«È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego. Se quasi mai […] la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata […]. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi princìpi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l’uomo soffre nella società. L’uomo ha sofferto nella società, l’uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l’uomo che soffre? Cerca di consolarlo. Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo»: a rileggere oggi le parole scritte da Elio Vittorini 76 anni fa non si può non coglierne la straordinaria tensione ideale, tale da trascendere addirittura il frangente storico in cui venivano espresse per diventare una sorta di messaggio all’umanità a venire. Il suo appello assume così la fisionomia di un manifesto per la ricostruzione tout court, al contempo di una società e di una cultura. È l’invito a forgiare una nuova cultura che, lontana dalla tradizionale opera di consolazione di cui si era sempre fatta portatrice, collabori attivamente nella costruzione di una società migliore: un appello alla «trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze […], il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo».
Quest’ansia porta Vittorini a cimentarsi nel progetto de “Il Politecnico”, il cui primo numero apparve il 29 settembre del 1945, praticamente pochi giorni dopo la fine ufficiale della seconda guerra mondiale. La rivista, da lui diretta, raccoglie le firme più prestigiose della cultura italiana che stava riaffiorando dopo il fascismo, il periodo bellico e i progetti di sterminio etnico, politico e sociale. Vittorini inaugura le pubblicazioni con uno scritto programmatico dal titolo Una nuova cultura, in cui esprime un atto di accusa che coinvolge il ruolo della cultura nella sfera pubblica della politica, la sua incapacità di modificare il reale, di incidere in senso sociale e politico sulle strutture della realtà per configurare diversamente le geometrie dell’esistente. Per lui, «la società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché […] i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura» (E. Vittorini, Letteratura arte e società. Articoli e interventi 1938-1965, Einaudi, Torino 2008 pp. 235).
Nel concepire la cultura non soltanto come fine, ma anche come mezzo per contribuire al disegno di una società migliore, Vittorini sfida e forza i tradizionali confini e la comprensione più invalsa che ha di se stessa la cultura e, problematizzando il nesso vitale tra attività culturale e attività politica, pensiero e azione, stravolge radicalmente il paradigma riguardo la natura e la funzione del sapere. Chiamando sul banco degli imputati, all’indomani della Seconda guerra mondiale, la funzione dell’intellettuale nella società, ambisce a rovesciare e trasvalutare quel rapporto tra teoria e prassi stabilito nella tradizione occidentale: il distacco spassionato, imparziale e soddisfatto dello spettatore – presupposto dalla nozione di teoria coltivata da Aristotele fino a Hegel, e dalla condotta morale e politica che essa alimenta (si pensi alla terza massima della “morale provvisoria” che Descartes evince dal metodo presentato nel Discours: «Vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna, e di voler modificare piuttosto i miei desideri che l’ordine delle cose nel mondo», Cartesio, Opere, vol. I, p. 146) – subisce qui un attacco frontale, perdendo di legittimità.
Infatti, se per Aristotele la conoscenza è la suprema attività umana, il suo compito primario dev’essere l’indagine delle cause prime di tutto ciò che è: paradossalmente, a rendere attivo l’umano sarebbe la conoscenza delle cause che lo determinano, così che non solo la sua attività sembra coincidere con la conoscenza della sua passività, ma è essa stessa parte di quella irrimediabile passività.
Limitandosi a interpretare il mondo storico-sociale e vietandosi di intervenire in forma attiva e concreta per modificarlo (perché la teoria è impotente dal punto di vista pratico: l’unica possibilità che ha di consolare), la cultura verrebbe meno a quello che rappresenta il suo compito più autentico e urgente: offrire una guida delle mete e dei fini, criticare la realtà per aprire un campo di virtualità, così da trasformarla a vantaggio dell’intero genere umano.
Nel volgere la cultura contro la sua autointerpretazione più canonica, spingendola oltre i suoi limiti tradizionali e impegnandola intorno a temi e secondo modalità inedite, anche l’attività politica ne risulta modificata: se la cultura ha sempre un valore anche politico nella misura in cui inclina a diventare azione, la politica è da intendere come parte della cultura, come cultura-diventata-azione.
Come precisa Benedetto Croce: «Se il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis […] è necessaria al conoscere, che senz’essa non sorgerebbe» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1966, p. 32). Parole che si ricongiungono alla definizione di Hannah Arendt: «La comprensione rappresenta l’altro lato dell’azione» (H. Arendt, Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, Feltrinelli, Milano p. 124).
In Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), Michel Foucault ricostruisce l’emersione, a partire dal XV e XVI secolo dell’Occidente moderno, di una certa maniera di pensare, di dire e di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa e con ciò che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri, che definisce come “atteggiamento critico”.
La critica si configura come un atteggiamento, una postura, un modo di essere: dal potenziale di vitalità pratica e intellettuale che emana dall’attività teorica scaturisce il momento della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni. L’obiettivo finale della “ragione critica” è un modo di stare al mondo, un rapporto con gli altri e con le cose. Essa avanza, insieme al momento negativo del rifiuto della situazione presente, l’affermazione di ciò che è desiderabile. Non viene mai meno la nozione d’un valore affermativo: se la contestazione è un atteggiamento chiave d’ogni suo giudizio, l’operazione del contestare non tende mai a essere riconosciuta come mera negazione ma come contro-affermazione. La funzione della critica non è solo strumentale e negativa, non consiste solo nel rifiutare gli errori. Essa apre alla costituzione di se stessi come soggetti autonomi: non mette in gioco solo il nostro sapere, ma anche la nostra libertà: «La critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità; la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata» (M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli editore, Roma 1997, p.40).
