Intervista a Rossella Rossini di Rosario Iaccarino
Nello scorso maggio è uscito in libreria per i tipi di Edizioni di Storia e Letteratura un libro dedicato a Eleanor Roosevelt1, figura di spicco della cultura progressista degli Stati Uniti del Novecento, attivista nel Partito Democratico e impegnata sin da giovane nell’associazionismo per i diritti delle donne e contro le discriminazioni razziali, nonché promotrice della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove era delegata della sua nazione. Firma l’interessante volume la giornalista Rossella Rossini, che già nel 2017 per la stessa casa editrice aveva curato la traduzione di testi della Roosevelt, raccolti sotto il titolo Elogio della curiosità.
Rossini, parlare del suo libro è innanzitutto plaudire alla scelta di raccontare la storia e l’azione politica di una donna che ha dato impulso alla cultura dei diritti civili e sociali in Usa e nel mondo, indipendentemente dal fatto che abbia ricoperto, in quanto moglie, la carica di first lady accanto a Franklin Delano Roosevelt, presidente americano del New Deal. Perché ha scelto di scrivere un volume su Eleanor Roosevelt?
Ho avuto modo di conoscere e apprezzare Eleanor Roosevelt traducendo la raccolta da lei citata, composta da scritti e discorsi fino ad allora inediti in italiano ad eccezione di uno, per maturare poi nei suoi confronti un interesse crescente a mano a mano che procedevano le presentazioni pubbliche organizzate dall’editore, con conseguente arricchimento di contributi, chiavi di lettura e spunti provenienti dai diversi relatori. A una di esse, svoltasi a Roma presso la sede nazionale della Lidu, la lega italiana per i diritti dell’uomo, prese parte Furio Colombo. Fu in quell’occasione che nacque la nostra intesa, alimentata da un comune sentire verso una persona che lui aveva anche personalmente conosciuto in una sua giovanile vita americana. L’interesse per me si sviluppò in passione, inducendomi ad approfondire gli studi su questa figura, fino a decidere di dedicarle un libro.
Per la forte personalità e per la sua caratura culturale e politica, la Roosevelt sembrò interpretare in maniera originale il ruolo di first lady, proponendosi come una figura sia “di lotta” che di “governo”, a volte contrastando pubblicamente le scelte politiche del marito presidente. Lei ha passato in rassegna gli stili delle first lady americane; come definirebbe quello della Roosevelt?
Non erano mancate, prima di Eleanor, consorti del presidente degli Stati Uniti che avevano posto le basi per l’affermazione della moderna first lady non più solo come figura addetta a svolgere una funzione cerimoniale e sociale, intesa quest’ultima sia come social hostess, cioè padrona di casa e ospite, sia come benefattrice verso ceti bisognosi o delle arti, ma come “political presidential partner” – e questo passaggio fu favorito anche dai venti di emancipazione femminile che si erano levati a cavallo tra i due secoli e spiravano con forza crescente, tanto da condurre nel 1920 al suffragio femminile universale. Né sono mancate, dopo di lei, personalità forti che hanno assunto ruoli pubblici e politici, si sono fatte promotrici di cause civili e sociali e hanno preso parte attiva sia nel governo della nazione, sia nelle relazioni internazionali. Tuttavia molti elementi mi hanno indotto a trattare la figura della Roosevelt in un apposito paragrafo finale del capitolo cui lei fa riferimento, che apre il volume, sottraendola all’ordine non tanto cronologico, quanto di classificazioni e categorie omogenee cui si è spesso fatto ricorso per raccontare le prime cittadine che si sono succedute alla Casa Bianca. E non per dare maggiore risalto alla protagonista del mio libro, ma perché altre soluzioni rischiavano a mio parere di racchiuderla in una gabbia troppo stretta, non consona né alla ricchezza del personaggio, né all’ampiezza del suo campo d’azione. Con lei, infatti, si assiste a una svolta. La first lady supera la soglia non solamente, come ho già detto, delle funzioni puramente cerimoniali e sociali, ma anche quella di partner e supporto politico al marito, per inoltrarsi sul terreno nuovo di un impegno organico e di una responsabilità diretta su precise istanze, sia d’intesa con il presidente, sia perseguendo propri progetti di riforma. Progetti che portavano Eleanor a intrattenere rapporti costanti con i common Americans, in particolare attraverso gli strumenti della comunicazione (le lettere, le conferenze stampa alla Casa Bianca per sole giornaliste, le rubriche, cioè l’equivalente degli odierni blog, gli articoli, le conferenze pubbliche, le interviste e le trasmissioni radiofoniche), sia per sondarne bisogni e orientamenti, sia per veicolare le politiche dell’amministrazione e trasmettere ad essa, a sua volta, il polso della nazione, contribuendo all’adozione di specifiche politiche di relief. Lo stesso disegno la spingeva a lavorare con l’associazionismo femminile e attivo nella tutela e nella promozione dei diritti civili e con i movimenti pacifisti, antisegregazionisti e antirazzisti; a stabilire contatti intensi con i rappresentanti del mondo afroamericano, agendo talvolta in maniera autonoma rispetto a un presidente obbligato alla cautela per non infrangere i delicati equilibri interni del partito democratico, che Franklin Delano Roosevelt si sforzava di conservare. Di questo atteggiamento prudente faceva parte l’accorta “southern strategy” cui si atteneva per non perdere l’appoggio della delegazione democratica degli Stati del Sud al Congresso, condizionata dai voti dei suprematisti bianchi.
