Il primo dicembre 1955, a Montgomery, una donna nera scelse di non cedere il suo posto sull’autobus a una donna bianca come era uso durante quegli anni bui. Rosa Parks, forse, non immaginava che il suo gesto avrebbe dato un duro colpo alla segregazione razziale negli Stati Uniti. Ma scelse comunque di agire, senza fare calcoli tra costi e benefici. Lo fece, come scrisse nella sua autobiografia, perché era stanca di cedere. La Parks venne arrestata ma la forza di quel gesto e la potenza dell’esempio divennero il simbolo di una lotta non violenta, in grado di generare altri gesti, altre azioni e di scuotere la coscienza della società civile che era rimasta, ancora, alla fermata di quell’autobus, sotto un diluvio di indifferenza. Senza ombrello. Nella capitale dell’Alabama un boicottaggio dei bus che durò 381 giorni, e che poté contare sul sostegno dei taxisti neri che abbassarono le tariffe delle loro corse al livello del prezzo del biglietto dell’autobus, mise al tappeto l’azienda di trasporto locale mandando in rosso i suoi conti. Il 13 dicembre del 1956 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la segregazione sui mezzi pubblici. Di fronte ad azioni del genere fanno quasi tenerezza le scuse scomposte dei calciatori italiani agli Europei di calcio per giustificare la loro scelta di non volersi inginocchiare contro il razzismo (per ricordare la brutale violenza di cui fu vittima George Floyd, a sostegno del movimento Black Lives Matter e contro il razzismo) marcando la distanza tra agire e restare fermi, tra scegliere di schierarsi ed essere indifferenti. Purtroppo non basta inginocchiarsi per far sparire il razzismo, lo so. Ma visto che i calciatori sono tra i personaggi pubblici più seguiti (purtroppo) e imitati dai bambini (basta vedere e ascoltare come si immedesimano in loro i bambini quando giocano anche nel parchetto del paese) credo abbiano il dovere di svolgere con responsabilità il ruolo di esempio di cui godono, spesso immeritatamente, sensibilizzando tutti su un tema fondamentale come la lotta alle discriminazioni e al razzismo. Un bambino incuriosito nel vedere il proprio beniamino inginocchiarsi potrebbe chiedere spiegazioni al genitore, facendo partire la catena delle responsabilità civili che creano consapevolezza e, quindi, cambiamento. Perché il gesto e l’azione determinano discussioni e dibattiti, oltre che prese di posizione. Fortunatamente l’Italia non è solo calcio e potremmo citare tanti esempi capaci di squarciare le nubi dell’indifferenza, facendo penetrare raggi di sole e speranza. Nel casertano esiste la bellissima realtà della NCO, la Nuova Cooperazione Organizzata, che spernacchia la camorra fino a sequestrarle anche l’acronimo che ricorda gli orrori della nuova camorra organizzata di Cutolo, perché, come ci insegna Ugo Morelli il linguaggio, che ha un grosso valore simbolico e progettuale, “crea mondi”. E in quel quel mondo, ora, morte e disperazione hanno lasciato spazio a una grande e solidale rete di cooperative che lavorano i beni confiscati alla criminalità organizzata restituendo benessere, lavoro, ottimi prodotti e futuro alla comunità. A Napoli esiste La Paranza, cooperativa nata sulla spinta di padre Antonio Loffredo 15 anni fa, che ha saputo rianimare il Rione Sanità e riaprire la Catacombe di Napoli unendo bellezza, opportunità lavorative e riscatto di un intero territorio. Realtà come queste hanno saputo centrare un risultato straordinario: hanno ri-consegnato a tutti, ai giovani in particolare, la libertà. Hanno liberato le persone da un destino di delinquenza, troppo spesso scontato e inevitabile, donando loro la libertà di poter scegliere quale strada percorrere, rendendole padroni del proprio destino. Un fatto stupendo perché non c’è niente di più bello che dare speranza alle persone, perché nella speranza l’essere umano fiorisce. È la forza del Terzo Settore, uno dei nostri presidi di impegno civico e convivenza civile, quello che don Virginio Colmegna definisce “un capitale enorme, nel nostro Paese: è tutta l’energia sociale, culturale, di partecipazione, di cura dell’ambiente nella sua complessità. Un capitale di relazioni e sapere che impropriamente chiamiamo Terzo settore, ma è soprattutto gente. Gente che si impegna in imprese sociali, cooperative, ma soprattutto nel mettere a disposizione di tutti il valore della solidarietà. La solidarietà, carica di questa energia, è un patrimonio che va investito nella Politica. La Politica con la “P” maiuscola”. E poi si potrebbe parlare anche di ciò che il giornalismo può fare per il bene comune. Mi viene in mente il bravissimo Alessandro Milan, giornalista di Radio 24, che in questi giorni ha pubblicato un podcast che ripercorre la storia personale e la vicenda giudiziaria di Derek Rocco Barnabei. “Io sono libero. Storia di un condannato a morte”. Sette puntate che sono un inno al giornalismo che sceglie di svolgere quel prezioso ruolo di educatore, che riempie il vuoto e il bisogno di educazione civica, che sa fare Politica, quella che si occupa del bene comune e della crescita collettiva. Milan decise di non far cadere nel vuoto un appello registrato di nascosto da Barnabei, un appello rivolto al Parlamento Europeo. Decise che quelle parole, quella vicenda, dovevano essere raccolte e trasformate in un impegno collettivo. Riuscì a intervistare diverse volte Barnabei e a organizzare, addirittura, una diretta radiofonica dal braccio della morte. Sensibilizzò l’opinione pubblica sull’orrore della pena di morte, favorì l’intervento di Giovanni Paolo II e contribuì alla crescita di una presa di coscienza politica e civile, in Italia e negli Stati Uniti. Non salvò Barnabei ma, a distanza di poco più di 20 anni, la Virginia, Stato che lo mise a morte, ha abolito la pena capitale, al termine di un percorso fatto di pressioni e mobilitazioni che partirono anche da quella vicenda.
Ecco perché Passione&Linguaggi ha voluto dedicare questo numero al “primato dell’azione”. Nel passato abbiamo già vissuto fasi storiche impegnative come quella attuale ma l’uomo, individuale e collettivo, è sempre stato in grado di far scattare la scintilla del progresso. Un cambiamento, quindi, capace di partire prima di tutto da ognuno di noi, come tutti questi esempi ci ricordano e come diceva Gandhi. “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. È proprio questo il comandamento che ha dato via a tante piccole e grandi rivoluzioni.
È la via per toglierci dall’imbarazzo di banali scuse con cui consoliamo e coccoliamo le nostre comodità e certezze: “non posso”, “non fa per me”, “è una cosa più grande di me”, quando invece la Storia e la vita quotidiana è piena di azioni che dimostrano che nulla è impossibile e che indignarsi non è sufficiente, e forse è inutile, se poi non ci si attiva, in prima persona, per rimuovere le cause che generano ciò per cui ci si indigna.