Stanno scaricando i loro problemi sulla società. E, come sapete, la società non esiste.
[Margaret Thatcher, discorso pubblico, 31 ottobre 1987]
Che cosa sarebbe, che cosa sarebbe
il piccone senza la cava
un impasto di corde e tendini
un ammasso di carne e legno
uno strumento senza altro splendore
che piccole luci sulla scena
Che cosa sarebbe – amore mio – cosa sarebbe
che cosa sarebbe il piccone senza la cava.
Un complice del rubapplausi
un servo antico in veste nuova.
Un sublimatore di divinità decadute
gioia mischiata a stracci e lustrini
che cosa sarebbe – amore mio – cosa sarebbe
che cosa sarebbe il piccone senza la cava.
[Silvio Rodriguez, “La Maza”, 1979]
- “Generazione Genova”
Ci siamo arrivati. Nel tempo della pandemia e delle sue ondate e beffarde varianti.
20 anni da Genova. E non possiamo passare oltre, buttarci nelle sfide quotidiane, voltarci da un’altra parte, fuggire ricordi che ci inseguono. Anche se in occasione del ventennale, a essere sinceri, di parole ne sono state pronunciate molte.
E’ stato scritto sul supplemento culturale del Corriere della Sera, alcuni anni fa, che la “generazione” dei nati tra il 1977 e il 1983, sia una generazione di passaggio. Saremmo gli “Xennial”, l’ultima generazione che ricorda bene il telefono fisso, il mondo prima della rivoluzione digitale, ma che poi si è comunque adattata al mondo che è cambiato.
Una generazione di mezzo, insomma, che si è provato a far crescere nell’illusione della “fine della storia” e che, però, non si è rassegnata alla fine della politica e, perfino, alla scomparsa dell’utopia.
Per chi ha vissuto l’impegno politico e sociale in prima persona la nostra è anche e soprattutto la “generazione di Genova”.
E’ quasi impossibile, quest’anno, sottrarsi alla retorica degli anniversari. Dopo molto silenzio, crediamo però anche che la nostra generazione abbia bisogno di incontrare e incontrarsi, parlarsi, rielaborare anche i fallimenti.
Nel 2017 un bello ed evocativo articolo di Carlo Bonini su Repubblica, ha ospitato l’allora capo della Polizia Gabrielli definire l’ordine pubblico e le torture di Bolzaneto e della Diaz, come una “catastrofe”.
Bonini iniziava il suo pezzo così: “Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare”. Questo assunto, se forse non è sempre valido nemmeno nei rapporti interpersonali o di coppia, certamente ci interroga rispetto a Genova 2001, un “ricordo ibernato, con una ferita che torna a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria”.
Una violenza, ha scritto giustamente Internazionale il 16 luglio 2021, “che ha dimostrato che in ogni momento la democrazia può essere sospesa e che ha modificato il rapporto di molti italiani con la vita politica e l’impegno civile”.
2. Vent’anni
Venti anni sono passati da una grande speranza e da una grande delusione e con i ragazzi nelle scuole e nelle Università che, oggi, di…Genova, quasi più nulla sanno e, certamente, più nulla ricordano.
Vent’anni che, nel mese successivo all’anniversario di Genova, sono stati anche segnati dalla improvvisa e dolorosissima scomparsa di Gino Strada e del collasso di quell’Afghanistan che, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, era stato il laboratorio dell’ideologia infausta secondo la quale la democrazia si può esportare con le armi.
Tornando a Genova, l’immagine che più ci è rimasta nella mente e che fa capolino più spesso, non è quella della paura, della mancanza del respiro, dei limoni nello zaino, del sangue vivo vicino a noi, è il momento del passaggio di fianco alla Chiesa multicolore sul lungomare di Genova, cosparsa di scritte multilingue sulla remissione del debito ai paesi poveri, qualche minuto prima che si scatenasse l’inferno o le mani bianche alzate della grande manifestazione per i migranti.
Oppure, ancora prima, ricordiamo come fossi oggi l’istante della scelta di esserci, mentre molti, anche dalle città, rinunciavano e tornavano indietro, in particolare dopo l’uccisione di Carlo Giuliani.
Non esiste un’unica narrazione di Genova, fortissime sono state le distorsioni, le manipolazioni, le rimozioni
Doveva essere la nostra prima grande manifestazione e ci ritrovammo in un campo di guerra. Eppure i giorni che avevano preceduto il 20 luglio erano stati bellissimi. La manifestazione dei migranti e il concerto di Manu Chao. Le nostre voci dal “Public Forum” echeggiavano in una atmosfera strana, insolitamente silenziosa, sospesa, eterna. Il mondo sembrava nostro. Riconversione ambientale, migranti, pace, disarmo, acqua, no-ogm, partecipazione e democrazia, cancella il debito, saperi, diritti globali, impronta ecologica e sociale. Qualcuno disse in un forum: “Questa è la prima generazione che non chiede nulla per se stessa”.
