Credo di averne raccomandato la lettura a decine di amici e colleghi ricercatori scientifici nel corso degli anni e, sempre, “Atlante occidentale” (Einaudi, 1985) destava un senso di ammirazione, quale che fosse la particolare disciplina in cui questi erano impegnati. Ammirazione per l’esattezza della scrittura, certo, ma soprattutto perché, il romanzo di Daniele Del Giudice non racconta la scienza, bensì parla la scienza.
La storia è ormai ben conosciuta. A Ginevra, complice la comune passione per il volo e un mezzo incidente in pista durante un decollo, si origina un’amicizia tra un giovane fisico, Pietro Brahe, impegnato in un esperimento nell’acceleratore del CERN (la Giostra, nel libro), che lo porterà, si intuisce alla fine del romanzo, a un’importante scoperta, e uno scrittore ormai anziano e affermato, Ira Epstein, in predicato di ottenere il «Grande Premio». Un’amicizia discreta e piena di ritrosia, come sono le vere amicizie, in cui ciascuno evita di chiedere all’altro alcunché di personale e privato, così che rimanga spazio per parlare delle cose che contano davvero.
Ci sono nel libro due momenti che colgono il contenuto intimo del mestiere di scienziato. Il primo è quando Brahe affronta il collega Wang, un fisico illustre, gratificato da un Nobel e già avanti negli anni, il quale ha bisogno di venti centimetri di spazio in più nel progetto per un suo esperimento che andrà a condurre di lì a un paio d’anni. Brahe sa che non può concedere i venti centimetri sottraendoli dallo spazio necessario ai propri macchinari, sacrificando così il suo di esperimento. Perciò assieme alla collega Eileen, una costruttrice di magneti, modifica il disegno del progetto ampliando di venti centimetri lo spazio delle sue macchine in modo tale da poter fingere un’elargizione di venti centimetri del suo spazio a Wang che è in realtà solo illusoria. Wang, che nel romanzo viene descritto come un pescecane, in un colloquio sornione in cui fa uso della ripetizione ossessiva del parlato come di un’arma contundente, a un certo momento sembra accorgersi della manipolazione: prende il foglio, lo guarda di sbieco e in controluce osservando che il fondo, il rumore visivo prodotto dal puntinato di blue d’usine, appare strano in un certo punto… Tuttavia non protesta, anzi scruta Brahe con nuovo interesse e apprezzamento, come a comunicargli «…io lo so che qua c’è un trucco, e può darsi che ci rimetta venti centimetri, ma sono contento che lei abbia pensato di imbrogliarmi, sono molto contento di questa sua finzione, sono contento che lei tenga a tal punto a questa storia da cercare di imbrogliarmi». E, ancora, con l’attrezzo della ripetizione «…certamente avrò notizie di lei presto, Signor Pietro Brahe. Lei è molto giovane, e io avrò notizie di lei presto. Lei è molto giovane e molto bravo Signor Pietro Brahe.»
Mi sono sempre chiesto se il romanzo alluda qui alla possibilità che Brahe sia destinato a diventare egli stesso un pescecane. Nel suo lasciar correre è come se Wang avesse riconosciuto in Brahe se stesso da giovane. I due personaggi sembrano condividere perlomeno un aspetto nel giudizio sulla scienza. «È tutto così rapido, va tutto così in fretta» dice Wang. «Non è colpa mia se questo mestiere sta diventando così» dice Brahe a Eileen mentre le spiega perché debbano spostare nel foglio di blue d’usine tutta la parte della loro macchina più in là di venti centimetri per poi fare finta di rispostarla tutta più in qua di venti centimetri contrattando con Wang e simulando di volerlo accontentare.