Un terreno politico conflittuale tra Eleanor e Franklin fu quello economico; la Roosevelt aveva posizioni più radicali a favore della spesa e degli investimenti pubblici, in specie nelle politiche di welfare. Ma fu sull’Economy Act, varato dal governo americano nel 1933, che si consumò un forte scontro, soprattutto per la penalizzazione delle donne nel mercato del lavoro. Ci racconta come andò la vicenda?
Andò così. La legge, varata da Franklin durante i primi cento giorni di attivismo della nuova amministrazione per combattere la Depressione, decurtava i pagamenti dovuti dal governo federale ai reduci di guerra e il monte salari dei dipendenti federali, eliminava o ridimensionava agenzie e commissioni, tagliava la spesa sanitaria e per l’istruzione e consentiva il licenziamento delle impiegate statali se anche i loro mariti avevano un impiego governativo. Durante la Grande Depressione, quando un lavoratore su quattro non riusciva a trovare un lavoro, si era diffusa l’opinione che le mogli di uomini occupati dovessero di loro spontanea volontà lasciare i propri impieghi e starsene a casa. Nel 1936, da un sondaggio Gallup emerse che la pensava così l’84% dei cittadini statunitensi. Questa opinione si basava, in parte, sull’errato presupposto che le donne lavorassero per una sorta di ‘paghetta’ ad uso personale, per comprarsi cose superflue. In realtà, in molte famiglie il salario della moglie faceva la differenza tra vivere in condizioni difficili e vivere con un po’ di agio; senza contare il fatto che anche laddove un secondo stipendio non era strettamente necessario ai fini del reddito familiare, il lavoro della donna poteva svolgere una funzione importante di autostima – come era stato per Eleanor, ora particolarmente sensibile di fronte a ogni tentativo di ridurre le opportunità di guadagno per le donne, avendo provato di persona la soddisfazione di guadagnare in proprio. Per combattere questo pregiudizio la moglie del presidente agì su più piani. Sul piano privato, incoraggiò Ettie Rheiner Garner, da lunghi anni segretaria del marito e riluttante a lasciare il suo posto di lavoro, a mantenere l’impiego. Sul piano pubblico, usò le conferenze stampa per giornaliste per sostenere il diritto delle mogli a lavorare, se lo desideravano; e quando i singoli Stati varavano leggi che autorizzavano il licenziamento delle mogli di lavoratori pubblici, usò quegli incontri per contrattaccare: “Per noi [donne] è estremamente importante che ciò non accada”, diceva.
Con lucidità, la Roosevelt avvertiva come la questione di genere rappresentasse un indicatore tra i più significativi delle disuguaglianze e ingiustizie sociali, e soprattutto avesse chiare le cause culturali e politiche da rimuovere…..