Il movimento di Genova era enormemente variegato, tanto da definirsi il movimento dei movimenti, non privo di profonde contraddizioni, ma è vero, non rivendicava nulla per sè, ma chiedeva attraverso un messaggio globale, universale, interconnesso “solo” un altro mondo possibile.
La nostra era una generazione che si era potuta permettere il lusso di sognare, in maniera del tutto innocente, ma fu svegliata a suon di manganelli. Quello fu il nostro vero primo rapporto con il potere e la sua violenza, ed eravamo soli, senza protezioni, senza riferimenti, senza partiti e senza sindacato. Nei giorni e mesi seguenti non fu facile, anche per chi di noi militava in grandi organizzazioni, far comprendere cosa fosse successo e trovare sostegno rispetto alla repressione subita o quantomeno veder riconosciuta e valorizzata quella straordinaria esperienza politica. Da allora abbiamo continuato a sognare e costruire l’altro mondo possibile, ma abbiamo sempre tenuto a debita distanza il potere, in tutte le sue forme più o meno istituzionalizzate, così come raramente è arrivata una sponda da parte delle Istituzioni per raccogliere almeno parte delle nostre ragioni.
Di lì a poco ci sarebbe stato l’11 settembre, poi la crisi globale e oggi un mondo, sempre più “terrorizzato”, anche dalla pandemia, in cui è in crisi prima di tutto la “percezione dell’avvenire”.
Ora il ricordo potrebbe prendere una piega un po’ scontata. Rimpiangere un mondo che non è più e al tempo stesso che non è stato.
Ci chiediamo se sia possibile un’alleanza nuova, pur in un contesto frantumato che tende a disperdere solidarietà e interconessioni.
Insomma, se allora sognavamo di “cambiare il mondo senza prendere il potere”, oggi che cosa sogniamo? Per cosa, come e con chi lottiamo?
3.“Avevamo ragione.” E quindi?
Oggi, di fronte all’aumento delle disuguaglianze, all’aggravarsi del cambiamento climatico, alle contraddizioni della pandemia è evidente la conferma che il sistema attuale non funziona. Nonostante i timidi tentativi del G20 sulla tassazione dei profitti delle multinazionali digitali, le conseguenze negative di una globalizzazione economica senza regole sono sempre più evidenti.
Oggi, dopo essere passati dalle menzogne della guerra umanitaria, alla sorpresa della guerra asimmetrica, alla apparentemente inevitabile terza guerra mondiale a pezzetti e al tempo del terrorismo e dello stato (permanente?) di emergenza e di eccezione, le idee-forza unificanti di Genova ci appaiono ancora più urgenti e necessarie.
Rispetto al luglio 2001, due sono le grandi fratture interrotte e sanguinanti da ricomporre.
Il concetto di rete, di unità nella diversità dei soggetti sociali che si ostinano a costruire dal basso “un altro mondo possibile e necessario”, e il tema di continuare a credere in una radicale prospettiva di cambiamento che non sia regressivo e non rappresenti la vittoria finale del turbo capitalismo nichilista, sia esso nella versione globalizzata sia esso nella rampante, illusoria e più recente versione neo-isolazionista.
Per dirla con Slavoj Zizek se “alle porte del nostro castello di declinante benessere bussano le miserie del mondo; i suoi conflitti esplodono nelle nostre città, come leggere questa nuova emergenza continua, il Nuovo Disordine Mondiale?”
Pur nella sua provocatorietà il filosofo sloveno ci ammonisce sul fatto che non ci possiamo limitare a “rispettare gli altri”, ma occorre offrire “una lotta, un orizzonte comune”.
E’ proprio questo che rimette in gioco ciò che abbiamo creduto e costruito da Seattle a Genova, passando per i forum sociali mondiali di Porto Alegre e quello europeo di Firenze. La capacità di connettere i temi e le esperienze in una scala globale, con modelli partecipativi orizzontali e inclusivi, arrivando a rappresentare le istanze di molti e a contestare la concentrazione dei poteri nelle mani di pochi.
Avevamo ragione noi sulle ingiustizie che governano questo mondo, allora come oggi.
4. Ripartire e ri-connettere
Da dove ripartire?
