Le organizzazioni sindacali sono state nel ‘900 il punto di arrivo di movimenti sociali – e del movimento operaio in particolare – che vengono da lontano, a partire dalla prima rivoluzione industriale nell’Inghilterra di fine ‘700. Nelle democrazie occidentali, e in particolare in Europa, quasi tutti i paesi nelle loro costituzioni prevedono il riconoscimento del diritto alla libertà di associazione sindacale. Dunque, un movimento sociale pluralista, nel tempo diventa istituzione.
Intanto c’è un parallelismo che è impressionante tra l’estensione del diritto di voto e la legittimazione degli scioperi tra la fine dell‘800 e il ‘900; c’è una storia parallela dei movimenti e dei diritti pubblici che è antica; se vogliamo, andando molto indietro, già il cartismo inglese aveva questo segno. Ma non c’è da stupirsi. Solo per qualche svista più recente abbiamo dimenticato tutto ciò: l’associazionismo dei lavoratori, i movimenti e le loro lotte, sono andati di pari passo con la costruzione di una democrazia moderna istituzionalizzata. Ciò è stato talvolta dimenticato o messo in secondo piano, in particolare nei momenti in cui il sindacalismo si è sentito talmente potente, al punto da volere addirittura emanciparsi da questi vincoli storici, come accade a tutti i movimenti quando si montano la testa. Un atteggiamento critico è stato invece necessario quando il formalismo delle istituzioni tendeva a soffocare le libertà sostanziali: infatti un conto è avere delle istituzioni che sono una garanzia e un motore di emancipazione delle organizzazioni sociali, un altro è avere istituzioni che le ostacolano.
Mi viene in mente, al riguardo, ciò che Gian Primo Cella, scrive nel volume “Il sindacato” a proposito della legge Le Chapelier, varata nella Francia rivoluzionaria, che, in nome di un “individualismo radicale e utopico e anche per uno Stato centralistico e depositario del sapere sociale” vietava le organizzazioni collettive, specie quelle operaie.
Certo. E’ quello il caso di una libertà che soffoca la possibilità di emancipazione delle organizzazioni sociali, perché è una libertà misurata sul cittadino individuo, idealizzato, che tuttavia è socialmente collocato “in alto”: sono i limiti, in questo campo, della pur gloriosa Rivoluzione Francese.
La Repubblica italiana, afferma la nostra Costituzione, è “fondata sul lavoro”, luogo dove si forma la personalità individuale, e mezzo che conferisce la libertà positiva a ogni cittadino, che matura anche una responsabilità verso la comunità. A che punto è questa cittadinanza del lavoro che nasce insieme al sindacato-istituzione?
L’art.1 della nostra Costituzione, a mio avviso, è stato il frutto di un compromesso geniale. Dobbiamo ricordare che nacque in un mondo allora diviso in due blocchi, e il cui termine lavoratori veniva usato nell’Est dell’Europa in un certo modo, mentre era ignorato o sottovalutato nel mondo liberale di origine. Ci fu tra i costituenti una convergenza geniale: al primato del lavoro infatti non si è arrivato sulla base di una constatazione o per una questione ontologica; si è arrivato per scartare dei limiti che stavano dividendo il mondo. Nel tempo questo approccio viene rielaborato, e il lavoro significa tante dimensioni: nella modernità, il lavoro collettivo ha una dimensione prometeica e titanica, basta pensare alle esposizioni universali, alla innovazione delle tecnologie, alle grandi opere dell’800-900, alle bonifiche e alle canalizzazioni; stiamo parlando di qualcosa che rimanda alle Piramidi: in quest’ottica, tutto diventa lavoro. Poi c’è l’altro aspetto del lavoro, quello che oggi