Terzo settore e responsabilità sociale

Autore

Eugenia Montagnini
Eugenia Montagnini è socia di Excursus+ e si occupa di analisi dei processi organizzativi e di accompagnamento alle organizzazioni nei percorsi evolutivi e di cambiamento, con particolare attenzione alla ridefinizione dei processi interni, dell'identità e dei valori organizzativi. Dal 2003 è docente di sociologia delle differenze e delle disuguaglianze presso l'Università Cattolica di Milano, con focus specifici sulle disuguaglianze urbane e su quelle organizzative.

In Italia le organizzazioni del Terzo Settore, che nel tempo sono diventate sempre più rilevanti economicamente e che si distinguono per la loro natura giuridica non profit, hanno agito come una minoranza attiva – prendendo a prestito l’espressione di Serge Moscovici, autore di La psicologia delle minoranze attive – al punto da diventare un interlocutore politico imprescindibile.   

Hanno iniziato a rendersi quantitativamente evidenti a partire dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo, organizzando servizi e progetti per rispondere ai bisogni emergenti di comunità e/o di persone fragili (ma non solo) e attraverso di essi riconoscendone i diritti (quali quello alla salute, al lavoro, alla socialità, alla formazione, alla cultura). 

Nell’oggi si tratta di un mondo maturo, definito e con delle proprie dinamiche, che in alcuni casi trascende la natura non profit, rendendo queste organizzazioni assimilabili a quelle profit, e che in altri, invece, ha una propria connotazione e specificità tale per cui il composito sistema del Terzo Settore italiano suscita molto interesse negli altri Paesi europei e più in generale a livello internazionale. 

Da quella che è la mia prospettiva professionale di consulente (specifica e dunque anche limitata) osservo come queste organizzazioni siano in balia di una delicata fase di cambiamento, dovuta in parte a una tormentata riforma del Terzo Settore, ancora non completamente normata, ma non solo. 

Molte di esse hanno alle spalle alcuni decenni di vita, sono nate intorno a un determinato territorio (sviluppando spesso un’inconsapevole responsabilità sociale di territorio) o a un gruppo di persone che hanno sposato una causa non profit; nel tempo la carica motivazionale di adesione al progetto iniziale è venuta scemando così come si sono trasformati i territori e i loro bisogni. La fase di effervescenza e poi quella di istituzionalizzazione hanno visto una leadership molto incentivata, aggregatasi per affinità elettive, con una visione fortemente condivisa e ideologicamente connotata.  

Ora per molte organizzazioni il cambiamento passa attraverso due differenti transizioni che sono chiamate a compiere al proprio interno e nel proprio contesto di azione. Con questa espressione intendo il passaggio da una situazione a una completamente differente (pensiamo al passaggio dall’adolescenza all’età adulta); la transizione sottende una possibile revisione della propria identità e, fuori dalla pagina scritta, vuol dire spesso lacrime e sangue. 

La transizione all’interno è quella dettata dal ricambio generazionale e da una ridefinizione della propria missione; l’altra transizione (spesso da agire in sincronia con quella interna) prevede una differente collocazione nel mondo, a partire da una ridefinizione del proprio mercato di riferimento. 

Mentre il ricambio generazionale porta a riconfigurare la governance stessa di molte organizzazioni (non più comunità di destino ovvero comunità a cui tutti aderiscono ritenendola il proprio progetto di vita, non solo professionale), la rilettura del proprio mercato di riferimento le spinge a riconsiderare quel fragile equilibrio fra servizi accessibili e costi interni.  

Il ricambio generazionale può avvenire solo se i fondatori lasciano spazio, creano un vuoto che non deve essere riempito dal rimpianto o metaforicamente dall’uccisione dei padri; e se la nuova generazione si assume la responsabilità e la libertà di ridefinire la missione, rileggere l’organizzazione e le sue dinamiche, percorrere un tratto nuovo di strada. Il ricambio generazionale non può ridursi a un rimpiazzo di persone ma deve diventare opportunità per riconsiderare il proprio passo e gli obiettivi. 

Contestualmente la ridefinizione del proprio mercato di riferimento presuppone una riflessione che porti le organizzazioni del Terzo Settore a individuare differenti modelli di sostenibilità economica. La logica di una sostenibilità economica esclusivamente legata agli appalti pubblici ha spinto molte realtà a ridurre il valore sia del servizio erogato sia del lavoro di chi in esso è impiegato (che poi spesso vuol dire stipendi non adeguati rispetto ai carichi di lavoro e al costo della vita), a standardizzare l’offerta, a disconoscere le professionalità; frequentemente non solo a fornire servizi scadenti ma anche non coerenti con la propria esperienza e con le competenze effettivamente presenti al proprio interno.     

Le due transizioni descritte per molte realtà non sono più procrastinabili (così come non lo è quella tecnologica, trasversale alle due qua citate); è arrivato il tempo di consolidarsi, per garantirsi un futuro distinto dal passato, e per fare impresa. A questo proposito l’espressione impresa ibrida, coniata da Paolo Venturi e da Flaviano Zandonai, entrambi studiosi del mondo non profit e autori dell’omonimo saggio, indica modi differenti di stare sul mercato per il non profit. Ibride perché nell’agire l’innovazione sociale o culturale generano un valore economico.    

Transizioni non indolori, come già accennavo, ma generative; andare verso ciò che non si è ancora non vuol dire tradire ciò che si è stato ma rispondere in modo differente (e in ciò sta l’essere ibridi) a nuove istanze, interne ed esterne all’organizzazione, cogliendo in esse delle opportunità. Sicuramente sia la riforma del Terzo Settore sia la pandemia fungono da acceleratore di cambiamento. Questo non vuol dire lasciarsi travolgere ma definire la direzione da intraprendere e la velocità da assumere per facilitare e non osteggiare i cambiamenti necessari.   

Fra qualche anno le organizzazioni del Terzo Settore, quelle che si saranno mostrate resilienti ai nuovi bisogni e alla pandemia – che sta mietendo parecchie vittime fra le realtà non profit, come descritto nel rapporto curato da ISTAT per Fondazione Cariplo sugli effetti del Covid-19 sulle non profit lombarde – avranno mutato il modo di stare sul mercato e di rispondere ai bisogni; non avranno cambiato anima ma saranno diverse da come si sono raccontate e rappresentate finora. 

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