A questo riguardo mi preme ricordare un altro episodio. Quando i CCC (Civilian Conservation Corps) istituiti dall’amministrazione Roosevelt offrirono a giovani senza lavoro la possibilità di lasciare le città per guadagnare qualcosa in opere di manutenzione dell’ambiente, Eleanor lavorò con il segretario al Lavoro, Frances Perkins, per ottenere opportunità equivalenti per giovani donne. La risposta fu l’allestimento di campi femminili (She, She, She Camps) e benché a iscriversi fossero state circa 8.000 ragazze, a fronte di 2 milioni e mezzo di ragazzi, fu una vittoria che assestò un altro piccolo colpo alla pratica diffusa dell’uso di due pesi e due misure. Tuttavia il contrasto, come lei ha ricordato, era più ampio, le visioni del presidente e della first lady in economia divergevano radicalmente. Mentre lui, dal punto di vista teorico, puntava alla deflazione, al pareggio di bilancio e al taglio dei costi, lei invocava l’aumento della spesa pubblica e degli investimenti federali e locali a tutela di quelle che, a suo avviso, erano le fondamenta della democrazia: politiche abitative, assistenza sanitaria e istruzione, pena potenziali discriminazioni verso le donne, chiamate per prime a far fronte alle loro carenze. I contrasti divennero di dominio pubblico quando Franklin illustrò le sue posizioni scrivendo per la prima e unica volta un editoriale sul “Womens’ Democratic News” per chiamare la popolazione a sostenere l’Economy Act del governo federale e ulteriori riduzioni delle spese dei governi locali, da cui dipendeva, a suo dire, “il risparmio vero”. Lei contrattaccò dalla propria rubrica, sulla stessa pagina del giornale del partito, affermando che non era tempo di prosciugare la spesa locale destinata ai servizi pubblici più necessari per la popolazione: era tempo, piuttosto, di espandere i servizi resi dal governo. Il vero problema – scriveva – era di riscuotere le tasse dalle “fonti giuste”, e cioè dalle persone abbondantemente dotate di tutti i beni del mondo, o dalle imprese che fanno grandi profitti.
Decisive, nella formazione politica di Eleanor Roosevelt, furono le esperienze giovanili nel volontariato con immigrati e persone svantaggiate a Rivington Street, quartiere a forte degrado sociale di Manhattan. Nel libro lei racconta che Eleanor visitò più volte insieme al futuro marito, Franklin, quelle zone di estrema miseria, che alimentò in loro un desiderio di giustizia sociale che avrebbe trovato posto nelle politiche del New Deal qualche decennio dopo.
Giovane ragazza appena rientrata a New York dall’esperienza di studio nei pressi di Londra, Eleanor si dedicò ai primi impegni nelle attività di volontariato sociale e civile. Entrata nella neonata Junior League, gruppo che riuniva giovani ansiose di fare qualcosa di utile per la città in cui vivevano, accettò di lavorare a Rivington Street, in una delle numerose settlement houses che sorgevano in quegli anni: case di accoglienza e servizi alle quali facevano riferimento le persone e le famiglie più disagiate, soprattutto di recente immigrazione, che vi trovavano varie forme di aiuto e assistenza. A Rivington Street, situata nel Lower East Side, una delle zone più povere e pericolose della metropoli dove gli immigrati, prevalentemente italiani ed ebrei, vivevano ammassati in case fatiscenti, la futura first lady passava i pomeriggi fino a tarda sera facendo doposcuola a bambini sporchi e dagli abiti sdruciti, intrattenendoli con lezioni di ginnastica ritmica e giochi di danza. Vi arrivava con la sopraelevata o un autobus di linea, tagliando poi a piedi giù dalla Bowery: attraversava con terrore le stradine sudice e affollate di gente dall’aspetto straniero e uomini che uscivano ubriachi da alberghetti o saloon; ma adorava i bambini e loro si affezionavano a lei, riempiendola di orgoglio e di energie. Quelle ore, scrisse a Franklin, erano le più piacevoli della sua giornata. Una volta si fece accompagnare dal cugino, allora studente a Harvard, e insieme andarono a trovare una bambina che era stata malata ed era a casa. A lungo Franklin, sgomento, continuò a ripetere di non aver mai creduto che degli esseri umani potessero vivere in quel modo – riferendosi alle condizioni di estrema miseria in cui abitavano, stipate, le famiglie in quei caseggiati putridi e maleodoranti. Eleanor rimase sempre convinta che quelle visite a Rivington Street avessero avuto su di lui un impatto profondo e duraturo, forse alimentando già da allora il senso di compassione e di giustizia sociale che si sarebbe tradotto nelle politiche del New Deal.
Una forte passione civile e un attivismo in campo sociale che la portarono lontano dalla cultura alto-borghese della sua famiglia di origine.