teorizza così bene il sociologo americano Richard Sennett, e che rimanda al lavoro artigiano, che evidenzia la relazione stretta tra il lavoro e la personalità individuale, ossia il famoso “ben fatto” di Olivetti. Questa dimensione del lavoro negli ultimi decenni si va riscoprendo; si pensa cioè che, in fondo, ogni lavoro ha una dimensione artigiana, che ogni lavoro pur essendo relazionale risuona dentro la storia e la biografia di una persona, sia che si tratti di un violoncellista, sia che si tratti di un tornitore o di un pilota. Questa è la dimensione che col procedere delle epoche rende il lavoro sempre meno vincolato agli aspetti più duri, anche se necessari, del taylorismo e del fordismo; ma è una dimensione, questa del lavoro, che abbiamo ri-riconosciuto solo negli ultimi decenni. Il lavoro però è anche salario, è anche retribuzione, è anche condizione per vivere: qui c’è la grande differenza tra lavoro schiavo e lavoro retribuito, che ci mette secoli per affermarsi pure nel mondo ricco. Queste sono le basi della cittadinanza del lavoro. Soltanto quelle ribellioni delle associazioni e del movimento operaio hanno permesso questo traghettamento verso il lavoro salariato che sembra, ed ovviamente è, anche una costrizione, perché devi lavorare per vivere, ma è un passo avanti sostanziale rispetto al lavoro schiavo. Lavoro è un termine talmente potente che esula dalla dimensione della nostra modernità.
Si fanno spesso analisi sullo stato di salute del sindacato, oggi alle prese con la quarta rivoluzione industriale, l’instabilità strutturale dei processi economici, la riorganizzazione delle imprese su scala internazionale e soprattutto con una forte frammentazione culturale. Quali sono a tuo avviso le potenzialità e le minacce per il sindacato in questo tempo?
Gli ostacoli li abbiamo già visti tutti e stanno in una frammentazione culturale e organizzativa del lavoro che rende oggettivamente più difficile quel minimo di coesione associativa senza la quale nessun sindacato anche se libero può rendere efficace la sua azione. Rispetto a queste novità che cosa accade? Che il sindacato, nel caso italiano, ma non solo, avendo ancora un patrimonio molto ingente che lo rassicura – detto in altri termini: il sindacato non scompare – lo rende in qualche modo più pigro. Il sindacato non è alla disperazione, non è alla frutta, ma non ha quel consenso organizzato sufficiente per essere protagonista come lo è stato per 20-30 anni e più. Questo è il dilemma con cui fare i conti: da un lato il sindacato c’è, e non è destinato a scomparire, dall’altro conta molto meno di quello che eravamo abituati a pensare, anche nelle situazioni di emergenza. Come tutte le grandi organizzazioni il rischio è quello di sedersi, e riguarda tante istituzioni; mentre la burocratizzazione in certe sfere pubbliche può non essere tragica, e spesso è inevitabile, nel caso di un luogo sociale come è il sindacato, dove comunque è necessaria una certa dinamica, ciò finisce per pesare di più.
Accennavo prima al contesto culturale profondamente mutato in questi anni, con la crescita delle diverse soggettività. Ciò suggerisce un cambiamento del linguaggio. Abbiamo affrontato su “Passion&Lavoro” questo tema, proprio riprendendo alcune tue riflessioni svolte negli anni Ottanta e Novanta che mettevano in guardia dal “sindacalese” o dal linguaggio “militare” (strategia, tattica, scontro, avanzata…), e anche – possiamo aggiungere – da quello del marketing. Non credi sia necessario oggi un linguaggio più capace di “sentire l’altro”, di coglierne le domande inedite, per innovare la rappresentanza?
