“Le mie azioni, io, le ho sofferte anziché compiute”: giunto a Colono dalla Tebe che lo ha scacciato, cieco e accompagnato dalla figlia Antigone, Edipo si difende così davanti ai vecchi dell’Attica riuniti nel bosco delle Eumenidi. Sofocle lo racconta mentre prova a giustificare le sue gesta, prima l’aver ucciso un uomo che gli aveva tagliato la strada e non sapeva essere il suo vero padre, Laio re di Tebe, e poi essersi unito e aver procreato con una donna che ignorava fosse sua madre, Giocasta, vedova del sovrano assassinato. Si è macchiato di una colpa che sarebbe diventata la Colpa per eccellenza e lì, nella città dove si è rifugiato, invoca una possibile comprensione: perché il destino ha prevalso sulla sua volontà, l’ha resa schiava e ha dettato il suo disegno. Può dunque dirsi colpevole se – come nella prima delle due tragedie che compongono il dittico dell’ingovernabile enigma dell’esistenza, “Edipo re” a cui segue appunto “Edipo a Colono” – non era nelle condizioni di sapere davvero che cosa stesse compiendo?
L’ambiguità insinuante del sentimento della colpa, della sua consapevolezza che si fa senso e procede sul piano obliquo tra autoassoluzione – per non aver commesso il fatto nel pieno delle proprie facoltà – e responsabilità – l’assunzione totale delle conseguenze e degli effetti di ciò che si è compiuto -, rischiando di slittare, deragliare, precipitare, è tutta nell’interrogativo che proviene dalla pagina di Sofocle. Sigmund Freud darà a questa domanda una risposta che colloca la vicenda edipica nel campo dell’inconscio, facendole assumere un ruolo chiave nell’elaborazione della dinamica relazionale: il Fato scende dall’Olimpo per insediarsi nelle profondità dell’animo umano. Ma l’affermazione di Edipo – “Le mie azioni, io, le ho sofferte anziché compiute” – attraversa i secoli e i millenni per guadagnarsi una laica problematicità. Può essere definita colpa qualcosa di cui non si ha contezza? Può dirsi colpevole colui che è inconsapevole dell’atto che consuma? Può chiamarsi volontà ciò che al contrario risulta puntualmente schiava del destino?
Eva Cantarella, anche nelle lunghe settimane dell’emergenza pandemica, si è sforzata di ripetere che le più funzionali chiavi interpretative del presente restano quelle fornite dal passato: rileggendo le pagine che Tucidide alla peste che colpisce Atene tra il 430 e il 429 avanti Cristo, ha individuato nel racconto de “La guerra del Peloponneso” il punto di svolta del pensiero responsabile, quando per la prima volta nella narrazione di un trauma non viene chiamato in causa l’intervento degli dei, del destino, di qualsiasi volontà superiore ed esterna che regoli e governi i comportamenti. Non è più considerato una punizione divina, ma una faccenda assolutamente umana. Ribadita e sottolineata questa verità durante l’imperversare del Covid-19, non è sembrato incongruo andare alla data del primo novembre 1755, quando Lisbona venne sconvolta da un terremoto di eccezionale gravità. L’anno dopo, nel 1756, Jean-Jacques Rousseau e Francois-Marie Arouet, cioè Voltaire, diedero vita a un serrato confronto sull’interpretazione dell’evento apocalittico: per Voltaire la sola responsabile di tale tragedia era la natura e, essendo questa muta, il qualcuno da interrogare era Dio; per Rousseau, al contrario, gli uomini ed esclusivamente gli uomini potevano essere gli imputati di una simile apocalisse. Per altro, già Immanuel Kant – con il primo dei suoi “Scritti sui terremoti” pubblicato il 24 gennaio 1756 – aveva proposto una spiegazione scientifica del sisma, indicando nella dimensione empirica e non più metafisica la possibilità di trovare risposte. La responsabilità che succede alla colpa. Di fronte a un trauma, è al senso di responsabilità che occorrerebbe fare ricorso. Alle lezioni che provengono dagli sconvolgimenti subìti. Alle indicazioni maturate dai saperi. Alle motivazioni suggerite da una politica accorta e sensibile alle priorità di una comunità: la tutela del paesaggio, la sicurezza degli edifici, la garanzia dei servizi, l’efficienza degli strumenti di intervento. Alla grana delle esperienze che il tempo consegna. Alla visione di un avvenire autenticamente civile per i luoghi fragili e per coloro che ancora li abitano. Il senso di colpa ostentato come la liturgia posticcia di un pianto rituale farebbe rievocare la funzione del sacrificio di cui scriveva Girard: una cerimonia in grado di placare le violenze intestine e impedire lo scoppio di conflitti. Ma in una società democratica l’acquisizione della responsabilità è il motore del conflitto: trova il suo simbolo nel gesto declinato secondo la sintassi dell’etica del lavoro e della vita alla Max Weber che si incontra ne “La chiave a stella”, nella descrizione della perizia tecnica dell’operaio Tino Faussone il quale gira il mondo a montare le apparecchiature della sua fabbrica con l’esemplarità che sarebbe stata il calco di Vincenzo Buonocore protagonista de “La dismissione” di Ermanno Rea, dell’esperto che riversa ugual talento nello smontare i macchinari della sua Ilva di Bagnoli venduta ai cinesi. Il sogno della fabbrica che avrebbe dovuto riscattare Napoli e schiodarla dallo stereotipo della cartolina immobile mentre la Storia altrove va avanti. Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Pura pratica di responsabilità personale che interviene su una colpa commessa.