Oggi l’emergenza delle emergenze è sicuramente il cambiamento climatico. Una sfida che, al momento, non sembra essere ancora diventata patrimonio collettivo. Ugo Morelli, su queste pagine, spiega benissimo, in modo chiaro, netto e veloce, il motivo: «Tendiamo a elaborare l’angoscia di morte con l’invidia per il mondo che vivrà dopo noi e, quindi, nei confronti di chi vivrà dopo di noi. Interviene, di fronte ai risultati della distruzione e al sentimento di figlicidio, un pervasivo senso di colpa, che diviene il principale ostacolo al pensiero e alle azioni per generare l’inedito». Un’intuizione che rivela perché ai politici, oltre a causa della loro corta visione tesa all’autoconservazione più che al bene comune, sembrino non interessare le previsioni, sostenute dalla ricerca, della comunità scientifica rispetto alle conseguenze, imminenti e già in atto, dei cambiamenti climatici. È un po’, anche, quel che accade rispetto al calo demografico: non si fanno più figli perché non si ha fiducia nel futuro o perché non ci interessa il domani? La conseguenza rischia di essere un circolo vizioso fatto di stagnazione cognitiva. Eppure non sembrerebbe così. Leggendo “Il tempo e l’acqua”, di Andri Snær Magnason, mi sono cimentato in un calcolo che l’autore ci suggerisce: quando è nata la mia piccola Carlotta, mio nonno (suo bis-nonno) Babbù (come lo chiamavo io da piccolo perché mi ricordava un gigante con lo stesso nome) aveva 95 anni. Età che Carlotta raggiungerà nel 2.112. Se anche lei dovesse poi avere un pronipote, alla stessa età di suo bis-nonno, questi spegnerebbe 95 candeline nel 2.207. Dalla nascita di mio nonno (1.922) al 2.207 ci sono 285 anni: anno più anno meno, è questo l’arco temporale di Carlotta che, allora, avrà conosciuto persone che lo coprono tutto. Mio nonno, invece, ha amato una pronipote che vorrà bene a qualcuno che vivrà nel 2.207. Il suo tempo, il nostro tempo, è il tempo di persone che amiamo, conosciamo e che ci influenzano. È il tempo su cui possiamo avere influenza diretta. Una cosa bellissima e una grande responsabilità. Ecco perchè non possiamo fallire ed ecco perché dovremmo proiettarci, tutti, un po’ più in là nel tempo, scrollandoci di dosso il senso di colpa che castra la nostra libertà, che impedisce l’azione e, dunque, il cambiamento.
Non esiste, fortunatamente, solo il senso di colpa “bacchettone”, quello che ci fa arrossire e che frena la nostra soggettività; quello che ci fa vivere alcune determinate azioni, o addirittura pensieri, come il tradimento dei nostri codici di comportamento interni, buona parte dei quali apprendiamo da bambini. Se pensiamo alle religioni, in particolare a quella cattolica, il senso di colpa è stato anche la via per esercitare il controllo, un modo anche subdolo perché l’autorità deputata al controllo è stata interiorizzata dalle persone. Il sacramento della confessione, ad esempio, è stato per molto tempo, ed è ancora, la via per assolvere, spesso autoassolversi, dai peccati commessi, quasi sollevandoci dalla responsabilità individuale. I sensi di colpa, invece, necessitano di essere rielaborati per prendere consapevolezza, appunto, delle responsabilità che abbiamo e innescare un cambiamento positivo, liberandoci dalla prigione fatta di principi e schemi preconfezionati, per respirare la libertà, evitando, così, di continuare a ripiegare verso il nostro ombelico, che è il modo migliore per finire capovolti. Ugo Morelli quando spiega il concetto di libertà sostiene che è la capacità, e la forza, di esercitare costantemente il dubbio che, però, non può restare un semplice esercizio estetico ma deve far maturare le decisioni che precedono l’azione. Altrimenti diventa una scusa per auto-dipingerci persone libere restando, però, impiantati in scarpe zeppe di cemento, sordi alle sollecitazioni che provengono dagli altri e ciechi di fronte al futuro.
