Se fossimo capaci di dimenticare più di quanto non accada, e, se non vivessimo anche di conflitti interiori, non avremmo sensi di colpa. Ma si sa, disponiamo di memoria e i conflitti tra parti diverse di noi stessi ci costituiscono, a volte fino a lacerarci. Compiamo azioni e facciamo scelte che si imprimono nella nostra memoria, e pare che ad imprimersi di più e in maniera più duratura non siano esattamente le scelte e le azioni, diciamo così, positive o che vanno a buon fine, ma siano proprio quelle che non solo finiscono male ma sentiamo e sappiamo che potevano finire meglio o diversamente se solo ci fossimo comportati in maniera diversa. Se poi quelle scelte e quelle azioni fanno del male ad altri la cosa si complica ulteriormente. Freud, in proposito, scrive: “E perciò è pensabilissimo che anche il senso di colpa prodotto dalla civiltà non venga riconosciuto come tale, rimanga in gran parte inconscio o venga il luce come disagio, come una scontentezza, per cui si cercano altre motivazioni” [S. Freud, L’avvenire di un’illusione – Il disagio della civiltà, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2012; cap. 8].
Siamo di fronte a una distinzione di non poco conto, tra il senso di colpa verso una persona e lo stesso sentimento derivante da comportamenti collettivi. In ogni caso quello che conta, in primo luogo, è il riconoscimento o meno di quella emozione complessa che si traduce in un abbassamento dell’autostima della persona, in valutazioni negative delle azioni commesse e in assunzione di responsabilità. Ma questo accade sempre? Si verifica, cioè, in continuazione che chi vive un senso di colpa lo traduca in una crisi dell’autostima e in una valutazione negativa dei propri comportamenti, fino a cambiarli in futuro, rendendoli più appropriati? Insomma, il senso di colpa è sempre fonte di redenzione e di cambiamento? Pare proprio di no. E rispetto al tema della vivibilità e del nostro rapporto con la casa comune, con l’ecosistema di cui siamo parte e degli altri viventi terrestri, umani e non, una questione di particolare importanza da indagare è come mai la nostra presenza così evidentemente distruttiva non generi sensi di colpa. Non solo, ma forse ancora più importante è cercar e di comprendere come possa accadere che, pur generandosi sensi di colpa, noi mostriamo di essere così capaci di attivare spesso immediatamente meccanismi di difesa, di negazione e di rimozione tali da neutralizzarli e continuare come prima. Che la nostra vivibilità nei luoghi della nostra vita e sul pianeta che ci ospita sia evidentemente messa in discussione e in crisi, spesso irreversibile, dalla nostra azione e dai nostri comportamenti è evidente e ormai indiscutibile. E tuttavia la nostra perseveranza a non voler cambiare è resa ancora più tenace dalle ragioni che esibiamo in forma di negazione, di rimozione e di elaborazione difensiva dei sensi di colpa. Questi ultimi insomma, almeno per ora, non ce la fanno ad attivare posizioni, comportamenti e atteggiamenti diversi e più appropriati a forme di vita armoniche con la natura di cui siamo parte. Quale può essere un motore di questa dinamica di difese e resistenze capaci di neutralizzare l’azione trasformativa che potrebbe derivare da una diversa elaborazione del senso di colpa? Un’ipotesi che si può formulare riguarda la via per la quale mostriamo di fare i conti con l’unica vera certezza della nostra esistenza, la finitudine e la morte. Noi siamo la specie i cui individui non solo muoiono sapendo di morire, come tutto ciò che vive, ma muoiono sapendo di morire; muoiono essendo certi e consapevoli della morte. L’angoscia che deriva da questa certezza è la più difficile da elaborare, ed è oggetto delle più straordinarie forme di rimozione e negazione. Tutti i sistemi di potere, da quelli sacri e religiosi a quelli militari e temporali, hanno a che fare con quella elaborazione. La stessa nostra creatività e la stessa produzione tecnologica potrebbero essere difficilmente comprese e spiegate senza riferirsi a quella elaborazione. Siamo noi stessi arrivati a sentirci dèi.
La storia è densa di processi di divinizzazioni e di culti basati sull’attribuzione di divinità a esseri umani, seppur perituri. Così come è densa di ricerca di durata fino al delirio dell’eternità e della reincarnazione. In questo nostro tempo un equivalente di quel delirio è dato dalle scelte di ibernazione. Le prove più evidenti vengono però dalla quotidianità e dal modo in cui ognuno cerca di segnare in modo indelebile il proprio passaggio sulla Terra, sfidando così l’angoscia di morte. Il contrario di quanto contenuto nel titolo di un romanzo di rara profondità come Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni. Si può riconoscere perciò che siamo giunti ad elaborare l’angoscia di morte principalmente mediante percorsi invidiosi, che non solo non vedono o non vogliono vedere gli effetti dei nostri comportamenti e delle nostre scelte, ma mostrano di invidiare, appunto, le persone e le cose che vivranno e ci saranno dopo di noi. La potenza di questa istanza invidiosa appare capace di neutralizzare ogni senso di colpa, o meglio ogni possibile efficace e generativa sua elaborazione. Quella elaborazione generativa potrebbe derivare da un orientamento a fare i conti con la finitudine e l’inevitabile angoscia di morte per una via diversa: quella della gratitudine. Un sentimento di gratitudine per aver vissuto, per aver goduto della bellezza della vita e del vivente nelle sue molteplici espressioni potrebbe affermarsi, se un’adeguata educazione a vivere i sentimenti e le emozioni si diffondesse e indicasse la via di considerare la finitudine e il limite come le effettive condizioni delle nostre possibilità. Siamo di fronte a una scelta, che ancora una volta ha l’educazione, cioè la capacità di essere noi risorsa per noi stessi, al centro della nostra responsabilità.