Se proliferano i pescecani forse è perché la scienza sarebbe in fondo soltanto «una malattia dello spirito occidentale». L’espressione si trova in un famoso libro di Erwin Chargaff, «Il fuoco di Eraclito» (Garzanti, 1985), nel quale l’eminente biochimico dispensa, con franchezza da chirurgo, una diagnosi assai amara sulle condizioni della ricerca scientifica moderna. La visione romantica della scienza di Chargaff, irritato dall’iperspecialismo, che allontana anziché avvicinare alla comprensione di ciò che è essenziale, e dalla (presunta) amoralità degli scienziati è associata a un insopportabile senso di superiorità. Chargaff disdegna l’idea dello scienziato che deve diventare pescecane pressato da un mondo che va troppo in fretta (viene in mente la frecciata di Linus Pauling alla notizia dell’assegnazione del Nobel alla coppia Crick-Watson: «sono tempi bui questi, quando simili pigmei proiettano ombre tanto lunghe…»). Sostiene Chargaff che siamo in troppi a fare la ricerca, ma sono pochissimi i veri ricercatori. In una lettera a Chargaff, Valentino Braitenberg, con identica alterigia ma maggiore senso dell’umorismo, gli ribatte: «E allora? Non è forse un bene disporre di un esercito di aiutanti fedeli in una guerra santa condotta da una minoranza sapiente? Per me, più sono e più sto tranquillo» («Il cervello e le idee» Garzanti, 1989).
Se Daniele Del Giudice avesse potuto scrivere un seguito di Atlante occidentale, come avrebbe descritto Pietro Brahe maturo? Un Pietro Brahe ormai anziano e famoso a confronto, questa volta, con un giovane scienziato o un giovane scrittore, sarebbe stato un pescecane, come il fisico Wang, oppure sarebbe stato uno Chargaff, amareggiato e altezzoso o, invece, qualcosa di diverso da entrambi?
Infatti non ci sono solo i pescecani nel libro di Del Giudice, c’è ad esempio Mark, che ha conosciuto e si ricorda di tutti i grandi vecchi della fisica, e che «calcola alla lavagna integrali di parecchie cifre senza scriverli, solo a memoria». Quando Brahe gli chiede quale sia il suo metodo risponde «I numeri danno numeri, bisogna sentirli».
All’opposto della scala che ha da un lato i pescecani, ci sono gli uomini della memoria, non quelli furiosi e arroganti come Chargaff, ma le persone «di grandissimo valore, di grandissima passione, grandemente schive», come Mark. E, forse, dice Brahe parlando di se stesso: «il guaio è che io sono per metà pescecane, e per metà uomo della memoria».
Una giovane collega mi ha raccontato di aver visto recentemente «La struttura del cristallo», un vecchio film di Krisztof Zanussi. Ho pensato che deve esserci un periodo critico della vita in cui certi stimoli ti possono impressionare, come nell’imprinting dei pulcini. Ho visto il film più o meno negli stessi anni in cui, studente di dottorato, avevo letto Atlante occidentale.
I protagonisti, Marek e Jan sono due fisici, come Pietro Brahe, nella zona intermedia tra i trenta e i quarant’anni. Marek è reduce dal canonico periodo di soggiorno all’estero che suggella il perfezionamento e il successo nella carriera scientifica. Va a trovare Jan che si occupa di una modesta stazione meteorologica in un villaggio lontano dalla capitale. Jan ha rinunziato alle ambizioni della professione scientifica per vivere, con la moglie Anna, insegnante nella scuola elementare del villaggio, una sua personale concezione di libertà e benessere. Marek, in realtà, è giunto lì come emissario del loro comune mentore, il professore con cui anche Jan ha studiato, per cercare di convincerlo a ritornare alla vita scientifica e alla civiltà.
Come Chargaff, anche Jan vede nello specialismo un ostacolo alla comprensione piena dei fenomeni e allo sviluppo della sua umanità e della sua felicità. Non ha rinunciato a studiare, mostra anzi a Marek i libri in cui insegue la risposta a quel genere di grandi domande che avevano condiviso da giovani, e che Marek sembra avere smarrito nella sua corsa all’affermazione e al successo professionale. Dice Jan: «…ricercatore, specialista, sono funzioni. Ma l’uomo è anche qualcosa in più». Viene facile qui assumere l’atteggiamento romantico; la mia giovane collega mi ha confidato di aver parteggiato per Jan guardando il film. Tuttavia c’è un momento cruciale nel film che esprime bene le ragioni di Marek (e, credo, di Brahe e del pescecane Wang) quando Marek dice a Jan: «Non so se ti rendi conto che disponi solo della tua idea di te stesso, e che non hai nessuna possibilità di verificarla. Puoi anche andare tutta la vita per i campi e pensare di essere un santo o uno stoico, contemplando la tua anima di cristallo. Solo che senza rischio, senza lotta, non verrai mai a sapere com’è veramente».