Impossibile, allora, non domandarsi che cosa resti della cultura in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile non perché proibito ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza; una società in cui l’agire viene avvertito come impossibile, e a dominare è ovunque un generale senso di impotenza, di mancanza di presa sugli eventi, di inibizione alla prassi.
Daniele Giglioli, in Stato di minorità (Laterza, Bari 2015), mette a fuoco il modo in cui la rinuncia al diritto all’azione che ha caratterizzato la modernità apra a una nuova “condizione di minorità”, in cui i soggetti sono autoespropriati della propria potentia agendi. Uno scenario che è l’esatto opposto di quello prefigurato dal motto della modernità sintetizzato nel “manifesto di ortopedia politica” di Immanuel Kant: «Camminare da soli, con la schiena dritta, gli occhi aperti e il coraggio di chi la pensa con la propria testa» (E. Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli, Milano p. 29).
Si tratta della perdita della capacità della società a trasformarsi essa stessa in attività politica, che nasconde un accentuarsi della sfiducia nella storia. È la rinuncia alla spinta rivoluzionaria, un momento di rinuncia storica che origina dalla perdita dell’umanità della fiducia nella capacità di indirizzare il corso delle cose, non semplicemente perché reduce da una sconfitta ma al contrario perché vede che le cose del mondo (dalla politica allo sviluppo della tecnica e al dominio delle forze naturali) procedono come da sole, parte di un insieme così complesso che l’unico sforzo possibile può essere applicato unicamente al tentativo di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo. Come scrive Myriam Revault d’Allones: «L’illimitatezza che dilatava l’avvenire dando all’uomo non solo il potere di conquistare tutto, ma anche quello di costruire se stesso – di fare la storia e di fare storia -, si è oggi tramutata in disillusione, o meglio in spavento e terrore» (La crisi senza fine, ObarraO, Milano 2014, p. 109).
La cultura occidentale ha costruito la sua storia a partire dalla speranza, carica di promesse messianiche, di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza e alla giustizia sociale. A partire dal XIX secolo, la fiducia ottimistica nell’idea dell’umanità come progetto in fieri proteso verso il meglio ha cominciato ad essere incrinata, e nel momento stesso in cui le scienze, la politica e la filosofia promettevano all’uomo una felicità terrena che superava in ambizione, dettaglio e creatività molte delle descrizioni dell’al di là propagandate dalle vecchie religioni, ha preso sempre più consistenza il sospetto nei confronti del progresso. La convinzione che ha fatto la forza dell’Illuminismo si è progressivamente sgretolata, e il XX secolo ha portato forti argomenti in favore di una concezione “abderitistica” e “terroristica” della storia. L’immagine dell’umanità artefice del proprio destino, capace di realizzare nell’al di qua temporale le promesse della religione di libertà ed emancipazione, ha lasciato il posto all’impotenza collettiva dinanzi ai grandi cambiamenti. Il futuro, non più luogo di progresso, si presenta ora come costante degenerazione. La promessa della libertà e dell’abbondanza materiale è divenuta la premessa del collasso ambientale come ultimo lascito della moderna società industriale. E questo tramite un meccanismo che riesce a produrre così tanto da portare all’implosione dell’ecosistema, e di farlo in maniera così ingiusta da conservare una straordinaria diseguaglianza di accesso alla sua iper-produzione. Il futuro, insomma, ha cambiato segno: la promessa è diventata minaccia (Cfr. M. Benasayag, G. Schmitt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004).
Accade che nel momento in cui viene meno la fiducia nelle capacità della società di trasformarsi attraverso l’attività politica, e dunque l’idea della società come progetto da mettere in atto collettivamente tramite un’azione orientata da un orizzonte di senso, la politica non si manifesta più come iniziativa, ma si riduce alla sua dimensione essenzialmente reattiva, e la cultura regredisce alla sua configurazione “consolatoria”.
Dall’idea dell’umanità capace di costruirsi da sola, si è passati all’idea che essa sia abbandonata all’impotenza assoluta sotto il vincolo delle contingenze. A scomparire è l’idea del futuro come campo d’azione per le iniziative dell’umanità, mentre il paesaggio sociale, risultato di un processo storico, appare sempre sempre più come se fosse naturale: «Come se questo labirinto che abbiamo visto chiudersi pezzo dopo pezzo attorno a noi fosse qualcosa che c’è sempre stato, qualcosa su cui lo sguardo scorre come su una superficie uniforme» (I. Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 81.)
Occorrerebbe, invece, riconoscere che «non c’è alcun vincolo di necessità ontologica nello stato di impotenza presente: è il risultato congiunto di tattiche e strategie, attacchi e contromosse, successi ed errori. Non è un ambiente naturale, ma è un mondo umano prodotto dagli umani sulla base dei loro rapporti di forza» (D. Giglioli, Stato di minorità, cit. p. 74).
Mark Fisher ha ricordato: «Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’“ordine naturale”, deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano» (M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma p. 51). E il primo passo per un’azione trasformativa è allora «rescindere il nesso di complicità con un assetto di potere […] desolidarizzarsi con quelle parti di sé che ne garantiscono il funzionamento» (D. Giglioli, Stato di minorità, cit. p. 78).