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Intervista immaginaria: Alessandro Picone con Erik Olin Wright

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

Erik Olin Wright, uno dei maggiori meriti del suo saggio Per un nuovo socialismo e una reale democrazia, che nella sua edizione originaria del 2018 suona con un più perentorio How to be an anti-capitalist for the 21th Century, è di far compiere un passo avanti all’affermazione “un altro mondo è possibile”. Si tratta di una speranza che tende a sfuggire a ogni datazione temporale per diventare una sorta di dichiarazione di speranza palingenetica e anche un po’ utopistica. Ecco, lei rompe questo vincolo e insedia il lemma nella realtà. Per dire: certo, un altro mondo è davvero possibile perché potrebbe migliorare le condizioni per uno sviluppo realmente umano per la grandissima parte della popolazione e perché gli elementi di questo nuovo mondo sono già presenti nel mondo d’oggi e quindi esistono concrete possibilità di muovere da uno scenario all’altro. Qui la invito a compiere un ulteriore movimento in avanti e a delineare la strategia per giungere a tale risultato. 

«Mi pare di capire che si intenda cogliere quali possano essere gli agenti della trasformazione. Bene. Nella visione strategica dell’erosione del capitalismo, il problema più spinoso è come creare attori collettivi sufficientemente compatti e capaci di lotta per sostenere nel corso del tempo il progetto di sfidare il capitalismo. Per creare un mondo migliore, non basta avere una corretta diagnosi critica del mondo quale è oggi e una solida convinzione che le alternative al capitalismo siano auspicabili e praticabili. E non basta neppure disegnare le strategie che potrebbero portare in quella direzione. Per rendere effettivamente attuabili quelle alternative devono esistere degli agenti politici in grado di realizzarle. Ma dove sono gli attori collettivi?». 

È esattamente ciò che le chiedo. 

«In primo luogo vogliamo chiarire perché gli attori collettivi sono fondamentali per rendere plausibile la strategia di erosione del capitalismo. Discuterò poi l’idea di “agente”, nonché tre concetti che sono particolarmente importanti per il problema della costituzione degli attori collettivi: identità, interessi e valori. 

Il problema che abbiamo davanti è di come navigare nel mare delle complessità implicite nel creare efficaci attori collettivi per la trasformazione sociale nel mondo di oggi. Non sarò in grado di dare una risposta concreta alla domanda “dove sono questi attori collettivi?” ma spero di riuscire a chiarirei compiti da affrontare per crearli». 

Cominciamo. 

«L’erosione del capitalismo combina quattro logiche strategiche diverse: resistere al capitalismo, fuggire il capitalismo, mitigare il capitalismo e smantellare il capitalismo. In ognuna di queste sono coinvolti diversi generi di attori collettivi e diverse coalizioni. 

Resistere al capitalismo è al centro della maggior parte dell’attività del movimento sindacale e di molti movimenti sociali che si oppongono alle depredazioni del capitalismo. Esempi contemporanei ne sono le mobilitazioni e occupazioni episodiche per protesta contro l’austerità.  Fuggire il capitalismo è la strategia dell’attivismo comunitario fondato su un’economia sociale e solidale e sul mercato cooperativo. Talvolta queste azioni possono coinvolgere ampie federazioni di gruppi organizzati in base a forme non capitalistiche di attività economiche; talvolta invece gli attori collettivi possono essere di misura molto ridotta, fondati su spazi locali disponibili per la creazione di rapporti economici non capitalistici. 

Né la resistenza né la fuga comportano azioni rivolte alla conquista del potere statale. Invece sia lo smantellamento che l’indebolimento del capitalismo comporta un cambiamento delle regole del gioco, non semplicemente di muoversi entro le regole esistenti, e perciò tali strategie esigono un’azione politica diretta alla conquista del potere, almeno in qualche misura, all’interno dello Stato». 

Mettere le briglie al capitalismo, come si diceva un tempo. 

«Io uso il verbo mitigare. Mitigare il capitalismo significa neutralizzarne i danni, specialmente attraverso garanzie e provvedimenti di vario tipo offerti dallo Stato. Smantellare il capitalismo significa trasferire certi aspetti del diritto di proprietà dal controllo privato a quello pubblico, e sottrarre al mercato e al controllo degli investitori privati la fornitura di una serie di beni e servizi. La logica primaria di erodere il capitalismo è perciò che questi cambiamenti nelle regole del gioco imposti dall’alto possono ampliare lo spazio per la costruzione dal basso di alternative ai rapporti economici capitalistici così da minare, con il tempo, il predominio del capitalismo. 

Uno degli aspetti positivi di questo complesso strategico è che esso attribuisce un posto adeguato e legittimo ad attività molto diverse che in modi diversi si oppongono al predominio del capitalismo. Non vede come antitetici l’attivismo comunitario, che fa perno sull’economia sociale e solidale, e l’attivismo politico nel campo dello Stato, ma ne vede la possibilità di diventare complementari». 

Non è facile, converrà. 

