccolo robot rotondo per spazzare le stanze, che non ragiona ma impara ad evitare gli ostacoli con l’esperienza motoria nel proprio habitat. È la scorciatoia del connessionismo, dell’enattivismo e di tutte le loro varianti contemporanee che hanno abolito l’idea stessa di rappresentazione. Una scorciatoia comoda perché salta a piè pari il problema dei modi con cui il cervello calcola e sostituisce interamente quest’ultimo con agenti mobili, esperienze e azioni. Rovesciando il bambino con l’acqua sporca.

Altri inventano improbabili neo-fisiologie per cui il cervello è anche negli organi percettivi, nelle cellule gliali, nel midollo, nel cuore, nello stomaco, nei muscoli, nella pelle. Un’intera mitologia che risale da Aristotele sino all’Embodied Cognition più estrema e che è stata recentemente ridicolizzata da alcuni suoi esponenti più moderati (Adams e Aizawa, 2010:16-22).

Altri ancora, infine, pensano di risolvere il problema sottomettendo il cervello che calcola al corpo-cervello che “sente”, che prova emozioni (che, bizzarramente, sono sentite come più “corporee”) che esperisce: insomma il Leib husserlianamente opposto al Körper. Eppure lo stesso Husserl nelle sue Meditazioni cartesiane (§44) ci offre l’immagine delle nostre due mani che si intrecciano per mostrarci un unico sincretico modo di essere alternativamente corpo biologico e corpo mentale

« Nella mia attività percettiva capisco (o posso percepire) tutta la natura e in essa la mia corporeità propria (…) riferita a se stessa. Ciò diviene possibile perché io posso percepire una mano per mezzo di un’altra, l’occhio per mezzo della mano, e così via ove l’organo funzionante deve farsi oggetto e l’oggetto organo funzionante »

Il motivo per cui il rapporto fra il brain-body e il non brain-body sfugge all’analisi sincronica, cioè nel concreto dell’azione, è che l’attività sensomotoria e quella cosciente dell’elaborazione cognitiva è sempre un tutt’uno, pur essendo teoricamente “smontabile” in pezzi distinti e funzionalmente differenti. Per capire in che modo siano non virtualmente ma effettivamente differenziati esiste solo una possibilità: guardarli in ottica diacronica, ovvero nella dimensione evoluzionista. 

Il contributo più importante che Darwin ha offerto all’umanità è l’idea che l’evoluzione è una sequenza interminabile di stati morfologici che si trasformano senza un progetto, ma che non mutano a caso bensì seguendo le strade che più convengono agli organismi, alle specie, alla loro sopravvivenza. Segnatamente, quindi (1) che le generazioni si trasmettono dal punto divista biologico soltanto i tratti morfologici; (2) che la morfologia, quindi, col suo trasformarsi determina anche l’evoluzione cognitiva, della quale la mente e la cultura sono i maggiori prodotti.

Mente e cultura che riteniamo “integraliste” sono, quindi, ab ovo vincolati dai corpi “talebani”, e non viceversa. Il bipedismo dei sapiens, ad esempio, si è affermato grazie a una mutazione nel livello di espressione del gene GDF6. Da questa casuale mutazione che diede ai quadrupedi la possibilità di ergersi su due zampe derivano una serie di trasformazioni a cascata come, ad esempio, quelle descritte da Leroi-Gourhan [1964]: bipedismo > liberazione delle mani > ampliamento dell’orizzonte visivo > formazione del tratto vocale a due canne > ampliamento del ventaglio corticale > sviluppo quantitativo del cervello > possibilità di articolazione linguistica a stati discreti > sviluppo combinatorio dei suoni > formazione di una sintassi e semantica specifiche delle lingue storico-naturali. La tecnologia, le lingue e, quindi, di seguito, la scrittura, la stampa, la digitalizzazione, e tutto ciò che ci appare a prima vista come il prodigio di una mente superiore, sono in realtà il frutto del compromesso continuo tra il brain-body e il non-brain-body, dall’imprevedibile incrociarsi dei loro diversi compiti.

Come ci insegna Spinoza, mente e corpo sono fatti di una stessa sostanza, ma hanno ruoli diversi. Sono «pezzi» di corpo che svolgono funzioni differenti. Il corpo produce percezioni, la mente le elabora attraverso la propria idea del corpo. Il corpo genera qualia specializzati a partire dalla cognizione etologica della specie; il cervello li trasforma in immagini. Quindi il corpo umano dà forma alla mente in base alla specialità della sua natura corporea. Questo, ovviamente, è il contrassegno etologico – e quindi “talebano” – della natura dei corpi. Così c’è una mente visiva per il corpo dell’aquila, per il suo occhio prodigioso. C’è una mente olfattiva per il corpo del cane, per il suo «tartufo» unico. C’è una mente vibratile per la talpa, per il tracciamento tattile delle vibrazioni che solo lei riesce a rendere estremamente potente. C’è, infine, una mente digitale e calcolistica per il corpo dell’uomo che ha lo sviluppo biologico più stupefacente della sinergia udito-voce. Dal mutuo corrispondersi fra tratto vocale e uditivo ha origine l’avventura cognitivo-verbale del cervello umano. La specie-specificità del linguaggio umano non sarebbe potuta esistere senza la formattazione uditiva del suo brain-body a partire dal suo non-brain-body.

Solo nello studio dell’evoluzione diacronica delle forme possiamo capire in concreto i modi con cui il corpo talebano determina il farsi etologico della mente integralista.

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