“Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima.
Allora, tutte le idee che hanno fatto pulsare la nostra vita, i progetti, le ambizioni su cui abbiamo fondato la speranza del futuro, si strappano come se il vento le investisse, si aprono come se fossero nuvole, si dileguano come ceneri di nebbia, stracci di ciò che non fu e che non potrebbe essere stato”.
Queste parole di Pessoa mi restituiscono, tristemente e perfettamente, la mia condizione dei primi mesi di Pandemia. Condizione che ha travolto anche tutti gli attori della nostra compagnia, attori-di-versi. L’impressione di impotenza, di dover essere solo spettatori inermi di fronte ad un nemico sconosciuto e invisibile che ci obbligava alla chiusura dell’attività, che per noi era vita quotidiana condivisa, il più delle volte, anche con decine e centinaia di uomini e donne che chiamavamo spettatori, ci ha impoverito nell’anima. Come successo a tanti altri, la porta della depressione era aperta per accoglierci. Abbiamo provato a resistere, con lezioni di danza via web, poesie e testi condivisi ma tutto ci sembrava celibe, inutile e aveva il sapore di un misero tentativo destinato al fallimento. Ad aggravare quella sensazione di tedio e stanchezza, c’era la consapevolezza che in tutto il mondo gli uomini e le donne vivevano la stessa condizione di chiusura, isolamento forzato e negazione della socialità. Per i nostri attori-di-versi questa impossibilità di lavorare, incontrarsi, vivere la propria dimensione di attori, li ha portati a ritornare dentro le loro abitudini consolidate che li proteggono ma che, nello stesso tempo li imprigionano. La loro fragilità la proteggono costruendosi abitudini e ritmi sempre uguali, che rassicurano la loro vita e li difendono dall’imprevisto, da nuovi percorsi, da strade sconosciute, dal navigare in acque inesplorate. Proprio il contrario di quella che era, fino a poco tempo prima, la nostra missione: far percorrere e attraversare, a persone definite “svantaggiate”, pratiche di lavoro che diventavano occasione per sognare, per diventare protagonisti della propria vita, creare identità, superando confini e navigando in acque non ancora esplorate. La nostra urgenza, per molto tempo, è stata la ricerca di una strada che ci togliesse da questa situazione di tedio, di impoverimento. Per molte compagnie teatrali la soluzione per uscire da questa apatia e mancanza di prospettive all’incontro con gli spettatori, è stata la creazione di video di spettacoli che inondavano le piattaforme digitali: questa bulimia di immagini non ci ha appassionato e non ci ha coinvolto perché nonostante la buona volontà, il riconoscimento di una certa utilità affaristica (tenere il contatto con il proprio pubblico) il risultato era molto scarso e il più delle volte noioso. Non riusciva ad andare oltre al documentario per ricordarci come eravamo senza dare una nuova prospettiva. Da questa situazione ci ha salvato l’idea di un progetto, di una scenografia prima che di uno spettacolo, che superasse l’obbligo del confinamento, del distanziamento sociale e ci permettesse di incontrare il nostro pubblico. La costruzione di un peep show teatrale, costituito da 16 cabine singole, per 16 spettatori, che guardano un palco girevole. Questo è stato il progetto che ci ha restituito energia e stupore. Un luogo teatrale dove lo spettatore può sperimentare la condizione di isolamento, chiuso nella sua singola cabina, per guardare, per sbirciare, senza essere visto, alcuni attori che espongono il loro corpo a quello sguardo. C’è molto della condizione umana in cui ci ha costretto la pandemia in questo peep show ma, essendo spettacolo dal vivo, quella condizione veniva trasfigurata dal teatro, restituita in altro modo. Quella ferita del trauma che stavamo vivendo tutti, in quel luogo teatrale non veniva guarita ma curata, raccontata, spiegata, così da prendere senso e utilità. Sentivamo in questo progetto che la nostra “artisticità”, la nostra creatività si impadroniva e rileggeva un trauma collettivo per restituirlo, trasfigurato, con un’altra lettura, dandogli un’altra possibilità e forse un po’ di riscatto. Noi ci sentivamo, finalmente, narratori di questo tempo che andavano incontro alle ferite e ai traumi che ci avevano stancato e affaticato l’anima.
Se l’operazione teatrale fosse riuscita nella sua pienezza sarebbero stati gli spettatori che incontrandoci di nuovo, avrebbero potuto dircelo. L’esserci modificati e inventati in un altro modo è stata la nostra salvezza.
Adesso siamo ancora fermi, in attesa che il teatro possa riaprire e togliersi di dosso la cattiva e ingiusta etichetta di luogo “del contagio”. Restano aperti tanti problemi soprattutto di lavoro e di difesa dei lavoratori di questo comparto. Lo spettacolo dal vivo deve ritornare ad essere un ospedale per le nostre anime. Quando riaprirà il teatro sarà un nuovo vaccino, ma non per immunizzarci ma per umanizzarci.
Antonio Viganò
Direttore artistico
Teatro la ribalta – Akademie Kunst der Vielfalt