Benché la famiglia non vedesse di buon occhio quelle attività di beneficenza, esercitando pressioni perché lasciasse per andare a trascorrere un’estate di riposo e svago, lei ne avvertiva il grande valore: era la prima volta che lavorava per migliorare le vite degli altri; inoltre, ciò rinnovava il sentimento di vicinanza con il padre che, da quando aveva sei anni, aveva accompagnato a servire i pranzi di Thanksgiving alla Children’s Aid Society e in altre strutture caritative. Così decise di andare avanti. Nel corso dello stesso inverno entrò in contatto con la Consumers’ League di Maud Nathan, che ne era presidente. La League svolgeva indagini non solo sulla salubrità e sulla sicurezza delle merci, ma anche sulle condizioni di lavoro e di sfruttamento della manodopera nelle quali venivano prodotte. Eleanor si unì a un’attivista più anziana ed esperta per fare qualche indagine in fabbriche di abbigliamento e grandi magazzini. Non aveva mai pensato a come potessero essere pesanti le lunghe ore trascorse in opifici male areati e carenti dal punto di vista igienico e dei servizi sanitari, né a quanto potesse essere faticoso il lavoro di una commessa, in piedi dietro un banco dalla mattina alla sera. Fu un’importante presa di coscienza. Inoltre, il contatto con l’associazione rappresentò il primo incontro con l’attivismo progressista femminile che si andava sviluppando in quegli anni, di cui la League era una delle espressioni più significative. Fu tramite il lavoro a Rivington Street e l’impegno nella lega che Eleanor, cresciuta nelle formalità di una rigida famiglia della upper class, venne a conoscere per la prima volta i lati meno gradevoli dell’esistenza umana; lei, fino ad allora tutta d’un pezzo e con un terribile senso del dovere, venne presa improvvisamente da una grande curiosità verso tutto ciò che la circondava e dal desiderio di partecipare a ogni esperienza possibile del destino di una donna, avvertendo una sorta di fretta e il bisogno urgente di entrare nel flusso della vita. Così nell’autunno del 1903, quando Franklin le chiese di sposarlo, lei, che aveva solo diciannove anni, non ebbe dubbi sul passo che si accingeva a fare.
Nell’attivismo politico della Roosevelt spicca l’impegno accanto alla comunità afroamericana. Siamo nei primi anni Venti del Novecento, nel pieno della campagna di violenza contro i neri orchestrata dal Ku Klux Klan. Recentemente, su Il Manifesto, lei ha ricordato quale fu l’approccio della Roosevelt sulla questione razziale, criticando di converso l’operato della vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, che ha invitato gli immigrati a “non venire” negli Usa….
Il “Non venite” pronunciato da Harris parlando in Guatemala in occasione del suo recente viaggio in America centrale è apparso perentorio e ingenuo a fronte del garbo, della lucidità e dell’umanità con cui Eleanor aveva affrontato sulle colonne della sua rubrica “My Day” il grande tema dei flussi migratori negli Stati Uniti e delle loro ragioni. Nell’articolo cui lei fa riferimento sottolineo che se, allora, in una di tali occasioni si trattava di cittadini provenienti da campi profughi europei: ebrei, jugoslavi, polacchi, ucraini e altre nazionalità, fuggiti o in fuga da fascismo, nazismo o da nuovi regimi imposti da dominazioni straniere, ancora oggi, fatte le debite differenze, la storia tende a ripetersi, compresa quella delle sempre più massicce migrazioni e delle loro matrici; dei pregiudizi e dei razzismi; delle ragioni politiche e dell’imperialismo che creano e abbattono regimi; delle ragioni economiche delle grandi potenze, siano esse nazioni o gruppi multinazionali, nel cui tornaconto può rientrare la convenienza a sfruttare la manodopera nel suo habitat di origine. Auspicando che quanti erano in condizioni di farlo rientrassero in patria, Roosevelt sosteneva con fermezza l’impossibilità di chiedere agli ebrei di fare ritorno in paesi dove li aspettavano ricordi tragici e amari e dove, spesso, non sarebbero stati graditi. Ammetteva che altri, fuggiti da paesi che nel frattempo avevano cambiato forma di governo, potevano a buon diritto preferire non farvi ritorno, per la semplice ragione che non si sarebbero sentiti liberi come lo erano prima che una dominazione straniera spazzasse quello che in precedenza loro avevano sostenuto. “Non sono necessariamente fascisti – scrive – e tutti dovremmo fare il possibile per aiutarli a rifarsi una vita”. Quanto alla battaglia di Eleanor a fianco degli afroamericani e contro tutti i razzismi, posso solo confermare che ha rappresentato uno dei tratti salienti del suo pensiero e della sua azione politica, civile e sociale, di cui hanno fatto parte anche gesti altamente simbolici, come il licenziamento del personale di servizio bianco assunto per lei dalla suocera, Sara Delano, per sostituirlo con servitori afroamericani, nella Washington di Wilson segregata e sconvolta dai disordini razziali dove i coniugi Roosevelt vivevano essendo Franklin Delano sottosegretario della Marina; o la campagna a favore del concerto della cantante afroamericana Marian Anderson, che poté esibirsi sulla gradinata del Lincoln Memorial di fronte a un pubblico misto di 75.000 persone, mentre la sua voce raggiungeva via radio milioni di americani dal nord al sud della nazione, dopo che al contralto erano state negate altre sale. Era il 1939. Mentre in Europa dilagavano fascismo e nazismo, oltreoceano il Ku Klux Clan scorrazza impunemente e i neri venivano linciati. “Sembra incredibile che mentre protestiamo contro ciò che succede in Germania noi permettiamo simili intolleranze nel nostro paese”, scriveva Eleanor.