Del secondo momento in cui viene colta l’intima essenza del sapere scientifico, invece, ho parlato nel mio libro con lo scrittore Massimiliano Parente («Lettere dalla fine del mondo» La Nave di Teseo, 2021). Consentitemi qui l’autocitazione, perché il tema mi è particolarmente caro. «C’è un lungo brano in Atlante Occidentale nel quale lo scienziato, Pietro Brahe, dopo aver mostrato e introdotto al proprio lavoro lo scrittore Ira Epstein, facendogli vedere come un fisico sperimentale vada a caccia e veda gli eventi, le collisioni nell’acceleratore, gli chiede di dirgli che cosa lui, Epstein, veda, e di mostrargli dove si produca. Hanno appena assistito a uno spettacolo di fuochi pirotecnici in onore di Epstein, che è oramai anziano e affermato, dalle sponde del lago di Ginevra. Ed ecco che Epstein si produce in una lunga, precisa e dettagliata descrizione dell’esperienza di vedere i fuochi: la luce nella sua fenomenologia e nella sua storia. Una portentosa descrizione. Il punto d’incontro, secondo me, sta lì, nello iato tra la descrizione fisica del mondo e la nostra esperienza del mondo, che è poi la base per edificare la conoscenza, compresa quella che insegue il giovane fisico Brahe, negli eventi che rivelano nuove entità particellari nel suo acceleratore».
Il tema, quindi, è quello della natura delle nostre esperienze, sul quale sono destinati prima o poi a incontrarsi lo scienziato e l’artista. Epstein nota che se qualcuno avesse chiesto a uno come lui «Lei si interessa di?» egli avrebbe dovuto rispondere: «Di fatti, soltanto fatti, i puri fatti…». Brahe, invece, va in cerca di cose che non sono i puri fatti, che sono solo quelli dell’esperienza fenomenica, ma usa le «sensate esperienze» per creare entità che non abbiamo più la possibilità di vedere o anche solo di immaginare nella scienza moderna, costrutti che possono essere solo rappresentati concettualmente, e che sono dotati perciò di un incredibile fascino (quando nell’acceleratore si cominciano a osservare gli eventi attesi, Rüdiger, il collega di Brahe, dice: «È così bello. Così incredibilmente bello»).
Non so se Daniele De Giudice abbia mai avuto occasione di leggere o di incontrare qualcuno dello sparuto gruppo di scienziati che sta cercando di gettare un ponte tra la natura dei fatti esperiti qui e ora, delle nostre esperienze sentite, e i costrutti della fisica e delle scienze naturali in genere. Fenomenologi sperimentali come lo psicologo della percezione Paolo Bozzi o il fisico matematico e psicofisico Jan Koenderink. Avrebbero avuto molto da raccontarsi (e qui sì Chargaff ha ragione a lanciare i suoi strali contro l’iperspecialismo, che impedisce il colloquio tra menti sorelle).
Epstein nella sua descrizione dell’esperienza della luce procurata dai fuochi pirotecnici sta parlando di un sentimento e del modo di produrlo. Inizialmente è convinto che Brahe sia uno degli ultimi metafisici, che oggi usano macchine sofisticate per scattare un’istantanea di quello che pensano ci sia. Ritiene che Brahe si interessi solo a quello che si pensa, non a quello che si vede e cerca di correggerlo. Ma, verso la fine del libro, è lui a correggere la mira e a riconoscere che non è così. Osserva, comunque, che seppure non sia un metafisico «per certi aspetti, lei (Brahe) è una persona molto antica».
Credo che anche Daniele Del Giudice fosse una persona molto antica. Non l’ho mai incontrato, e questo mi procura oggi una luminosa nostalgia.