Tante volte la creatività
ci lascia svegli.
Sappiamo che dobbiamo
cambiare il mondo e
solo all’alba d’una soluzione
ci addormentiamo.
Thomas Otto Zinzi
Il presente non è né davanti, né prima, ma presso (…) e la spazialità del presso è essa stessa una spazialità temporale, una venuta, un avvicinamento
Conservo un ricordo vivo degli anni passati alle medie, a Napoli, alla Scuola Giovanni Lombardi, alle Fontanelle, una zona periferica del Rione Sanità, che non a caso nasceva in un’area simbolo del degrado napoletano, con la finalità sperimentale dell’integrazione scolastica tra ragazzi appartenenti a classi sociali differenti, quelli della cosiddetta “Napoli bene” e quelli della Sanità e dintorni. Una scuola media a tempo pieno, sperimentale anche nel metodo e nella didattica, che prevedevano oltre alle materie curricolari (italiano, matematica, latino, ecc.) delle ore dedicate all’educazione sanitaria, alimentare, sessuale, e altre destinate ai laboratori di inglese, modellismo, fotografia, giornalismo, cinema, teatro.
Linguaggi e codici extradidattici
Il linguaggio artistico e simbolico, non solo quello delle conoscenze, entrava a pieno titolo nel percorso formativo, con il suo portato di emozioni, immaginazione e creatività, trasformando l’idea stessa di scuola e le sue finalità educative. In particolare, il cinema e il teatro, anche per la valenza politica che gli si assegnava allora, caratterizzavano eventi culturali ai quali prendeva parte la scuola intera. Rimangono nitide nella mia memoria le immagini del film Roma città aperta di Roberto Rossellini, proiettato in occasione della Festa della Liberazione, così come ricordo il silenzio tombale in un’aula magna gremita in ascolto della lezione, magistrale, sul Teatro, tenuta dal grande drammaturgo e regista Luigi Squarzina. Riflettere in quelle forme e attraverso quei linguaggi su questioni come Resistenza, Libertà , Antifascismo, e sentir echeggiare a scuola i nomi di Brecht, Shakespeare, Eduardo, Pirandello ma al di fuori di un codice strettamente didattico, e in un contesto traboccante di etica e passione civile, non poteva non lasciare una traccia profonda e duratura in ragazzi giovanissimi. Ancora di più, lasciava un segno profondo dentro l’esperienza del laboratorio teatrale, attraverso il coinvolgimento interattivo, la sollecitazione di tutti i sensi, l’esposizione e la messa in scena del proprio corpo, la cura delle emozioni e dell’espressione di sé: un’attività culturale e psicologica che aiutava a rompere schemi mentali poveri, e a uscire da sé stessi, specie per quei ragazzi costretti in schemi famigliari che li avrebbero portati a perdersi invece che a ritrovarsi, vivendo in contesti problematici, particolarmente agiati o fortemente disagiati.
In quella concezione nuova di scuola, l’apprendimento mutava paradigma: riabilitava il corpo in un movimento di ricomposizione con la mente, favorendo l’esplorazione e la conoscenza di sé, dell’altro, del mondo, alla ricerca del riconoscimento di sé e nella scoperta intersoggettiva di significati – anche politici – per vivere pienamente. Un apprendimento irrealizzabile per la sola via cognitiva, immaginato – detto con le parole di Cesare Moreno, maestro di strada – come “un viaggio che coinvolge insieme il mondo reale e quello simbolico, la nostra produzione di segni che denotano il mondo e la nostra capacità di rileggere l’esistenza attraverso i segni che noi stessi abbiamo depositato nel mondo e che ci vengono rimandati dai modi di essere delle persone con cui ci relazioniamo, e dall’organizzazione sociale con cui ci confrontiamo”1.
Il presente non è né davanti, né prima, è presso
Il soggetto, diceva Aldo Masullo riflettendo sull’antropologia patica2, non è qualcuno che c’è, ma qualcuno che diventa. Ma è l’altro che lo mette e rimette al mondo, in quanto lo riconosce. In quest’ottica, l’Io non è ancora una presenza, chioserebbe Jean Luc Nancy, ricordando che “la parola presenza si costruisce con un pre che è anche prossimità e non solo anteriorità. Il presente non è né davanti, né prima, ma presso (…) e la spazialità del presso è essa stessa una spazialità temporale, una venuta, un avvicinamento. Ci ritroviamo allora nell’ordine del corpo e del teatro. Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi di un corpo. E’ quanto accade quando vengo al mondo – ogni giorno, ogni volta”3.
