Per comprendere in quale misura la parola trauma conservi il significato più autentico di un anno e così determini il corso di tutti gli altri a venire, bisogna uscire dalla definizione con cui il termine viene consegnato ai protocolli psico-sociali. Soltanto così si potrà evitare di cadere nella tentazione di relegare quanto successo nelle modalità pur straordinarie della lesione profonda provocata in un organismo dall’impatto con qualsiasi agente capace di un’azione improvvisa, rapida, violenta e inaspettata.
C’è una letteratura ormai ampia – che qui converrà richiamare soltanto nelle pagine di Voltaire, Rousseau e soprattutto Kant dopo il terremoto di Lisbona del primo novembre 1755 e nelle riflessioni de “Il cigno nero” di Nassim Nicholas Taleb che nel 2007 recupera la citazione di Giovenale e prova a dare una spiegazione epistemologica all’epifania del male nella Storia – in grado di confutare proprio la dimensione dell’inedito. No, non c’è niente di inspiegabile nello sconvolgimento causato dal Coronavirus: niente di imprevedibile nell’evento che ha destabilizzato la rappresentazione che l’uomo si era costruito della realtà tanto da segnare con assoluta e imperativa determinazione uno spartiacque tra un prima e un dopo.
Se trauma è, allora, ha una qualità decisamente diversa rispetto a quelli riscontrabili – per rimanere all’ultimi cento anni – nella sequenza di due terremoti apocalittici a Messina il 28 dicembre 1908 e in Irpinia il 23 novembre 1980, di guerre mondiali, del crollo di Wall Street il 29 ottobre 1929, della verità dell’orrore scoperto ad Auschwitz il 17 gennaio 1945 ed esploso con la bomba atomica ad Hiroshima il successivo 6 agosto e a Nagasaki tre giorni dopo, del disastro nucleare a Cernobyl il 26 aprile 1986, dell’attentato alle Torri gemelle di New York l’11 settembre 2001, dello tsunami nell’Oceano indiano del 26 dicembre 2004, del fallimento della Lehman Brothers il 9 settembre 2008. La pandemia appartiene, invece, al novero degli accadimenti che si registrano ”Quando smettiamo di capire il mondo”, come nel saggio di Benjamin Labatut che in Italia sarà pubblicato a gennaio. Obbliga l’umanità a risvegliarsi dall’incubo in cui volontariamente è piombata e impone di ripensare il pensiero di se stessa su cui aveva articolato il suo modello di vita.
Un incubo che aveva trasformato in inferno il sogno dell’iperproduttività del discorso di Lacan sul consumo dei consumi, la profezia francofortese di Marcuse e Adorno rimbalzata nelle lettere luterane di Pier Paolo Pasolini che nessuno aveva voluto davvero ascoltare e che intimava di fermarsi prima di cadere nel baratro. Questa è l’entità del trauma da Covid-19, difficilmente comprensibile con il solo canone sanitario. C’è bisogno impellente di uno sforzo diverso, di una tensione rifondatrice generale che riparta dal senso del limite – nell’accezione di Ivan Illich – e si basi sul valore dell’essenziale.
In fondo, la lingua della psicoanalisi, il lessico materno di Sigmund Freud avrebbe dovuto mettere in guardia: in tedesco trauma ha un doppio significato in base all’articolo che precede la parola, das trauma nel senso dell’impatto devastante e der traum nell’altro del sogno. Che ospita l’incubo e insieme la speranza di uscirne.