Se è vero che, come ha affermato Naomi Klein un paio di anni fa, il vero cambiamento rispetto ad allora è che la rabbia popolare contro il potere delle multinazionali oggi ancora più diffusa, sappiamo anche che la rabbia non basta e spesso, disperatamente, può trasformarsi in rancore senza un obiettivo preciso.
Ripartiamo dai nodi e dalle esperienze di democrazia partecipativa e attivazione comunitaria, dall’innovazione sociale e dal mutualismo solidale. Dalla carica emancipativa ed emancipante delle reti sociali e del lavoro: una lezione anche per il sindacato che non può più essere il luogo del passato e del presente, ma deve trasformarsi nella cerniera che permette di ricucire il futuro.
In questi anni, in tanti sono/siamo tornati al loro impegno monotematico, terrorizzati dal potere, ma anche dal fare rete con chi non ci è del tutto contiguo, uniforme. Non basta più.
Le microvertenze senza una visione d’insieme hanno armi spuntate; i soggetti che animano la società senza alleanze ampie e punti di vista eterogenei sono irrilevanti; le istituzioni rinchiuse nel loro fortino senza una dialettica con i movimenti sono svuotate e inutili. E in questo deserto di relazioni il potere e la ricchezza si concentra, sempre di più, sempre più lontano.
L’orizzonte comune, ancora la pandemia ce lo ha messo di fronte agli occhi, non può che ricostruirsi su scala globale: nelle filiere dell’economia interdipendente, nel nodo di un movimento sindacale sovrannazionale, così come dal riconnettere tutto ciò al tema del modello di sviluppo e di consumo, del “voto con il portafogli”, del raccordo tra territorio e globale, alla questione della libera e “comune” circolazione di una conoscenza cooperativa e non solo competitivo-egoistica.
E’ un tema di consapevolezza personale e collettiva che precede tutti discorsi geopolitici che possiamo produrre.
Viviamo, è vero, la crisi delle grandi associazioni, a ogni livello, nazionale, europeo, globale. Ma abbiamo anche molti strumenti in più, non solo virtuali. Sta qui l’intuizione necessaria che era già in nuce a Genova e che va con urgenza ripresa. Se non ci facciamo carico del debito dell’ultimo dei Paesi dell’America centrale, presto il debito, insieme alle riforme strutturali, schiaccerà anche noi.
Se non combattiamo contro le zone franche anti Lgbt in Polonia e non ci opponiamo all’artefatta dicotomia tra diritti civili e diritti sociali, ulteriore terreno franerà sotto i nostri piedi.
Tutto ciò vale per la violenza di genere, la compressione dei diritti democratici, sociali, ambientali, educativi, nella crisi della democrazia sovranazionale e nel connubio e nel sostegno incoerente e reciproco tra politica di potenza e, vero o simulato, “scontro di civiltà”. E’ da qui, da questa contraddizione e da questa consapevolezza che può e deve ripartire la politica, intesa in senso ampio.
Da qui possono ripartire le diverse generazioni, in primis quelle che hanno più interesse a correggere la rotta perché hanno più tempo per farlo. Con nuove forme, ma con la certezza che un nuovo mondo possibile è ancora necessario.
Anche perché quello che si staglia ogni giorno di fronte a noi appare sempre più irrespirabile e privo di speranza, ingolfato di vuoto e di cicatrici vecchie e nuove che sembrano non potersi rimarginare, insieme alla rabbia degli esclusi che non si sentono visti.
5. Resistere è curare
Occorrono nuovi occhi e nuovi sguardi per curare le “periferie esistenziali del pianeta”, nelle nostre città, come nel mondo globale che, come ci ha insegnato benissimo Genova, ma ancor più questi venti anni, sono enormemente e sempre di più interconnesse, mischiate, e per questo, però, almeno potenzialmente, anche più solidali.
No, non serve, aveva ragione da vendere, Bonini nel 2017: “dover continuare a camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro”, serve aver cura della propria memoria, delle proprie ferite, certamente insieme all’irrinunciabile necessità della ricerca di giustizia e di una buona memoria.
Serve ricominciare a nutrire e declinare la voglia, il desiderio, la passione di futuro che era nei nostri occhi di ventenni innamorati della poesia dell’impegno politico e sociale e che oggi incrocia una prosa diversa, difficile, talvolta disincantata, intrisa di solitudine e che fatica a trovare luoghi e linguaggi unificanti.
Una prosa, però, che può scrivere una nuova storia alimentandosi di una radice, questa sì, non solo una ferita, che è davvero sorprendentemente incancellabile. Almeno per tante e tanti di noi. Generazione Genova.