«È vero. In termini pratici ciò non è sempre facile, specialmente per la profonda diversità delle organizzazioni che attuano queste diverse forme di strategia anticapitalistica. In ogni caso, non bisogna vederle come intrinsecamente antagonistiche. Nella strategia di erosione del capitalismo le perplessità maggiori riguardano la creazione di vigorosi attori collettivi capaci di agire politicamente per sfidare e cambiare le regole del gioco del capitalismo, in senso progressista. Lei citava prima il proposito di mettere le briglie al capitalismo e il dibattito all’interno della sinistra italiana, europea ed occidentale si è a lungo soffermato su questo obiettivo, evidentemente senza trovare una soluzione autenticamente praticabile». 

Con l’esito che il capitalismo da imbrigliare pare essere sfuggito di mano, rappresentandosi in forme diverse ma comunque aggressive. 

«Questo è stato per tradizione il ruolo che hanno svolto i partiti politici. Altri tipi di organizzazioni e associazioni possono svolgere un ruolo politico attivo in favore del cambio sociale in senso progressista: lobby, organizzazioni di interessi di ogni tipo, sindacati, organizzazioni comunitarie, movimenti sociali e molti altri. In alcuni tempi e luoghi, alcune di queste organizzazioni possono avere un effetto decisivo sulle prospettive per un’azione statale progressista. Ma perché questi attori collettivi inseriti nella società civile siano veramente efficaci al fine del cambiamento delle regole del gioco, è necessario che si colleghino con partiti politici progressisti in grado di agire direttamente entro lo Stato. Infine poi la strategia di erosione del capitalismo dipende dall’esistenza di una rete di attori collettivi inseriti nella società civile e di partiti politici impegnati nello stesso progetto. 

La questione è allora come sviluppare il processo di creazione di questi attori collettivi interconnessi in grado agire politicamente. Per essere più precisi dobbiamo intraprendere un’escursione entro un tema classico della teoria sociale: il problema dell’agente collettivo». 

Procediamo. 

«La teoria sociale è fitta di discussioni relative a ciò che talvolta viene definito il problema struttura/agente. Molte di queste discussioni sono assai astratte e spesso oscure. 

Le questioni si inseriscono in alcune delle grandi linee di frattura che percorrono la teoria sociale su argomenti quali l’individualismo metodologico contro la teoria dei sistemi, la teoria micro contro quella macro, la contingenza e la determinazione, e la natura della spiegazione della scienza sociale. Non ci occuperemo di tali questioni, vogliamo solo chiarire l’idea di agente, specialmente l’agente “collettivo”, e quindi di delineare qualche precisazione circa il problema di creare attori collettivi efficaci per la lotta contro il capitalismo». 

Ma lei che cosa intende per agente? 

«Come nozione astratta e generale, l’idea di “agente” si riferisce al fatto che le persone – secondo l’espressione usata da Goran Therborn nel suo libro The Power of Ideology and the Ideology of Power, pubblicato nel 1980 – sono “iniziatori coscienti di atti in un universo di significato”. 

Le persone non sono semplicemente programmate per seguire dei ruoli scritti in un copione; sono iniziatori di atti, spesso con considerevole intelligenza, creatività e improvvisazione. 

Esse naturalmente agiscono entro un contesto di ostacoli e limitazioni generate dalla struttura sociale in cui sono inserite, o anche interiorizzate come credenze e abitudini. A volte le possibilità di iniziare azioni autonome sono seriamente compromesse; a volte invece ostacoli e limitazioni sono più allentati. Ma gli esseri umani non sono mai robot». 

Lo dice bene oggi, in un contesto segnato ormai dall’ automazione spinta. 

«Conviene, dunque ribadirlo con forza. I teorici della società danno un diverso rilievo alle figure dell’agente umano nella loro spiegazione dei fenomeni sociali. A un estremo ci sono i cosiddetti “strutturalisti” che considerano le persone come semplici portatori dei rapporti sociali entro i quali si trovano a vivere; per loro pensare che noi siamo autori dei nostri atti è un’illusione. All’altro estremo ci sono quelli che quasi negano la rilevanza della struttura sociale: le persone sono costituite da soggettività complesse e interrelate mediante le quali esse formano la propria identità e agiscono nel mondo. 

Le persone sono coscienti iniziatori di atti, benché siano anche creature di abitudini inconsce e agiscano spesso in base a ruoli definiti in un copione. Questo è un punto molto critico, perché se davvero le persone fossero agenti in questo senso, non ci sarebbe alcuna ragione di scrivere libri sui danni generati dal capitalismo, sulla necessità di un’alternativa e sui problemi per realizzarla. La possibilità di una strategia dipende dalla possibilità delle persone di essere coscienti iniziatori di atti. 

L’idea di agente si applica sia agli individui sia, in modo più complesso, alle collettività. Il passaggio dalle entità individuali a quelle collettive è un altro campo minato della teoria sociale, in quanto le collettività non “agiscono” nello stesso senso degli individui». 

Lei chiama in campo l’azione politica. Non è così? 

