La pandemia ha inferto alla scuola italiana un durissimo colpo, amplificando le difficoltà e il disagio di studenti e docenti che fanno i conti con percorsi educativi precari e discontinui a causa delle chiusure e della formazione a distanza. La scuola vive oggi un trauma di proporzioni gigantesche.
Nella scuola, prima ancora che un trauma individuale, si vive oggi il trauma collettivo causato dal distanziamento sociale, soprattutto per quelle persone, per quei giovani, che nella scuola avevano e hanno un’occasione di socialità, forse l’unica nella loro esistenza, e che oggi è andata persa. Questo è un trauma gigantesco. Ma oltre al deficit di socialità vissuto dai ragazzi, bisogna registrare anche quello dei docenti; gli insegnanti non possono incontrarsi in presenza, diventa complicato discutere, confrontarsi, organizzarsi. Ma anche rispetto all’opportunità di incontrarsi a distanza non è stata presa alcuna iniziativa per aiutarli nella comprensione di ciò che stiamo ancora vivendo, e su come comportarsi. E questa rimane una ferita aperta. Sono necessari segnali forti, che consentano alla scuola di essere in grado di curare la salute fisica e psichica di tutti i suoi interlocutori: docenti, personale ausiliario, allievi e famiglie.
Sembra che qualcosa si muova sul piano politico e istituzionale per tenere le scuole aperte: la direzione è quella giusta, secondo lei?
Rilevo certamente una disponibilità del governo per possibili riaperture delle scuole; ma mi sembra che si continui a ignorare – e ciò non vale solo per la scuola – che non bastano le misure sanitarie per contrastare la pandemia, ma bisogna garantire alle persone la salute psicofisica. Come Maestri di Strada crediamo sia necessario varare nella scuola un “patto di salute”, ossia un’alleanza tra scuola e famiglie per collaborare a migliorare lo stato di benessere delle giovani persone curando insieme l’igiene collettiva e individuale in un quadro generale in cui si affrontano tutti i problemi di salute che in questo territorio sono il sovrappeso infantile che sfiora il 50% degli allievi, la cattiva alimentazione, l’assenza di attività motorie, e vari fattori che alimentano il disagio relazionale. Rispetto all’evolvere della pandemia, rileviamo invece che le norme che sono state fin qui prodotte ci dicono che ci stiamo occupando del virus e non delle persone. Rimanendo alla scuola, la questione principale è domandarsi come le persone riescono ad affrontare un trauma, quello del deficit di socialità, che dopo un anno di pandemia è diventato cronico, e quali iniziative prendere, soprattutto da parte dei docenti, perché si possano fronteggiare gli aspetti sociali psichici e relazionali della pandemia, ma anche per riflettere su come gli insegnanti affrontano le proprie paure e come possono aiutare i ragazzi a rielaborare le loro paure e quelle delle loro famiglie. Non è possibile peraltro tamponare problemi così grandi, per esempio mettendo a disposizione delle scuole psicologi, pedagogisti, organizzazioni del terzo settore, ecc., perché queste misure non funzionano. Il compito che abbiamo di fronte infatti non è quello di soccorrere un insegnante in crisi, né di soccorrere uno studente in difficoltà. Dobbiamo soccorrere un’organizzazione composta da centinaia di migliaia di addetti, come la scuola, che sta soffrendo. Le figure specialistiche hanno un senso all’interno di una mobilitazione generale per far funzionare la scuola, un piano credibile per conciliare una consistente didattica in presenza con la didattica a distanza, se e quando è indispensabile.
Recentemente, lei ha indirizzato una lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, nella quale ha scritto che “la scuola a distanza è una scuola che si è ritirata dai corpi e non può essere testimone di verità”. Mi sembra l’invito a non immaginare quello che stiamo vivendo come un tempo sospeso, a maggior ragione per la scuola, chiamata – interpretando il senso delle sue parole – a vivere questo tempo della pandemia come un’occasione educativa.