In questi giorni siamo stati tutti colpiti dalle immagini, provenienti dall’Afghanistan, che mostravano genitori affidare i propri figli a sconosciuti in divisa. La lotta straziante tra la certezza della paura per il presente e l’incerta fiducia di poter sperare di vivere una vita migliore lontano da casa. Possiamo solo immaginare il senso di colpa provato da quei genitori, la sua rielaborazione e la decisione di provare a regalare la libertà ai propri piccoli. Se ci si ferma al senso di colpa, scegliendo di non affrontarlo, non ci potrà mai essere speranza né futuro. E ancora. Qualche giorno fa la piccola Mantoulaye è finalmente arrivata in Italia, anche grazie al grande lavoro di Anolf (Associazione Nazionale Oltre le Frontiere) della Lombardia. Nel suo paese, il Senegal, i medici non riuscivano più a curare la recidiva della leucemia che l’aveva colpita. I dottori italiani, analizzando il caso, hanno dato una speranza perché quel tipo di leucemia è trattabile nelle nostre strutture, come in quelle di tutti i paesi occidentali che dispongono di ricerca avanzata e di cure farmacologiche di ultima generazione. Un vittoria di chi non si rassegna alla lotteria della nascita: ricordarsi ogni mattina, e ricordare anche ai nostri figli, di essere nati nella parte fortunata del mondo non per un qualche merito ma, semplicemente, per aver strappato un passaporto di serie A alla lotteria senza neppure aver comprato il biglietto, credo sia un esercizio straordinario di cittadinanza attiva. È tanto, ma non basta. Certamente non dobbiamo viverlo come un senso di colpa così come non dobbiamo umiliare i bambini davanti al piatto che non vogliono finire ricordandogli, senza approfondimento alcuno, che ci sono, in alcune zone del mondo, loro coetanei che non hanno nulla da mangiare. La fortuna non può mai essere fonte di vergogna, ma deve essere il privilegio da mettere in condivisione e da cui partire per far scoccare quella scintilla capace di attivare socialmente le persone, anche i più piccini, favorendo la consapevolezza e un cammino nel solco della libertà di imparare dai propri errori, di provare a fare meglio, di impiegare diversamente e in modo accurato le risorse disponibili e nel cercare altre strade nel tentativo di riequilibrare l’ingiustizia di quel beffardo sorteggio del destino che assegna privilegi senza meriti e difficoltà senza colpe. Un po’ quello che hanno fatto i genitori di Mantoulaye che non si sono arresi al senso di colpa che paradossalmente può travolgere anche coloro che non sono stati premiati alla ormai nota lotteria della nascita. Fermarsi a piangersi addosso e a battersi il petto equivale, a volte, a scegliere di affidarsi alla monetina: di qua testa, vita, di la croce, morte. La speranza, invece, alimenta il cambiamento perché è un fatto concreto come la sete o la fame: «speranza di arrivare da qualche parte migliore, speranza di farcela, speranza di sopravvivere, di tenere duro, speranza di un lieto fine come al cinema» come scrive Alì Ehsani nel suo libro “Stanotte guardiamo le stelle”, raccontando la sua fuga dall’Afghanistan.
Potremo tuttavia tornare a guardare il futuro con speranza solo se, come si diceva, sapremo affrontare la grande questione del cambiamento climatico. Una sfida fondamentale che dimostra come tutti i problemi del mondo siano collegati e intrecciati oggi che viviamo l’Antropocene, anche se potremmo tranquillamente chiamare Capitalocene come ben spiega, su questo numero della rivista Passione&Linguaggi, Alessandro Picone. Già, perché è il nostro modello economico che ha prodotto effetti negativi all’ambiente, al nostro vivere sociale e alla nostra salute. Dall’inizio della Rivoluzione Industriale, che pure migliorò la vita di tantissime persone, il nostro modello di sviluppo iniziò a deturpare ambiente, paesaggi, acqua e aria. Magnason scrive che «il petrolio ha riscattato gran parte del genere umano dalla fatica e dalla povertà. Il problema è esserci buttati nel consumo eccessivo e negli sprechi, vivendo in un sistema in cui gran parte di ciò che produciamo finisce spazzatura o brucia come combustibile». Una battaglia anche, non dimentichiamolo, di giustizia sociale perché, oggi, a pagare il prezzo più alto del disastro ambientale in atto sono i paesi poveri, quelli più sfruttati e violati ma che non hanno tratto beneficio alcuno dallo sfruttamento delle risorse naturali. Possiamo ancora fare molto per evitare che si inneschino fenomeni incontrollabili e irreversibili di cui abbiamo già le avvisaglie. Ma ancora una volta occorrerà andare oltre il senso di colpa e il nostro sentimento di finitezza, proiettandoci nel futuro e agendo la libertà di scegliere e promuovere cambiamento, perché questa volta non c’è assoluzione che tenga davanti al tribunale degli occhi dei nostri figli e nipoti se non sapremo consegnare loro Nostra Madre Terra in condizioni migliori rispetto a quelle in cui loro stessi ce l’hanno affidata.