«Un’affermazione come “la classe capitalistica si oppose al New Deal” potrebbe significare all’incirca “molti capitalisti si opposero al New Deal”, oppure “organizzazioni e partiti politici che rappresentavano gli interessi della classe dei capitalisti si opposero al New Deal”, o ancora “alcuni potenti appartenenti alla classe dei capitalisti, collegati mediante reti sociali e associazioni private, si New Deal e altri capitalisti in generale si accodarono a loro”; ma una “classe” come tale non costituisce certo un cosciente iniziatore di atti. 

Gli attori collettivi hanno una base sociale, ma la base stessa non è un “attore”. Quando mi riferisco all’agente come attore collettivo mi riferisco perciò a vari tipi di organizzazioni e associazioni attraverso le quali le persone si uniscono per cooperare e perseguire i propri fini.  Talvolta possono essere organizzazioni strettamente coese, come i sindacati o i partiti politici. Altre volte l’idea di attore collettivo si applica a forme più sciolte di cooperazione per un fine, come coalizioni e alleanze, o anche in termini più leggeri come “movimenti sociali”. 

In tutti questi casi, le persone che costituiscono le organizzazioni, associazioni e coalizioni sono i coscienti iniziatori di azioni, ma il fatto che siano riunite per coordinare la loro azione mediante un’organizzazione significa che le loro azioni hanno acquisito un carattere collettivo, non solo individuale 

Gli attori collettivi sono il punto nodale per le prospettive di una trasformazione sociale emancipatoria». 

Con quali mezzi e strumenti? 

«Molti cambiamenti sociali avvengono “alle spalle” delle persone, come effetti non previsti dell’azione umana. Ma non è plausibile che le profonde trasformazioni sociali in grado di realizzare in concreto i valori di eguaglianza/equità, democrazia/ libertà e comunità/solidarietà possano essere semplicemente il sottoprodotto non previsto dell’azione umana. 

L’emancipazione del genere umano, se mai arriverà, esige una strategia, e ciò implica degli agenti. E dato che gli obiettivi della strategia sono delle istituzioni molto poderose, l’agente deve essere collettivo. E allora, di nuovo, dove sono gli attori collettivi?». 

Ritorniamo al punto di partenza? 

«Inevitabile. Ma ora dobbiamo ancora precisare tre concetti per iniziare l’analisi della questione: identità, interessi e valori sono le basi che si sovrappongono e si intersecano nella formazione degli attori collettivi. L’identità occupa un posto particolarmente critico nel plasmare la solidarietà entro l’attore collettivo; gli interessi sono fondamentali per definire gli obiettivi dell’azione collettiva; e i valori sono importanti per collegare le diverse identità e i diversi interessi e dare un significato comune. 

Nelle democrazie capitalistiche sviluppate di oggi esiste la diffusa che il sistema politico-economico non funzioni, e sia forse perfino in disfacimento. Sia lo Stato che l’economia sembrano incapaci di rispondere in modo coerente e creativo alle sfide del momento: adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico, per non parlare dell’intervento sulle cause; la crisi globale dei rifugiati, destinata a intensificarsi nei prossimi anni per il sopraggiungere dei rifugiati climatici oltre ai migranti economici e a quelli in fuga dalle guerre; crescente polarizzazione economica entro i paesi ricchi; la prospettiva di un futuro senza lavoro a causa degli effetti a lungo termine dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, o al massimo un futuro in cui le occupazioni generate dal mercato saranno o lavori molto ben pagati per individui al massimo livello di istruzione e di conoscenza, oppure lavori precari e malpagati. Il capitalismo, quale è oggi nel mondo, è il maggiore ostacolo ad affrontare seriamente questi problemi». 

Insomma, è invincibile? 

«Capisco come una delle reazioni possibili a queste tendenze possa essere l’amarezza e la condanna. Il capitalismo sembra inattaccabile. II dissesto e in certi casi la disintegrazione dei partiti politici tradizionali ha generato un senso di impotenza e di paralisi politica. Ciò ha aperto la strada al sorgere di un populismo di destra e nazionalistico. Si può facilmente immaginare un futuro in cui verrà accelerata l’erosione della democrazia liberale per scivolare verso forme di governo molto più autoritarie, anche se nominalmente ancora democratiche. Tali processi sono evidenti in alcune democrazie capitalistiche nelle periferie dell’Europa occidentale, e potrebbero verificarsi anche nelle democrazie credute più stabili. 

Ma questa non è l’unica possibilità. Il capitalismo quale esiste oggi nel mondo non deve rappresentare a tutti i costi il nostro futuro. Il rifiuto popolare del capitalismo è diffuso anche se manca la fiducia nella possibilità di un’alternativa di sistema. Si possono rintracciare ovunque sforzi di resilienza per fuggire le depredazioni del capitalismo e costruire nuove maniere di organizzare la vita economica. E si verificano seri tentativi di creare nuove formazioni politiche, a volte entro gli stessi partiti tradizionali della sinistra, a volte come partiti nuovi. Esiste veramente il potenziale per costruire un’ampia base sociale nuova era politica progressista. Le vicende della storia e l’azione degli attori collettivi decideranno se questo potenziale potrà realizzarsi». 

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