La scuola sta perdendo un’occasione storica di farsi carico di un compito di realtà. E quindi mi chiedo se affrontare le paure, i problemi organizzativi, le questioni sanitarie connessi al Coronavirus, non rientri in qualche disciplina o attività scolastica. Ci sono persone che rispettano le regole perché hanno compreso che sono giuste, altre persone invece le rispettano soltanto per la paura di contrarre il virus. C’è un “feticismo delle norme”, in questo senso, che mi fa credere che queste persone mai potranno affrontare le paure dei ragazzi fino a quando non risolvono le loro paure. Abbiamo una serie di problemi psichici, che certo sono antichi, ma che sono stati rimessi in gioco e amplificati dal Coronavirus, e che dobbiamo affrontare. Certo: affrontare non significa risolvere, ma dobbiamo far arrivare ai ragazzi, ai giovani, il messaggio che la pandemia non è, come pensano alcuni, una punizione che viene da Dio, né possiamo continuare ad alimentare una sorta di paura millenaria: che siamo arrivati alla fine dell’umanità. Questi sono i messaggi che arrivano ai ragazzi, e noi dobbiamo porci il problema del come e con chi essi possono rielaborare il senso di ciò che sta accadendo. Il trauma, anche nel caso della pandemia, non è il problema principale, quanto le sue conseguenze, ossia: come io vivo la relazione con gli altri e gli altri come la vivono con me dopo aver vissuto un trauma. Se rimaniamo fissati sul trauma non è possibile alcuno sviluppo. Per fare un paragone, potrei dire che se io ho sono stato vittima di un incidente stradale e sono rimasto fortemente scosso da questa esperienza negativa, tutto il mio mondo ruoterà attorno a tale evento, e tutti coloro che mi incontrano mi ricorderanno costantemente del grave incidente che ho subito…quindi il trauma invece di essere superato, viene coltivato, allevato, coccolato, riscaldato. Non va bene, non si può vivere così.
Per la scuola qual è l’evoluzione possibile perché il trauma possa aprire strade di innovazione, di superamento dell’esistente. Lei ha scritto in proposito che “non possiamo imparare niente senza il corpo e senza tutte le ferite e le fragilità di cui il corpo è testimone”. Cosa vuol dire, cosa si può fare?
Intanto mettendo a disposizione una conoscenza più puntuale del fenomeno che stiamo vivendo. C’è un problema anche cognitivo da superare, per capire come fronteggiare l’emergenza sanitaria e le sue conseguenze. Le nozioni sono importanti. E le nozioni non sono il nozionismo. Perciò cominciamo dalle nozioni di igiene pubblica che servono per capire come funziona il contagio e come ci si può organizzare per prevenirlo. Molti anche nelle scuole non sanno nulla del Coronavirus, ma ne hanno paura. Non c’è un sostegno pubblico in merito. Parlo del corpo perché, non da ora, è stato escluso dalle scuole italiane, ma da parecchio tempo. Questa crisi ci sta mettendo sotto gli occhi la necessità di fare operazioni dimenticate, operazioni che in realtà sono di cura. La cura dell’educazione passa attraverso la cura del corpo e della psiche dei ragazzi. Nella condivisione tra ragazzi e docenti nell’affrontare situazioni critiche come quella che stiamo vivendo si crea una corrente empatica che aiuta l’apprendimento. Occuparsi del corpo vuol dire in sostanza che a scuola si genera una dimensione di accudimento, di cura, che non si può trascurare. Per il valore civico e politico che tutto ciò ha, si può dire che la ripresa della scuola non è compito del ministero della pubblica istruzione, ma è il capo del governo che deve assumere la questione: non si tratta di parlare agli insegnanti e agli studenti, ma al paese intero, perché la scuola riguarda i giovani, e per questa ragione le scuole non si possono chiudere. Bisogna partire dall’imperativo categorico che la scuola va tenuta aperta, e che quindi ci si impegna a fare tutto ciò che è necessario – a partire dai vaccini e a tutte le misure organizzative possibili – per realizzare questo obiettivo. Poi si fanno i conti con eventuali vincoli e si gestiscono, e si può anche deciderne la chiusura. Ma questo deve essere il processo da attivare, non si può fare al contrario. La scuola deve restare aperta, bisogna discutere il come.
Qualcuno obietterà che c’è un’incompatibilità tra il diritto alla salute e il diritto all’istruzione, che l’uno non può essere garantito insieme all’altro: che ne pensa?
A mio parere, non c’è conflittualità tra il diritto alla salute e il diritto all’istruzione. Entrambi questi diritti stanno sullo stesso piatto della bilancia, sull’altro invece vi è l’indifferenza e il pensare che il problema non è il mio. L’articolo 32 e l’articolo 3 della Costituzione sono “gemelli”, vanno insieme. Bisogna cambiare la cultura, un sistema di pensiero. Da questa vicenda ne esce male il mondo degli adulti, che non ha compreso che in discussione c’è il patto intergenerazionale che si fonda su alcuni assunti: la scelta degli adulti di non consumare tutte le risorse a disposizione, di non distruggere l’ambiente, ecc. In questo patto la scuola ha un ruolo fondamentale, quello di consentire, nel passaggio tra le generazioni, lo sviluppo di conoscenze e competenze affinché i giovani possano prendere in mano il mondo. Se però chiudiamo la scuola, passa il messaggio che l’obiettivo di “consegnarti il mondo” non è poi così importante. Questo tema deve tornare in primo piano; bisogna capire che non stiamo discutendo della scuola ma di qualcosa di molto più importante. Dobbiamo imparare a convivere anche con il Coronavirus, e per questo abbiamo bisogno di una svolta ecologica del pensiero, oppure viene disfatto il senso del vivere insieme.