La pandemia ha per molti versi messo in crisi, ma anche rimesso in questione, le relazioni. Se infatti il distanziamento fisico ha dato luogo a un’inversione affettiva4, come la definisce Ugo Morelli – per prendersi cura dell’altro, anziché avvicinarsi bisogna allontanarsi – ha anche messo alla prova, radicalmente, la consapevolezza che abbiamo di essere intersoggettivi, di vivere in relazione con gli altri, dai quali dipendiamo, consegnati gli uni agli altri. E’ questa la chiave critica e interpretativa della cultura dominante rappresentata dall’homo economicus, le cui premesse e conseguenze hanno generato le patologie ambientali, sanitarie e sociali che oggi ci affliggono. L’esclusione dell’intersoggettività – e perciò dell’homo sentiens, capace di sentire l’altro e di linguaggio affettivo – dal discorso pubblico, ha informato e condizionato non solo la politica, ma l’insieme dei modelli e sistemi formativi, generando un impoverimento educativo che, come evidenzia Emanuela Fellin, “riguarda principalmente i diversi livelli mediante i quali le relazioni e i processi di socializzazione sostengono la crescita”5. Tale solco, con la pandemia, rischia di approfondirsi, se a prevalere sarà la vulgata della ri-partenza, disinteressata alle ragioni che ci hanno portato dove siamo e imperniata sulla soluzione sanitaria di massa, al fine di rimettere in moto l’economia a pieni giri. Dovremmo invece essere edotti che non ci sarà una resa dei conti finale col virus, e che dovremo imparare a conviverci, operando scelte radicali per riprogettare nuove e sostenibili forme di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, cambiando modo di abitare il pianeta.
Impoverimento educativo, terza educazione e seconda nascita: la peste come metafora
Giorgio Agamben scriveva recentemente che “in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto”6. Ma tra l’inconsapevolezza e la consapevolezza c’è di mezzo la questione educativa, potremmo dire, e una sua rivisitazione profonda, che porti ad assumere gli eventi che viviamo come non estranei ai processi formativi, se intendiamo favorire una seconda nascita, che vuol dire chiudere un’epoca e aprirne un’altra7. Chiediamoci, infatti, in quale situazione ci troveremmo oggi, dopo un anno difficile vissuto in lockdown, dove la vita di molte e molti ha subito un netto peggioramento, se nel discorso pubblico e nei mass media avesse trovato spazio e ascolto un’articolazione del pensiero affidato a urbanisti, psicologi, artisti, educatori, insegnanti, filosofi, invece che i monologhi stucchevoli di virologi, epidemiologi, statistici e politici alla ricerca di consenso elettorale, “sapientemente” orchestrati da un giornalismo in larga parte conformista, paternalista e cinico.
La pandemia è oggi un convitato impegnativo e ingombrante della nostra vita, portatrice di messaggi espliciti e gravi su come abbiamo ridotto male il mondo, e per questo è anche la materia prima dell’educazione, e in particolare “di quella che abbiamo chiamato affettivo-cognitiva che connetta l’educazione alla vita dei sentimenti e alla cura del dialogo interiore con noi stessi, con la più ampia apertura alle conoscenze e alle culture differenti. La Terza Educazione ci consente quindi di abitare il mondo attuale”8. In questa prospettiva, tornano in gioco il corpo, i sentimenti, le emozioni, il teatro. Antonin Artaud, drammaturgo e attore francese, parlò della peste come metafora della vita e del teatro: “un avvenimento che serve da modello privilegiato, permettendo l’irruzione di quella morte che conferisce alla vita il suo centro di gravità, nei due significati possibili del termine”9. Conviene rileggere in questo tempo le opere letterarie e teatrali che grandi intellettuali come Focualt, Camus, Artaud, Grotowzky, Barrault, dedicarono alla peste come metafora esistenziale e politica per comprendere il senso degli eventi e cambiare il modo di guardare il mondo, le relazioni, sé stessi. Un grande lavoro di rielaborazione in chiave pedagogica fu quello di Riccardo Massa, raccolto in uno straordinario volume curato da Francesca Antonacci e Francesco Cappa, che ripropone le lezioni del grande filosofo dell’educazione e pedagogista piemontese scomparso vent’anni fa, proprio sul rapporto tra peste, teatro e educazione10.
