Oltrepassare il presente verso l’ulteriore, in un nuovo senso del lavoro e del mondo

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Una vita senza il lavoro è una vita insensata e perciò sofferente 

Con una nota trimestrale, l’Istat presenta puntualmente i dati su occupazione, disoccupazione, inoccupazione. Li ascoltiamo nei Tg, li leggiamo sui quotidiani. Sono statistiche, si parla di numeri, freddamente. Ma ogni numero rappresenta una storia, una biografia, un volto: Monica, Vincenzo, Claudia, Laura, Ignazio. Nomi e traiettorie esistenziali che ci sono familiari, perché toccano figli, parenti, conoscenti, amici. Capita a ciascuno di noi, anche a coloro che poco o nulla interessa del destino altrui, di imbattersi in persone alla ricerca del lavoro o che hanno perso il lavoro, oppure che non hanno più voglia di cercare lavoro o che devono accontentarsi di un cattivo lavoro, oppure – ma ciò è più raro – che finalmente hanno trovato un lavoro. Una varietà di racconti attraversati da delusioni, passioni tristi, preoccupazioni, disperazione, narrati anche col silenzio o a bassa voce, cui la dignità spesso costringe, ovvero con l’interrogazione sofferta sul dove e come orientarsi, cui spesso il bisogno impone. Vite da acrobati, in tanti casi. 

Il lavoro è il fattore più esposto all’instabilità del sistema economico e all’iniquità del mercato, in quanto si accolla – come spesso accade – la quota più alta del rischio di impresa, con il concorso della politica che in questi decenni ha sostanzialmente modellato le regole del lavoro su un sistema economico declinante come quello italiano, quindi sulla via bassa alla competizione e perciò sulla compressione dei costi.  

In questo quadro, il lavoro, già penalizzato, sta pagando un prezzo altissimo anche ai traumi vissuti dall’economia con le grandi crisi e recessioni, e a quegli shock esogeni al sistema economico come accade oggi con la pandemia. Per fare esempi recenti: secondo stime della Banca d’Italia, con la crisi economica del 2008, meglio conosciuta come la crisi dei mutui subprime, il nostro paese vide crescere il numero dei disoccupati da 1,6 milioni – censiti in quell’anno – a circa 3,5 milioni nel 2014, per poi assestarsi nel 2018 a poco più di 2 milioni e mezzo. Nel 2020, con il pesante impatto sull’economia mondiale della pandemia da Coronavirus, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la disoccupazione globale passa da 5,3 a 24,7 milioni di persone, sommandosi ai 188 milioni di disoccupati censiti nel 20191. In Italia, l’Istat indica una perdita di posti di lavoro di circa 450mila nel 2020, un dato che nell’ultimo trimestre segna 101mila occupati in meno rispetto al 2019 e di questi 99mila sono donne. Peraltro, se non fosse scattato il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo massiccio della cassa integrazione, la situazione sarebbe ancora più grave. 

Torna allora la domanda: ma chi c’è dietro ogni lavoro andato perduto, o cercato e non trovato? E quale storia personale, familiare, professionale e sociale potrebbe raccontare? Perdere il lavoro, così come il non riuscire a trovarlo, è un trauma per chiunque si trovi in quella condizione. Le conseguenze, certo, potranno essere diverse a seconda della condizione nella quale ognuno si trova e delle risorse materiali e immateriali che ha a disposizione. Tuttavia perdere o non trovare il lavoro è un trauma che coinvolge innanzitutto la dimensione psicologica e i vissuti emotivi di ciascuno, e perciò investe la persona tutta intera, generando, sia pure in termini diversi per ciascun soggetto, problematiche come senso di precarietà, di incertezza, di inadeguatezza; la perdita di fiducia e di stima in se stessi; vergogna e sensi di colpa, isolamento sociale e crisi delle relazioni, fino a disturbi psichici come ansia e depressione, e comportamenti dannosi alla salute come le dipendenze da alcol e droghe, e in casi estremi anche il suicidio. Come direbbe lo psichiatra Bessel Van der Kolk, studioso degli effetti del trauma sulla vita delle persone, il corpo accusa il colpo, in quanto “il trauma compromette l’area del cervello che trasmette la percezione fisica, corporea dell’essere vivi”2, per cui sappiamo che il comportamento delle persone colpite da un trauma “non è il risultato di debolezze morali o il segno di una mancanza di volontà o di un brutto carattere, ma è causato da modificazioni cerebrali reali”3.  

Con buona pace di coloro che scrivono, generalizzando, di fannulloni, di scrocconi e di sdraiati sui divani in attesa del sussidio, una vita senza il lavoro è una vita insensata e perciò sofferente. Lo rileva in maniera puntuale, come la sua ricerca in questo campo, il sociologo e educatore sociale Pietro Piro nel libro Perdere il lavoro, smarrire il senso4che ricostruisce, sulla base dell’ascolto e accompagnamento educativo di soggetti che hanno vissuto il trauma della disoccupazione/inoccupazione, una serie di mappe di significati a partire dai loro vissuti, per orientarsi e comprendere qual è il valore irrinunciabile del lavoro nella vita delle persone, soprattutto quando questo manca.  

