Forse l’ho vista in qualche documento fotografico, forse l’ho soltanto immaginata, ma non ha importanza, che sia fuori o dentro di me, certo è ora per tutti figura dell’anima. Sto parlando della collina di Spoon River: vecchie pietre tombali rigate dai muschi si innalzano verso il cielo in una radura d’erba bassa, tra i tronchi d’alberi nudi che frugano l’azzurro. Alcune sono scomposte, ripiegate dal tempo, altre sono ancora dritte come immortali ricordi; tutt’intorno prati e piante, nessun perimetro delimitato, nessuna traccia di confine, nessuna chiusura d’orizzonte, quasi a segnare la continuità della vita e della morte. La collina dirada dolcemente verso gli spazi infiniti della pianura, luoghi di cacce, di fughe, di presenze veloci e tempestive: l’esperienza del tempo, i simulacri dell’eterno. Nelle mattine autunnali gli umori della terra si condensano in una bianca bruma che avvolge le tombe confondendone i confini, poi con l’innalzarsi del sole la bruma evapora in sottili tessiture ed un vento fresco e gentile muove l’erba, serpeggia tra le pietre e dall’oscurità della terra sembra innalzarsi il canto dei morti, sostanza e memoria del presente, di ogni presente, del presente di ognuno:
“sentivo la mia terra
vibrare di suoni,
era il mio cuore,
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore. (…)”
Questo canto è memoria di piccole vite di persone comuni, secondarie comparse della storia del mondo, esistenze perdute, marginali, erranti: il chimico, il dottore, il giudice, l’ammalato di cuore, il suonatore, il galeotto, il minatore, la prostituta, il soldato, il matto, il blasfemo, l’ottico … Veloci meteore che hanno, un tempo, assunto presenza e visibilità, per poi evaporare senza lasciare traccia nella storia, senza che il loro passaggio venisse segnato nei registri dell’ufficialità, solo poche iscrizioni sulla pietra nuda e fredda corrose dagli anni ed il sussurro di un sospiro sottile:
“ (…) dormono, dormono sulla collina,
dormono, dormono sulla collina (…)”
Canto della terra per la brevità del tempo dell’uomo, eppure è proprio questa fugacità, la possibilità sempre prossima del nostro non essere più, che dà senso e profondità alla libertà: tra libertà e finitudine vi è un nesso essenziale. E’ qui, nel tempo che ci è dato, che i gesti della nostra libertà solcano il tempo della storia: infinita responsabilità della soggettività vivente nell’irrevocabilità del suo essere stato. L’uomo è libero, originariamente, strutturalmente libero, perché è temporale, cioè finito. L’unico ente, tra i viventi, libero è quello che sa anticipatamente di morire, che sa stare di fronte alla propria morte come sua ultima possibilità. La libertà non è dunque semplicemente un possesso dell’uomo, di cui ci si possa liberare o di cui si possa fare a meno, è l’uomo; essa non è un dato, ma è tutta nel suo farsi, nei gesti di liberazione che siamo continuamente chiamati ad operare: è l’opera (campi coltivati) che si manifesta (l’ho vista) come liberazione da e liberazione per.
“ (…) Libertà l’ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetti da un filo spinato (…)”
Ma può dormire, la libertà, versare nel buio e nel silenzio, nella colpevole rinuncia, nella presunzione della supponenza, nel sonno della indifferenza, nell’oscurità dell’indistinzione: ci sono gesti di libertà che soffocano e reprimono la libertà stessa. Povero suonatore Jones sconfitto nel suo stesso canto da quella triplice negazione di cui andava così fiero: “non all’amore né al denaro né al cielo”. Quanto è piccola questa pretesa libertà mai redenta dal riconoscimento di un’appartenenza, dalla professione di una speranza, dal piacere di una compagnia: chiusa nell’anarchia di un soggetto che può soltanto guardare la danza della vita senza vedere nulla, senza giudizio e prospettiva. Non è nel cielo aperto della speranza che la libertà dorme, ma nel cielo grigio della prescrizione e del pregiudizio; non nel denaro partecipato e condiviso, ma nella modalità esistenziale dell’avere, del possesso assunto a scopo di vita e misura di successo; non nell’amore che dona e riconosce, ma in un sentimento che chiude ed esclude. Non sono l’amore il denaro ed il cielo che addormentano la libertà, ma quel filo spinato che li costringe nella presunzione autofondativa di una soggettività egoistica. Perché il mio gesto di libertà sia veramente liberante occorre che assuma come compito l’affermazione della libertà di ogni uomo, in ogni luogo della terra: che la mia danza, nel tempo che mi è dato, desideri la danza di tutti.
“ (…) Finì con un flauto spezzato
E ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto”
Prima o poi la danza di ognuno si interromperà, il canto della vita verrà meno, ma se avrò suonato bene il mio spartito, l’eco della mia musica continuerà a far danzare gli altri, e sarà la stessa mia musica, lo stesso mio canto. Quanti ricordi in una vita vissuta, quanti volti, quante esperienze, che nostalgia: vorrei vivere ancora, danzare ancora il canto della vita, amare, sognare, lavorare con la testa, il cuore e le mani. Ancora, ancora un po’, lasciate che sulla nostalgia si innalzi la speranza, perché la morte è sempre prematura, interrompe un compito, un’opera, un progetto. Proprio l’accadere di ciò che la rende possibile trasforma la libertà in un dato: avrei potuto fare di più, fare ancora, fare meglio, sempre di più. La pietra del suonatore Jones sulla collina di Spoon River forse è lì a far risuonare il canto della terra perché nei vivi rimanga il pianto della morte dell’amico e nei morenti il rimpianto di una vita che, consumata nella libertà della donazione, non può più donarsi: la morte non è compimento, è la chiusura di un’esperienza originale, è una perdita irredimibile.