Non ho conosciuto personalmente Humberto Maturana, mentre ero amico di Francisco Varela. Difficile, tuttavia, separare questi due nomi, i teorici dell’autopoiesi, che negli anni ’70 contribuirono a mutare e a rinnovare il modo di concepire l’organismo vivente e il suo rapporto con la conoscenza.
Fu Humberto Maturana a coniare il termine “autopoiesi” (“autoproduzione”) per definire un sistema vivente. Ciò in un contesto teorico, scientifico e storico che rappresenta uno dei momenti significativi del ritorno di autonomia e di egemonia culturale del sapere biologico che, sulla scia della cibernetica e della teoria dei sistemi, rifiutava un approccio riduzionistico, cioè la pretesa della biologia molecolare di voler spiegare tutti i fenomeni della vita in termini di fenomeni molecolari. Come aveva osservato Paul Weiss, punto di riferimento di Maturana, uno degli inventori del termine “biologia molecolare”, il quale tuttavia rifiutò il riduzionismo: “non c’è alcun fenomeno in un sistema vivente che non sia molecolare, ma non ve ne è alcuno che sia soltanto molecolare. E’ sempre possibile trascurare la foresta per considerare solamente gli alberi, ma negare ogni realtà alla foresta diventa più grave, poiché non si tratta più allora di sola miopia ma di cecità volontaria”. Il rifiuto del riduzionismo non si traduce tuttavia nella ricerca di principi che siano esterni o estranei all’universo fisico. Come hanno scritto Humberto Maturana e Francisco Varela: “nessuna forza e nessun principio verrà addotto che non si trovi nell’universo fisico. Tuttavia, il nostro problema è l’organizzazione vivente e perciò il nostro interesse non verterà sulle proprietà dei componenti”. Maturana e Varela si inscrivono dunque in quella corrente di pensiero epistemologico che pone al centro della spiegazione e della comprensione dei fenomeni della vita i processi e non i componenti di un sistema determinato. Una corrente di pensiero a cui appartiene ad esempio il biologo Conrad Waddington, il quale, nel presentarci il suo approccio alla conoscenza dei sistemi complessi, dichiara la sua scelta per lo studio dei processi e si richiama alle filosofie naturali di Marx, Engels e Whitehead. Siamo dentro la nozione di complessità.
Ma che cos’e un sistema autopoietico? E un sistema omeostatico, chiuso, la cui unità dipende dall’interdipendenza dei processi che vi si producono all’interno e la cui identità discende dall’autonomia che esso realizza distinguendosi dall’ambiente. In questa definizione vi sono almeno tre termini che meritano ulteriori specificazioni: “omeostasi”, “autonomia”, “osservatore”.
Omeostasi. Parola inventata dal fisiologo Walter Cannon, il quale, influenzato dalle teorie fisiologiche di Claude Bernard (seconda metà del XIX secolo), volle indicare la capacità del vivente di mantenere il proprio equilibrio di fronte alle variazioni dell’ambiente esterno. L’idea di omeostasi sarà decisiva per le teorie cibernetiche e in particolare per il concetto di feedback (retroazione). Vale qui la pena segnalare che il principio dei sistemi autocorrettivi viene fatto risalire da Gregory Bateson oltre che a Bernard e a Cannon, anche, tra gli altri, alle teorie hegeliana e marxiana della storia. Siamo dentro l’approccio sistemico che mette in discussione l’idea stessa di macchina vivente così come era stata pensata dal meccanicismo di Descartes. Dalla macchina complicata si passa alla macchina complessa.