Credo che sia l’offerta che ti fa scoprire la domanda. Sono convinto che bisogna partire dalla domanda su cosa vuole questo prossimo. E’ offrendo qualcosa alle persone che ti rendi conto se hai colto nel segno oppure no. In fondo anche nelle grandi storie di santità la predicazione corporea o di lingua era l’elemento di partenza. Quindi il sindacalista se non coglie, anche nel gioco dei linguaggi e nel gioco affettivo, le varie sfaccettature dell’alterità, che è anche un’alterità tra pari, non può svolgere al meglio la sua azione di rappresentanza. Tale approccio non parte dall’interpretazione della domanda dell’altro, ma dalla capacità di fare a lui una proposta. Se la proposta viene accolta, anche se ridisegnata, vuol dire che hai colto ciò che c’era, se viene rifiutata vuol dire che non hai compreso l’altro. Dopo di che, dobbiamo dire, in termini più generali, che esiste oggi una crisi del linguaggio pubblico, che riguarda la politica, la chiesa, le organizzazioni, le imprese, e il sindacato stesso. C’è un linguaggio pubblico che non ci piace, che non ci convince, che tende a riprodurre ossessivamente degli stilemi, e che per ritrovare un calore che non ha in sé, usa la personalizzazione. Faccio degli esempi: se una frase di Trump non fosse firmata Trump, non esisterebbe, così come una frase di Francesco, se non fosse firmata Francesco non esisterebbe. Invece lo scultore di un tempio greco, anche se non firma c’è, esprime un contenuto, mentre noi abbiamo bisogno di mettere una firma, una faccia, a una frase che altrimenti non sarebbe interessante. La personalizzazione è un modo per dare un calore a una sequenza di parole e di concetti che di per sé valore non ne hanno, perché sono tendenzialmente ripetitivi e standardizzati.
Dunque il linguaggio deve contenere in sé un certo calore, e ciò vuol dire, come già indicavi in precedenza, che la cura della relazione e della dimensione emotiva e affettiva sono decisive anche nell’azione di rappresentanza sindacale…
Ripetere continuamente una parola come solidarietà non sortisce alcun effetto, mentre parole come contro o insieme vengono certamente comprese, anche nelle situazioni drammatiche dove vale il comportamento che si fa linguaggio. La questione è dire diversamente delle cose rendendole più dirette. Per comprendere la realtà abbiamo anche bisogno di cambiare occhiali, ossia il modo di guardare il mondo: spesso l’ascolto di storie e di biografie personali ci mette di fronte a sorprese, a qualcosa che non ci aspettavamo. C’è quindi bisogno di attivare una conversazione con gli altri; le persone hanno bisogno di parlare, di raccontarsi. Sono belli i racconti perché celano la sorpresa. Quando mi capita di leggere le storie di sindacalisti, non solo della Cisl, la cosa più interessante, al di là dell’impegno sindacale, è ascoltare cosa erano prima, e perché sono arrivati lì e cosa hanno fatto dopo: queste sono le cose più potentemente originali. Bisogna creare questi spazi e avere voglia di mettersi in ascolto, alla base c’è una scelta che nasce da un desiderio. E’ la differenza che passa tra un insegnante che lo fa per passione e un insegnante che lo fa perché non ha altro da fare, per routine. Tutti i lavori “vocazionali”, compreso quello sindacale, hanno questo cuore pulsante emotivo-affettivo che non è facile, ma è insostituibile. Nella formazione sindacale, nei corsi, uno dei momenti più importanti è quando si sta a tavola insieme, perché li c’è una libertà affettiva maggiore, è li dove sgorgano i racconti, e di questi racconti non possiamo farne a meno.
Un articolo stimolante, mi convince l’immagine di un sindacato pigro che avrebbe bisogno trovare nuovi stimoli, di mettere a fuoco nuovi obiettivi attraverso le lenti dei cambiamenti sociali che la rivoluzione 4.0 produrrà. Come dice San Benedetto a Dante nel paradiso, “qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo”. Traslando il concetto alle organizzazioni moderne si potrebbe dire che Benedetto indica come solo perseverando nell’azione quotidiana ma avendo chiari gli obiettivi, si può alla fine realizzare la missione che si persegue, realizzare la visione di lungo periodo.
Non sono fermi i piedi se è mobile il cuore. L’unione dei due apre le porte del Paradiso.