Certo il lavoro ha una sua importanza nella risposta ai bisogni materiali, producendo reddito e assicurando una stabilità economica, che sono un cardine dell’autonomia individuale; tuttavia, come ricorda Piro, la domanda di lavoro è soprattutto una domanda di senso per vivere: per questo “la perdita di lavoro – o l’impossibilità di avviarne uno – è il fattore di maggiore destabilizzazione emotiva e di lacerazione dell’Io”. La mancanza di lavoro inoltre recide i legami, l’appartenenza a un gruppo, a un contesto sociale, e condiziona e disturba il percorso per l’individuazione e il riconoscimento di sé. E’quel sentirsi sempre meno parte della comunità nella quale si vive, una sorta di disaffiliazione, secondo l’espressione cara al sociologo Robert Castel, intesa come un’autoesclusione che avviene attraverso la progressiva rottura dei legami sociali e con le reti di integrazione primaria che assicurano risorse materiali e immateriali per stare al mondo. Una declinazione particolarmente critica della disaffiliazione possiamo rintracciarla analizzando il fenomeno dei NEET (Neither in Employment or in Education or Training), che riguarda quei giovani che non sono impegnati in percorsi di studio scolastici e professionali né sono alla ricerca di un impiego. Nel caso dei NEET, come ben sottolinea U. Morelli, l’indifferenza tende a sospendere la risonanza con gli altri e con il mondo nel quale vivono, rinunciando a sviluppare il processo di individuazione e riconoscimento, per la ragione che “il mondo a loro si propone saturo, e i codici di accesso, che prima sono loro negati, poi non sono neppure più cercati, o meglio, più che altro sono rifiutati5

La questione del lavoro non può rimanere una tra le tante. Se, come dice Freud, i verbi fondamentali di ogni vita sono “amare” e “lavorare”, il lavoro è una condizione irrinunciabile per la realizzazione del soggetto, perché è un dato originario interno iscritto dentro ciascuno di noi, e perché “è relazione e intersoggettività intorno a un compito. Anche quando si fa di tutto per mortificare i significati e la dimensione relazionale del lavoro, i significati e le relazioni si impongono comunque, perché siamo esseri umani e, perciò, siamo quelli che vivono degli altri e della ricerca congiunta di significati”6.  

Il trauma vissuto da molti per  l’assenza di lavoro ha la medesima radice del trauma causato nel mondo dalla pandemia, conseguenza delle criticità legate al clima, all’ambiente, alla demografia, alle catene alimentari, indotte da una razionalità economica che ha manomesso in maniera irreversibile la biodiversità e l’equilibrio ambientale. Un indicatore chiave per comprendere l’ampiezza di tale degrado è proprio il lavoro, che è stato ridotto a merce e a oggetto di competizione dalle ideologie neoliberiste, il cui corso – dagli anni ’80 ad oggi – ha reso il mondo invivibile e senza un futuro. Proprio dal lavoro bisogna ripartire, per riprogettare forme di vita sostenibili e decenti in quanto capaci di riconoscere l’intersoggettività e la cooperazione come l’infrastruttura portante della società, dell’economia e della politica. Ma anche come occasione educativa, per rileggere e rielaborare i significati emergenti dalle esperienze professionali, riuscite o fallite, che vanno comunque rivisitate dal senso, perché, come amava dire Adriano Olivetti, il lavoro sia gioia e non tormento e giovi a un nobile scopo.  

Francesco Novara, psicologo del lavoro, per anni impegnato nel Centro di psicologia all’Olivetti di Ivrea, in un suo importante saggio di 25 anni fa, sottolineava lucidamente i guasti prodotti dall’egemonia della “ragione strumentale” che ha reso autonoma la dimensione economica dal sociale, e che tra i suoi effetti indesiderabili annovera anche la riduzione del lavoro a merce. La conclusione di quella riflessione è ancora oggi di grande attualità. Scrive Novara: “forse rinnovare il lavoro vuol dire rivelare storicamente, culturalmente, possibilità ancora inconsapevoli, oltrepassare il presente verso l’ulteriore, in un nuovo senso dell’esperienza lavorativa e del suo mondo”7.

1 http://www.vita.it/it/article/2021/02/26/un-anno-di-covid-gli-impatti-sul-fronte-lavoro/158492
2 B. Van der Kolk, Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, Raffaello Cortina Editore, 2014 
3 Ibidem…
4 P. Piro, Perdere il lavoro, smarrire il senso, Mimesis Edizioni, 2018 
5 U. Morelli, Se l’indifferenza esclude ogni passione, Animazione sociale n°293 6-2015
6 R. Iaccarino, U. Morelli, Lavoro, affettività, innovazione, Le frontiere del lavoro e della rappresentanza sindacale: solidarietà e codici affettivi, Il Riformista 11.2.2020 
7 F. Novara, Liberare il lavoro, Guerini e associati, 1997

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