Autonomia. L’idea di autonomia di un sistema vivente, così centrale in Maturana e in Varela, deriva probabilmente anch’essa da Claude Bernard. Ma al concetto di autonomia non sono estranee alcune considerazioni polemiche contro la teoria dell’adattamento di Friedrich Nietzsche, le idee sulla vita del fisico Schroedinger, così come la teoria del biologo Jakob von Uexküll, un punto di riferimento e di confronto per filosofi quali Cassirer, Heidegger, Merleau-Ponty, Gehlen, Plessner. L’idea di autonomia, per dirla schematicamente, pone l’accento sulla distinzione fra sistema vivente e ambiente circostante, più che su corrispondenza e adattamento. Un sistema autopoietico è organizzato come una rete di processi di produzione di componenti che (a) rigenerano di continuo, attraverso le loro trasformazioni e le loro interazioni, la rete che li ha prodotti, e che (b) costituiscono il sistema in quanto unità concreta nello spazio. Sotto questo aspetto, qualunque sistema che risponda ai criteri dell’autonomia, dell’unità, della circolarità, che abbia un’organizzazione e una struttura capaci di realizzare i punti (a) e (b), è un sistema autopoietico; una cellula come un organismo complesso, che è costituito da un insieme di accoppiamenti di unità autopoietiche.
E’ sorta immediatamente la domanda se la nozione di sistema autopoietico valga solo per tutti i sistemi biologici e non anche per i sistemi sociali. In Autopoiesi e cognizione Maturana aveva affermato, in disaccordo con Varela, che i sistemi sociali sono sistemi autopoietici, ma nel secondo libro scritto in collaborazione, L’albero della conoscenza, Maturana e Varela dicono che “organismi e sistemi sociali umani non possono essere equiparati senza distorcere e negare le caratteristiche proprie dei loro rispettivi componenti”. Assai dubbia appare tuttavia l’esposizione della differenza fra organismi e sistemi sociali umani, basata sulla minore o maggiore autonomia dei componenti, che trova Sparta bizzarramente collocata tra gli insetti sociali e le società umane. Ma nella questione riguardante i sistemi sociali umani bisogna distinguere l’idea che i sistemi sociali sarebbero autopoietici in quanto sistemi biologici, dall’idea che la nozione di autopoiesi sarebbe applicabile ai sistemi sociali umani indipendentemente dal fatto che essi siano oppure no sistemi biologici. E’ questo il caso, per esempio, di Niklas Luhmann, il quale era tanto meno interessato al tasso di biologicità dei sistemi sociali quanto più lo era invece alla nozione di chiusura di un sistema o di un sottosistema umano e alle conseguenze teoriche che tale nozione aveva nel rapporto sistema-ambiente.
Osservatore. Includere l’osservatore nell’osservazione. Conoscere la conoscenza. Forse il modo migliore per sintetizzare tale questione è quello di riprendere il quadro di Escher, La galleria delle stampe, che Maturana e Varela, in L’albero della conoscenza, offrono come esempio. Un ragazzo guarda una stampa che riproduce una veduta della città, e tale stampa si trasforma nella parte della città che essa rappresenta. “Non sappiamo situare il punto di partenza – commentano Maturana e Varela -. Fuori o dentro? La città o la mente del ragazzo? Il riconoscimento di questa circolarità conoscitiva non costituisce tuttavia un problema per la comprensione del fenomeno della conoscenza, ma in realtà fissa il punto di partenza che permette la sua spiegazione scientifica”. Il nesso tra osservatore e circolarità conoscitiva portò poi Varela a tentare di collegare la tradizione epistemologica con la tradizione ermeneutica. Un punto sollevato dal fisico austriaco, nipote di Wittgenstein, Heinz von Foerster, uno dei protagonisti della nascita della cibernetica. E così, curiosamente, si verificò un fatto singolare. Mentre Martin Heidegger vide nella cibernetica il trionfo dell’uomo calcolante e il definitivo affermarsi del dominio della tecnica, scienziati ed epistemologi come Varela o Terry Winograd e Fernando Flores o Hubert L. Dreyfus cercarono nell’ermeneutica di Heidegger risposte epistemologiche all’indomani della seconda cibernetica e della messa in discussione proprio di quella figura dell’uomo calcolante e di una certa ideologia tecnologica. In fondo, il gioco può riprendere bene solo dopo che le carte sono state ben mescolate. Non fu qui tanto Humberto Maturana, comunque uomo e scienziato di vasti orizzonti culturali, a rimescolarle in questo senso, ma il suo allievo Francisco Varela, il quale cercando nella fenomenologia di Merleau-Ponty, in Heidegger e poi nel Buddismo tibetano del Dalai Lama qualcosa che non trovava dentro la ricerca neuro-biologica, andò altrove senza dimenticare da dove veniva.