L’educazione come processo di denudazione, esplorazione, costruzione di sè
Come il teatro anche l’educazione è un processo di decostruzione e ricostruzione: di denudazione, di trasgressione, di destrutturazione di certezze e credenze, di rottura di schemi mentali e comportamentali, di esplorazione e riconoscimento di sé. Il teatro diventa “la metafora di una pratica educativa che istituisce un mondo di rappresentazione e rielaborazione della vita (…) Quello che è specifico della consapevolezza teatrale è che la nostra vita può essere ripresa in mano, esplorata, interpretata, elaborata. Questa consapevolezza viene tematizzata nell’evento teatrale ed è simile alla consapevolezza pedagogica…”11. Ma il teatro – e così l’educazione – è anche eros, affettività, relazione, socializzazione, sempre che si istituisca all’interno di una “partitura visiva” (Massa), di una “partitura psico-corporale” (Grotowsky). E’ su questo terreno che il teatro oggi assume una sua particolare rilevanza educativa, come clinica della relazione intersoggettiva, e dell’educazione stessa, se l’obiettivo è ridurre gli attriti e le resistenze e fare spazio perché cresca la dipendenza emancipativa dall’altro, insieme alla responsabilità reciproca dell’altro. Ci vengono in aiuto, in questo senso, le neuroscienze, che mostrano come l’accesso al mondo dell’altro avvenga non solo attraverso i segni, i simboli e la parola, ma grazie a quelle cellule cerebrali, definite neuroni specchio, che nell’incontro tra le persone attivano una “risonanza incarnata”: un rispecchiamento nei gesti, nelle sensazioni e nelle intenzioni dell’altro che ci è di fronte, generando empatia, immedesimazione nello stato d’animo dell’altro, apertura alla relazione. E il teatro – come per altri versi il cinema, e l’arte più in generale – conferisce una forza particolare alla simulazione di questa dinamica, creando una risonanza tra lo spettatore e l’attore: le emozioni e i gesti prodotti in scena superano la finzione artistica e assumono un connotato sociale, generando emozione, empatia, comunicazione, e perciò consapevolezza dell’intersoggettività12.
Tornino i corpi nei processi educativi, si potrebbe concludere, utilizzando fino in fondo la metafora del teatro applicata all’educazione, trasferendo nella pratica educativa ciò che Artaud prescriveva all’attore, e cioè l’atletica affettiva. Un esercizio che allude al lavoro su sé stessi, ad un allenamento delle emozioni e della sensibilità, per trovarsi pronti all’incontro con l’altro. Scrive Artaud: “L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benchè non operante sullo stesso piano (…) Questo significa che in teatro, più che in qualunque altro luogo, l’attore deve prendere coscienza del mondo affettivo, attribuendo però a questo mondo virtù che non sono quelle di un’immagine, ma comportano un significato materiale”13.
1 C. Moreno, Pedagogie erranti; in La mappa e il territorio, a cura di C. Moreno, S. Parrello, I. Iorio, Sellerio editore Palermo, 2014
2 A. Masullo, Paticità e indifferenza, Il Nuovo Melangolo, 2003
3 J.L.Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010
4 U. Morelli, Empatie ritrovate, San Paolo Edizioni, 2020
5 E. Fellin, Impoverimento educativo e terza educazione, www.passionelinguaggi.it, Maggio 2021
6 G. Agamben, Riflessioni sulla peste, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste
7 U. Morelli, op.cit.
8 E. Fellin, op. cit.
9 A. Artaud, Il teatro è il suo doppio, a cura di G.R.Morteo e G.Neri, Einaudi Torino, 1968
10 R. Massa, La peste, il teatro, l’educazione, a cura di F. Antonacci e F. Cappa, Franco Angeli, 2001
11 R. Massa, op. cit.
12 V. Gallese, U. Morelli, Il teatro come metafora del mondo; https://www.ugomorelli.eu/pp/Gallese-Morelli-Teatro-metafora-mondo.pdf
13 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, citato in R. Massa, La peste, il teatro, l’educazione, a cura di F. Antonacci e F. Cappa, Franco Angeli, 200