Una vita dedicata all’affermazione dei diritti delle donne, che secondo la Roosevelt sono realizzabili solo se le donne scelgono di “essere soggetti attivi nella vita delle loro comunità e forgiare il futuro, o andare avanti per inerzia e nascondersi dietro agli uomini”. Un pensiero di grande attualità…
Che il pensiero della Roosevelt sulla questione di genere fosse di grande attualità lo dimostra in primo luogo la sua biografia. Pur appartenendo a una famiglia della classe agiata e pur essendo divenuta la moglie prima di un vice-ministro e poi del presidente degli Stati Uniti, Eleanor non ha mai rinunciato ad avere la sua vita, la sua professione e la sua indipendenza, anche economica. Pur avendo avuto sei figli, di cui uno perso in tenera età, insegnava in una scuola femminile, di cui era anche co-proprietaria, e gestiva una fabbrica di mobili. Era attiva nel partito democratico, di cui curava la pubblicazione del giornalino “Women’s Democratic News”. Militava nell’associazionismo, sia femminile, sia a sostegno degli immigrati e in tutela dei consumatori, sia volto a tutelare e migliorare le condizioni di lavoro. Teneva conferenze, parlava alla radio e scriveva: 1921 fino alla sua scomparsa nel 1962, Eleanor scrisse 27 libri, oltre 8.000 rubriche, 580 articoli e 850 saggi. Ricevette una media di 45.000 lettere l’anno, con picchi fino a 300.000 quando era first lady. Dal 1945 al 1948 la sua voce poté essere ascoltata via radio in 30 interviste o discorsi radiofonici e tra il 1948 e il 1961 fu ospite di 326 trasmissioni. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta affrontò con successo anche lo schermo televisivo, conducendo propri programmi e tavole rotonde. Alle cifre citate vanno aggiunte circa 150 conferenze l’anno, negli Stati Uniti e anche all’estero, spesso retribuite. Se poi alla biografia affianchiamo il suo pensiero, spesso dedicato proprio a promuovere i diritti delle donne, il quadro è completo ed è a tutto tondo.
Come scrive Furio Colombo nella bella prefazione al suo libro, le parole “progressista” e “conservatore” per la Roosevelt dividevano il mondo. C’è un’altra parola che informa l’azione politica di Eleanor Roosevelt ed è “curiosità”, ossia “il bisogno incessante dell’uomo di conoscere e fare di più che fa muovere il mondo”….
Proprio così, la curiosità per Eleanor Roosevelt è il motore del mondo. Lo afferma senza mezzi termini in un articolo da lei scritto nel 1935 per il “Saturday Evening Post” e intitolato, appunto, Elogio della curiosità. In questo articolo Eleanor non parla soltanto di curiosità intellettuale, o di curiosità artistica, o della curiosità che spinge gli scienziati a fare scoperte scientifiche o a rischiare la vita per scoprire qualche metodo nuovo che possa alleviare la sofferenza umana, ma definisce “tutt’altro che disdicevole” per una donna avere una molteplicità d’interessi. Spiega che il quasi innato interesse della donna per la casa non finisce all’interno delle sue quattro mura, bensì sta nel suo essere legata con milioni di fili al resto del mondo ed è questo che ne fa un fattore così importante nella vita di ogni nazione. Perciò, afferma, quando la gente dice che il posto della donna è dentro casa, “io dico con entusiasmo: si, certamente, ma se la sua casa le sta davvero a cuore, la sua premura la porterà a guardarsi intorno, in lungo e in largo”. Conclude l’articolo ricordando che le stelle tra loro sono lontane milioni e milioni di miglia, benché a volte ci sembrino così vicine, e non si sa se troveremo mai un modo per comunicare e viaggiare dall’una all’altra; ma per chi è privo di curiosità – sottolinea – può essere quasi altrettanto difficile colmare la distanza tra un essere umano e l’altro. A maggior ragione, aggiungo senza timore di non rispettarne il pensiero, se l’altro è diverso da te.
Bella l’intervista e il personaggio. Anticipazioni, le sue, ancora attualissime.
Grazie.
Bella l’intervista e il personaggio.
Anticipazioni, le sue, ancora attualissime.
Grazie.