Rimettere al mondo, il mondo

Autore

Andrea Donegà
Direttore delle sedi Enaip di Lecco, Monticello Brianza e Morbegno, impegnato nella formazione professionale con giovani e adulti. Un passato da educatore che ha preceduto 15 anni di impegno sindacale che lo hanno portato a ricoprire la carica di Segretario Generale della Fim Cisl Lombardia e di responsabile nazionale dei giovani metalmeccanici con i quali ha organizzato diversi campi di lavoro nei terreni e nei beni confiscati alla camorra nel casertano, approfondendo le conoscenze su economia civile e agricoltura sociale. Laureato in Sociologia in Bicocca, da sempre impegnato nel sociale, ha vissuto molte esperienze di volontariato negli orfanotrofi rumeni con l’associazione fondata da don Gino Rigoldi “Bambini in Romania” la prima delle quali, a 18 anni, fu decisiva per l’ingresso nel mondo degli adulti e la presa di consapevolezza del valore dell’impegno civico che, da allora, ha sempre coltivato. Oggi è componente del Direttivo dell’Associazione Amici Casa della Carità e attivista della Fondazione SON – Speranza Oltre Noi, realtà che lavora sul tema delle fragilità e del “dopo di noi”. Cofondatore di Passion&Linguaggi, collabora con il mensile Mosaico di Pace ed è autore del libro “Don Colmegna: al centro dei margini”. Nato a Como il 26/11/1981, convive con Francesca ed è papà di Carlotta, Tommaso e Samuele e genitore affidatario di Jason.

Abbiamo ancora tutti impressa nella mente la bellissima, ed emozionante, immagine del piccolo Matteo, il bimbo di sette mesi positivo al Covid e reduce da un intervento chirurgico, coccolato da un’infermiera nella solitudine del suo lettino d’ospedale. Se pensiamo al concetto di trauma credo che in questa immagine ci sia tutta la sua essenza: la madre, lontana dal bambino, anch’essa positiva al Coronavirus; il bimbo solo nella sua fragilità, separato dalla sua mamma, consolato da un’infermiera dal cuore generoso che lo accarezza con mani calde protette da guanti, gli regala sorrisi nascosti dalla mascherina e sguardi amorevoli protetti da una visiera appannata. Se pensiamo poi che nella prima fase della sua vita il bambino ha, appunto, bisogno di sguardi, sorrisi, parole e carezze, possiamo solo immaginare gli effetti negativi che vivranno tutti i bambini che si stanno abituando a vedere mascherine e non volti e a dimenticare i caldi abbracci. Tutti noi abbiamo sempre vissuto il trauma come un evento, anche improvviso, sicuramente doloroso, che in qualche modo ci segna ma che immediatamente dopo ci pone davanti a una fase nuova che abbiamo il compito di colorare di speranza e di bellezza.  

Quante volte abbiamo sentito ripetere, o abbiamo pronunciato, la frase “via il dente via il dolore”? Una sorta di alert che scatta ogni qual volta ci troviamo davanti a una situazione difficile o ad un trauma da affrontare. Una voce popolare, nata ovviamente attorno al momento in cui il bambino si trova alle prese con il dondolio del dentino a cui porre fine per non sentire più male e fare spazio al nuovo dente che segna anche un passo in più verso la vita adulta, un avanzamento, un momento di crescita quindi. Una fase che presuppone anche il coraggio di affrontare il trauma, con la consapevolezza che quella sia la porta da spalancare per iniziare un nuovo cammino. Ecco, per noi abituati a vedere nel trauma i germogli del domani, quest’anno di Covid risulta molto soffocante anche da questo punto di vista. E l’immagine di Matteo coccolato dall’infermiera torna a essere rappresentativa. Covid sembra legarci le mani per impedirci di aprire quella porta che si affaccia sul futuro, imprigionando le nostre vite dentro le incertezze e soffocando la capacità progettuale. Il trauma è una dimensione costitutiva della nostra esistenza, e il Covid ce lo ha ricordato in maniera radicale; per questa ragione, per rielaborare tale esperienza e trovare il linguaggio e le strade per superarlo, Passion&Linguaggi gli ha dedicato interamente questo numero, ospitando approfondimenti, racconti, esperienze maturate in diversi campi della vita, delle relazioni, delle istituzioni. Covid ha sospeso il concetto di trauma, stirandolo, rendendolo continuo e trasformandolo, come bene ci spiega Ugo Morelli, in un “trauma a lento rilascio”. Il vischio che ci appiccica addosso un trauma continuo, che colpisce tutti gli aspetti della nostra vita e della nostra socialità impedendo, nei fatti, qualsiasi risposta e spingendoci continuamente verso il basso di un vortice che ci impedisce di vedere vie d’uscita, alimentando l’apatia. E rischiando di farci sprofondare, come ben argomenta Emanuela Fellin, nella “inversione del legame sociale, da fonte di riconoscimento a fonte di minaccia”. Ma senza relazioni diventa anche più difficile immaginare vie d’uscita. Il trauma, come ogni vulnerabilità, come ogni esperienza di fragilità, è sostenibile solo nella relazione. E come in ogni prigionia le risposte possono essere la rassegnazione che ci spegne ogni giorno sempre più, l’evasione scomposta o la progettazione della libertà, fisica e interiore. Ecco, è questa terza via che siamo chiamati a percorrere, anche quando il trauma sembra essere l’eterno macigno che come tanti moderni e contemporanei Atlante, al tempo del Covid, dobbiamo sopportare per tutta la vita. In fondo è quello che ha fatto, ad esempio, Nelson Mandela. Chiuso tra le quattro mura della sua cella per due decenni, Madiba ha saputo riempire di progettazione e amore l’esperienza del trauma che stava vivendo, preparando il terreno per la società che immaginava, anche senza la certezza di poterla respirare. Questa è la sfida che tutti noi abbiamo davanti e la responsabilità che non possiamo sprecare. Se ci pensiamo bene ciò è già iscritto nella natura dell’uomo che nasce vivendo il primo trauma e da quel momento inizia la fantastica avventura della vita, disegnando percorsi e immaginando obiettivi. Ma, come mostra questa fase della storia, i traumi accompagnano sempre la nostra esistenza, e quello prodotto dal Covid, per le cause profonde dalle quali è stato causato, è particolarmente duro da superare, ma forse proprio per questo è anche l’occasione per riprogettare forme di vita più rispettose dell’ambiente e della biodiversità e perciò, per superare il trauma, “rimettendo al mondo il mondo”, come insegna Maria Zambrano. 

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