Eravamo nel 1933, lei era già in disgrazia rispetto al regime di Stalin, viveva da emigrato interno prima di essere imprigionato in un lager, ed è stato travolto da Dante, studiando l’italiano attraverso la Divina Commedia…
Ero tornato alla poesia dopo il mio viaggio in Armenia nel 1930, grazie a un’amicizia, quella con Boris Kuzin, un giovane biologo: “Quando dormivo senza indole né volto / l’amicizia mi svegliò come uno sparo…”. Quando partimmo per la Crimea con Nadezda, nella valigia avevamo due cose preziose: il ‘Dante di Oxford’, Tutte le opere di Dante Alighieri nuovamente rivedute nel testo del Dr. E. Moore, 3.a edizione; e un chilo di pane, in vista della miseria che ci aspettava in una terra in cui si moriva per fame.
Come ha scritto la Conversazione su Dante?
Un giorno sono riuscito a procurarmi un mucchio di ruvidi fogli grigiastri e ho cominciato a dettare il testo a Nadezda. Volevo il mio Dante e un Dante che divenissi universale. La poesia di Dante non può essere parafrasata, descritta, riassunta. Il mio testo un poema critico. Un poema sulla poesia di un grande del Medioevo, di un grande del Novecento. È sempre in guerra la poesia. È sempre in moto, in cammino…
Nadezda dice che non sa dove lei avesse scovato una Divina Commedia di piccolo formato che aveva sempre in tasca…
Sì, perché Dante è un’immensa vena d’oro, una pioggia d’imprevisti, ha un potere galvanizzante, un dono che fa ringiovanire. È riuscita persino a strapparmi pur rari sorrisi, in pieno contrasto con la funesta epoca in cui, fino a un certo punto, sono riuscito a sopravvivere.